Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 78178 volte)

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #255 il: Giugno 22, 2019, 09:49:34 am »
https://www.eastjournal.net/archives/98563

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MOLDAVIA: La crisi nasce da lontano
Francesco Magno  8 giorni fa

Questo pezzo è frutto della collaborazione tra East Journal e Osservatorio Balcani e Caucaso

Sabato 8 giugno la Moldova è salita agli onori delle cronache internazionali a seguito della nascita di un nuovo governo sostenuto da una coalizione formata dai social-democratici filorussi e il blocco ACUM, dichiaratamente favorevole a un legame sempre più stretto tra Chisinau e l’Unione Europea. Obiettivo di questa ambigua alleanza è mettere fuori gioco Vladimir Plahotniuc, leader del Partito Democratico di Moldavia (PDM) e più potente oligarca del paese. Il nuovo esecutivo, guidato dalla leader di ACUM, Maia Sandu ha ricevuto il sostegno congiunto di Bruxelles, Washington e Mosca, ma è stato quasi subito dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale moldava, su cui Plahotniuc esercita una pericolosa influenza. Il governo, sarebbe nato quando già erano scaduti i 90 giorni concessi per la formazione di un esecutivo dopo le elezioni.

Si è venuta a creare quindi una situazione di pericoloso stallo politico e istituzionale, con un governo legittimato dai più forti attori internazionali e con una maggioranza parlamentare da un lato, e la decisione vincolante della Corte Costituzionale dall’altro. Difficile prevedere oggi quali saranno gli sviluppi della vicenda. Per domenica sono previste nella capitale delle manifestazioni a favore del governo Sandu. E’ forse la prima volta dal 2014, anno dell’annessione della Crimea, che occidente e Russia si schierano dalla stessa parte per raggiungere un obiettivo politico condiviso. Tuttavia, ridurre la vicenda a un semplice accordo tra euro-americani e russi contro un nemico comune rischia di semplificare un quadro ben più complesso.

Certo è che quel che è accaduto sabato scorso non può essere slegato dalla visita, il 3 giugno scorso, del commissario UE per le politiche di vicinato e i negoziati per l’allargamento Johannes Hahn. questi, dopo aver incontrato tutti i principali leader di partito, ha ribadito la necessità impellente di un governo per la Moldova, paventando addirittura dei rischi estremamente concreti per il paese nel caso in cui non si fosse giunti al risultato, primo fra tutti una diminuzione degli aiuti economici provenienti da Bruxelles.

Quello stesso 3 giugno si trovavano a Chisinau anche Dmitri Kozak, rappresentante del Cremlino e autore del famoso memorandum Kozak promotore di una federalizzazione della Moldova, e Bradley Freden, responsabile dell’ufficio Europa orientale presso il dipartimento di stato americano. La presenza simultanea dei rappresentanti di Russia, Europa e Stati Uniti ha sicuramente dato un impulso decisivo alle negoziazioni per la formazione del nuovo governo, culminate poi con la nascita dell’esecutivo Sandu. I tre grandi attori internazionali si son trovati d’accordo nel rifiuto di una prosecuzione del binomio di potere formato da Plahotniuc dal presidente Igor Dodon, che negli ultimi anni ha monopolizzato la vita politica moldava.

Sebbene nelle ultime ore Dodon abbia pronunciato parole incendiarie contro Plahotniuc, i due hanno collaborato spesso, egemonizzando lo spettro politico del paese. Celebre è la famosa legge elettorale varata nel 2017 e figlia della collaborazione tra il PDM e il partito socialista di Dodon. Essa, trasformando il tradizionale sistema proporzionale moldavo in un sistema misto con parte dei parlamentari eletti tramite competizione in collegi uninominali ha mirato alla marginalizzazione politica del blocco pro-occidentale della Sandu. Nel contesto moldavo infatti la competizione in collegi uninominali facilitava i partiti più strutturati nel territorio e più propensi ad abusare del loro potere amministrativo.

Cosa si è rotto pertanto nel dialogo tra il potente oligarca e il presidente filorusso? E’ difficile credere che a Dodon interessi davvero liberare il paese dalle oligarchie. Più probabile è che la negoziazione personale tra i due sulla distribuzione del potere e delle influenze sia naufragata. Una trattativa provata anche da un video casualmente pubblicato da ‘Publika’ (un’emittente controllata dallo stesso Plahotniuc) proprio nella tumultuosa giornata di sabato che ritrae un incontro del 7 giugno. Nel video Dodon spiega a Plahotniuc come il partito socialista abbia puntualmente ricevuto sostegno finanziario dalla Russia, tramite Alexey Miller, amministratore delegato di Gazprom, e Dmitri Kozak, senza tuttavia entrare nel dettaglio delle operazioni. Il partito avrebbe ricevuto dal Cremlino più di 1 milione di dollari, secondo le stime di Dodon, il quale successivamente pone come condizione fondamentale per un accordo il famigerato progetto di federalizzazione.

L’accordo tra i due è naufragato, e il resto è storia. La Moldova, paese più povero d’Europa, rischia di uscire distrutta dalla crisi politica scoppiata nei giorni scorsi. Molto dipenderà ovviamente da come Europa, Stati Uniti e Russia, si porranno di fronte all’evolversi degli eventi e quanto vorranno impegnarsi nella soluzione della crisi sostenendo l’esecutivo Sandu.

Secondo l’analista romeno Dan Dungaciu, direttore dell’istituto di scienze politiche dell’accademia delle scienze romena, da sempre attento alle questioni moldave, la nascita del governo Sandu, visto come un ottimo segnale nella lotta alla corruzione e all’oligarchia, è segno in realtà di obiettivi più ampi perseguiti dalle grandi potenze. Plahotniuc è soltanto un pretesto per ridisegnare la situazione geopolitica del confine sud-orientale d’Europa, dal momento che “si dovrà discutere a un certo punto sia della soluzione del conflitto congelato in Transnistria sia di una soluzione di quello in Ucraina, e pertanto tutta la zona acquista un’importanza strategica fondamentale, sul futuro della quale tutti dovranno trovarsi d’accordo”.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #256 il: Giugno 22, 2019, 09:51:09 am »
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GEORGIA: Scontri a Tbilisi per la presenza di un politico russo in Parlamento
Aleksej Tilman  19 ore fa

Sono giorni di scontri a Tbilisi. Con la città carica di tensioni e divisioni legate all’organizzazione del gay pride, un altro caso, molto geopolitico, rischia di mettere in discussione la stessa maggioranza di governo.

Lo scorso 20 maggio, nella sede di Tbilisi del Parlamento georgiano, si è aperta la ventiseiesima Assemblea interparlamentare sull’ortodossia, un’organizzazione il cui scopo è favorire il dialogo tra paesi accomunati dalla confessione cristiana ortodossa. Il presidente dell’Assemblea, il parlamentare russo Sergej Gavrilov, è stato invitato a sedersi al posto normalmente assegnato allo Speaker dell’Assemblea legislativa georgiana.

Questo gesto, in apparenza innocuo, è bastato a scatenare un vespaio di polemiche nel paese caucasico, dove la Russia è considerata come una potenza occupante a causa del sostegno di Mosca a Ossezia del Sud e Abkhazia, le due repubbliche separatiste in territorio georgiano.

Un gruppo di parlamentari dell’opposizione è entrato nell’aula durante un intervallo. Elene Khoshtaria, un membro del Partito della Georgia europea, indosssando una bandiera georgiana, ha urlato: “Dov’è Gavrilov? Dov’è l’occupante?”, e, accompagnata da alcuni colleghi, ha strappato i fogli che contenevano il discorso del parlamentare russo, dichirando che l’evento non sarebbe andato avanti finchè la delegazione russa non avesse lasciato l’assemblea.

Gavrilov è stato velocemente scortato prima in albergo e poi all’areoporto e ha minacciato ritorsioni nei rapporti commerciali tra Russia e Georgia. Nel frattempo, una folla si è radunata sul viale Rustaveli, davanti al Parlamento. Durante la serata, la protesta è diventata violenta quando alcuni manifestanti hanno provato ad aprirsi la via all’interno dell’edificio. La polizia ha sparato pallottole di gomma e gas lacrimogeni per disperdere la folla e la manifestazione si è sciolta solo verso l’una e mezzo del mattino. Al momento, le cifre ufficiali parlano di 240 persone, inclusi 12 giornalisti e 80 poliziotti, ferite durante gli scontri.

Con il degenerarsi della situazione, la coalizione di governo del Sogno georgiano è dovuta correre rapidamente ai ripari. Bidzina Ivanishivili, l’eminenza grigia della politica del paese caucasico, si è detto in accordo con i manifestanti e ha spiegato che è inaccettabile che il rappresentante di uno stato occupante presieda una qualsiasi forma di assemblea in Georgia. La presidente, Salome Zurabishvili, ha criticato la scelta di invitare Gavrilov, ma ha anche condannato il tentativo della folla di entrare con la forza nell’edificio del Parlamento.

Nonostante le parole dei rappresentanti del governo, l’ondata di proteste non si è esurita. Questa mattina, il partito di opposizione Movimento Nazionale Unito ha indetto una nuova manifestazione per ottenere le dimissioni del Ministro dell’Interno, Giorgi Gakharia, e dello Speaker del Parlamento, Irakli Kobakhidze – quest’ultime arrivate poco dopo –, e spingere il paese ad elezioni parlamentari anticipate.

L’autogol della coalizione di governo e un uso della forza da parte delle forze di sicurezza che non si vedeva da anni in Georgia lasciano qualsiasi opzione aperta. Gli scontri di Tbilisi mostrano anche quanto politiche di apertura alla Russia trovino l’opposizione, quasi compatta, dell’opinione pubblica georgiana.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #257 il: Giugno 28, 2019, 21:27:15 pm »
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BOSNIA: Un paese senza governo, di nuovo
Angelo Massaro  2 giorni fa

Sono passati otto mesi dalle ultime elezioni in Bosnia Erzegovina e non si è ancora giunti ad un accordo per la formazione di un nuovo esecutivo. Allo stato attuale, le posizioni divergenti dei partiti bosniaci in merito al processo di adesione della Bosnia Erzegovina alla NATO sono tra gli ostacoli maggiori verso la risoluzione dello stallo istituzionale. Mentre la classe politica bosniaca resta divisa, gli organismi internazionali temono che il ritardo nella formazione del governo possa rallentare il consolidamento delle riforme necessarie al paese.

La NATO al centro della disputa

Un primo passo formale verso l’adesione della Bosnia Erzegovina alla NATO è stato compiuto lo scorso 5 dicembre, quando i ministri degli Esteri dei paesi dell’organizzazione euro-atlantica si sono espressi a favore dell’attivazione del Piano d’azione per l’adesione (Membership Action Plan, MAP). Il MAP, che è stato progettato come un programma di assistenza e sostegno pratico per i paesi che intendono aderire all’Alleanza Atlantica, è a sua volta subordinato alla preparazione di programmi annuali nazionali (National Annual Programme, ANP). In questi ultimi, i paesi interessati a una futura adesione alla NATO indicano alcune misure da attuare in campo militare, economico, giuridico e politico.

Mentre i rappresentanti dei partiti politici bosgnacchi si sono espressi a favore dell’attivazione del MAP, i serbo-bosniaci si oppongono. Questi ultimi, attraverso le posizioni dell’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti (SNSD) sono principalmente in contrasto con il principale partito conservatore bosgnacco, il Partito d’Azione Democratica (SDA). Entrambi i partiti si accusano a vicenda di causare l’attuale impasse istituzionale: se l’SDA pone l’attivazione del MAP come una condizione essenziale per la formazione del governo, l’SNSD rifiuta vivamente tale ipotesi, non dicendosi disposta ad accettare ulteriori misure per l’integrazione della Bosnia nella NATO.

La natura dello stallo istituzionale

Al momento l’SDA e l’SNSD, insieme ai croato-bosniaci dell’HDZ-BiH, sono riusciti a trovare un accordo solamente in merito alla distribuzione dei ministeri. Oltre alla paralisi sulla formazione del governo, l’inconciliabilità delle posizioni tra i partiti bosniaci è esemplificata dalla mancata costituzione del governo della Federazione di Bosnia Erzegovina – una delle due entità del paese – nonché dall’inattività degli organi parlamentari della Bosnia Erzegovina.

Sullo stallo politico del paese si sono espressi sia l’Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina , Valentin Inzko sia il Consiglio per l’attuazione della pace  (Peace Implementation Council, PIC) sottolineando entrambi la necessità di una formazione delle autorità esecutive e parlamentari a tutti i livelli di governo. Una posizione simile è stata espressa dalla Commissione europea nell’Opinione sulla domanda d’adesione della Bosnia Erzegovina all’Unione europea, dove è stata evidenziata la “necessità di coordinamento e armonizzazione delle posizioni politiche del paese, in particolare per quanto riguarda l’allineamento e l’attuazione della legislazione derivante dall’acquis dell’UE.” Mentre il Consiglio UE ha sostenuto che “la politica di partito e la mancanza di volontà di compromesso non dovrebbero bloccare le legittime aspirazioni dei cittadini bosniaci di avanzare verso l’Unione europea”.

Quando verrà superata l’impasse?

L’incapacità dei partiti bosniaci di risolvere l’attuale impasse politica è indice di una mancata lungimiranza della classe dirigente, interessata a porre veti piuttosto che fornire soluzioni concrete ai problemi della cittadinanza. Il costo di queste inadempienze ricade in larga misura sulle nuove generazioni, sempre più propense ad abbandonare il paese in ricerca di migliori opportunità lavorative. Come sottolineato dal Rapporto analitico 2019 della Commissione europea la disoccupazione giovanile si attesterebbe intorno al 40%, comprovando, oltre alla sfiducia crescente verso le istituzioni, la grave mancanza di prospettive di realizzazione personale nel proprio paese. In aggiunta a questi fattori, l’aumento estivo dei flussi migratori attraverso la Bosnia Erzegovina costituisce una problematica ulteriore per le autorità locali. Con il protrarsi della crisi istituzionale nel paese vi è il rischio di fornire risposte ancora più insufficienti riguardo la gestione dei transiti, a discapito delle popolazioni locali, dei migranti e delle associazioni che lavorano sul campo.

Alla luce di quanto espresso, la risoluzione dell’attuale stallo istituzionale richiede un’assunzione condivisa di responsabilità tra i maggiori partiti bosniaci. Secondo il leader del HDZ-BiH Dragan Cović, l’esecutivo verrà formato a breve, un’opinione che tuttavia non sembrerebbe essere pienamente condivisa dagli esponenti degli altri schieramenti in campo. Per Bakir Izetbegović, presidente del partito bosgnacco SDA, il blocco istituzionale verrà sciolto soltanto se i partiti troveranno un compromesso sul processo di adesione alla NATO. Mentre il leader dei serbo-bosniaci del SNSD, Milorad Dodik, non si dice al momento ottimista sul raggiungimento di un accordo tra le parti. Nel frattempo a pagarne le conseguenze sono i cittadini bosniaci, ormai scoraggiati da otto mesi di lunghe attese e preoccupati che ulteriori rallentamenti possano minare il normale funzionamento dei vari livelli di governo nel paese

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #258 il: Giugno 28, 2019, 21:28:59 pm »
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ALBANIA: Alle elezioni amministrative un paese sull’orlo di una crisi di nervi
Pietro Aleotti  3 giorni fa

Da mesi ormai l’Albania è attraversata da pulsioni di piazza che non sembrano avere tregua. Avevano iniziato gli studenti universitari a cavallo di fine anno, ha proseguito, senza soluzione di continuità, l’opposizione parlamentare al governo socialista di Edi Rama, quella della compagine di centrodestra del Partito Democratico guidata da Lulzim Basha. Tra le due cose, è bene precisarlo, non vi è alcuna correlazione, né politica né di intenti, se non la mera coincidenza temporale. Ma è un fatto che esse rappresentino, entrambe, un paese in crisi politica e sull’orlo di una crisi di nervi.

Elezioni sì, elezioni no, elezioni forse…

E’ in questo clima di veleni che il paese si appresta a recarsi alle urne il prossimo 30 giugno, per una tornata elettorale amministrativa. Elezioni che l’opposizione di Basha boicotterà non presentando propri candidati in segno di protesta contro un governo, a suo dire, illegittimo e corrotto. L’Albania non è certo nuova a queste prese di posizione e, storicamente, i partiti d’opposizione hanno brandito un vasto campionario di minacce, più o meno credibili, più o meno gravi, portando i propri sostenitori per strada e spaccando la popolazione albanese in una contrapposizione più simile a quella delle tifoserie da stadio che a quella di parti che, legittimamente, si confrontano nell’alveo del riconoscimento reciproco.

Ma la tensione e la confusione, anche istituzionale, di queste giornate di vigilia ha davvero pochi precedenti ed è, anzi, per certi versi inedita. L’8 giugno scorso, con una mossa a sorpresa, il presidente della Repubblica, Ilir Meta, ha annullato il decreto riguardante la data delle elezioni rimandandole a data da destinarsi, motivando tale decisione come conseguenza del fatto che nessuna delle parti si è impegnata a risolvere la crisi politica e facendo un preciso riferimento al fatto che, a causa del boicottaggio dell’opposizione di centrodestra, le elezioni non sarebbero state “vere, rappresentative e inclusive”. L’ennesimo capitolo, questo, della saga che vede come protagonisti il presidente Meta e il primo ministro socialista Edi Rama, da sempre in aperta polemica e, spessissimo, in aspra contrapposizione, nonostante sia stato Rama stesso il vero fautore dell’elezione di Meta a presidente.

La reazione di Rama non si è fatta attendere: bollando, senza mezzi termini, l’estemporanea iniziativa del presidente e le prese si posizione dell’opposizione come “comportamenti di un gruppo disperato, costretti a perdere disperatamente”, il premier ha confermato lo svolgimento delle elezioni secondo quanto previsto. Posizione ribadita dal parlamento e dalla commissione elettorale centrale (monopolizzati, entrambi, dal partito socialista a seguito dell’auto-esclusione di gran parte delle opposizioni) che, a stretto giro, ha annullato il decreto presidenziale dando il via libera definitivo al “regolare” svolgimento delle elezioni. In questo marasma di decreti e contro-decreti si è sentita, più che mai, l’assenza di una Corte Costituzionale funzionante, paralizzata da tempo per mancanza di giudici.

Opposizione, tra moti di piazza e boicottaggio

Fallita la via maestra del decreto presidenziale, l’opposizione ha proseguito con quella ben più collaudata dei moti insurrezionali. Con un novità, però: ai soliti tumulti e alle consuete rimostranze a base di vetrine rotte e lacrimogeni che sono, ormai, cronaca quotidiana in tutto il paese, se n’è aggiunta una, per certi versi più preoccupante ed eversiva.

Quella in atto in alcune municipalità governate dal Partito Democratico, dove si sta perpetrando un vero e proprio ostruzionismo al libero svolgimento delle elezioni: il sindaco di Scutari, da esempio, la democratica Voltana Ademi, ha schierato le forze di polizia davanti ad uno degli uffici elettorali impedendo l’ingresso ai membri della commissione elettorale. A Tropoja i dipendenti del municipio guidati dal primo cittadino democratico, Besnik Dushaj, hanno preso possesso del materiale elettorale e l’hanno buttato per strada. Più in generale tutti i municipi a guida democratica (ma anche quelli governati dell’altro partito d’opposizione, il Movimento Socialista per l’Integrazione fondato dallo stesso Meta) hanno invocato la chiusura degli uffici elettorali a seguito dal decreto presidenziale e l’annullamento delle elezioni.

La tenuta democratica a rischio

Non è ben chiaro, allo stato, come andrà a finire. Quello che è chiarissimo, invece, è che l’atteggiamento di Basha appare politicamente fallimentare e strategicamente autolesionistico. Storicamente, l’isolamento e l’auto-esclusione, quello che in Italia chiameremmo “Aventino”, non hanno portato bene a chi l’ha promosso e, stanti così le cose, Basha sta consegnando il paese nelle mani di Rama e del Partito Socialista. Il che potrebbe sembrare addirittura paradossale se non fosse che il leader del centrodestra sta giocando col fuoco, con la credibilità dell’intero paese e, persino, con la tenuta democratica dell’Albania.

Non è un caso che, proprio in queste settimane, il processo di adesione dell’Albania all’Unione europea abbia subito un drastico raffreddamento. Sebbene le ragioni di tale raffreddamento siano di natura geopolitica più complessiva, non tutte nobilissime, è del tutto evidente che la posizione dell’Albania appare oggi più fragile alla luce dello spettacolo deprimente che la propria classe dirigente sta offrendo a chi la guarda.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #259 il: Giugno 28, 2019, 21:31:08 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Macedonia-del-Nord/Macedonia-del-Nord-Skopje-tiene-il-suo-primo-Pride-195360

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Macedonia del Nord, Skopje tiene il suo primo Pride

Domani Skopje tiene il suo primo Pride, col sostegno di rilevanti rappresentanti delle istituzioni. Un importante passo in avanti per i diritti della comunità LGTBI della Macedonia del Nord, in un contesto storicamente difficile

28/06/2019 -  Ilcho Cvetanoski   Skopje
Con la prevista considerevole protezione della polizia, circa 500 attivisti e sostenitori LGBTI daranno vita alla prima Pride Parade di Skopje sabato 29 giugno. Il comitato organizzatore, la "Rete nazionale contro l'omofobia e la transfobia", ha annunciato che l'inizio dell'evento è programmato per le ore 11 presso il parco Woman Warrior nel centro della capitale.

"La sfilata dell'orgoglio sarà una forma di protesta per l'affermazione, il sostegno e la protezione dei diritti umani delle persone LGBTI nella Macedonia del Nord", ha detto durante la conferenza stampa a Skopje Antonio Mihajlov, un attivista LGBTI.

Oltre agli attivisti LGBTI dei paesi vicini, sono attesi al Pride anche politici macedoni di alto profilo. Tra loro ci sarà il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Mila Carovska, che dovrebbe rivolgersi gli attivisti alla fine della sfilata. Inoltre, il presidente eletto Stevo Pendarovski e il sindaco di Skopje Petre Shilegov hanno annunciato la propria presenza, dando così all'evento il necessario supporto politico.

La registrazione dei partecipanti e l'inizio della marcia avranno luogo al parco Woman Warrior nel centro della città. La sfilata dovrebbe iniziare a mezzogiorno e terminare verso le 13 nel principale parco cittadino, ma l'evento continuerà per molte altre ore con numerosi concerti. La rappresentante del paese all'Eurovision di quest'anno, Tamara Todevska, canterà la sua canzone "Proud". Il Pride dovrebbe terminare dopo le 16:00.

La Macedonia del Nord, insieme alla Bosnia Erzegovina, era l'unico paese balcanico a non aver mai organizzato un Pride. Questo cambierà a partire da domani. Da alcune dichiarazioni, pare che Sarajevo seguirà l'esempio di Skopje e terrà la sua prima sfilata arcobaleno entro la fine del 2019. Tuttavia, a prescindere dai segnali positivi, la situazione generale nella regione non è così positiva. La Macedonia del Nord ha depenalizzato l'omosessualità nel 1996, ma da allora non sono stati fatti progressi importanti nei diritti delle persone LGBTI.

Diritti LGBTI
L'organizzazione del Pride è un passo nella giusta direzione, ma anche oggi le persone LGBTI rimangono la comunità più emarginata dello stato, oggetto di quotidiane aggressioni fisiche, incitamento all'odio e discriminazione.

"La violenza e l'inefficiente protezione dalla violenza, dalla discriminazione, dall'impunità per l'incitamento all'odio, dall'elevato rischio di diventare senzatetto, dall'accesso limitato alle posizioni lavorative e così via sono tra i principali problemi che le persone LGBTI devono affrontare quotidianamente", ha detto a OBCT un rappresentante del Centro di supporto LGBTI di Skopje.

La cupa situazione è stata descritta in dettaglio da numerose organizzazioni internazionali. Nell'estate 2015, il National Democratic Institute (NDI) ha condotto una ricerca sulle principali questioni LGBTI nei Balcani. Il sondaggio ha mostrato che "la maggioranza degli intervistati in Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia (del Nord), Montenegro e Serbia ha bassi livelli di conoscenza sulle comunità lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali, e di conseguenza un livello alto di resistenza a conferire uguali diritti e opportunità indipendentemente da orientamento sessuale e identità di genere". Sul versante positivo, i residenti giovani, istruiti e urbani mostrano un supporto visibile per i diritti LGBTI.

La Universal Periodic Review delle Nazioni Unite, che comporta un'analisi dello stato dei diritti umani in tutti gli stati membri sotto gli auspici del Consiglio dei diritti umani, durante la valutazione della Macedonia del Nord che si è svolta il 24 gennaio 2019, si è concentrata principalmente sui diritti delle persone rom e LGBTI come i gruppi più vulnerabili del paese.

Secondo l'Annual Review di ILGA (International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association), l'anno scorso la Macedonia del Nord era al 41° posto su 49 paesi europei. Quest'anno è al 34°, tra Cipro (33°) e Italia (35°).

Tuttavia, secondo gli attivisti LGBTI, la situazione sul campo è rimasta più o meno la stessa. A riprova di questa conclusione, vengono riportati i costanti attacchi al Centro LGBTI a Skopje e l'impunità per tali incidenti. Inoltre, discorsi di odio e discriminazione sono onnipresenti in una parte significativa della società macedone. Indipendentemente dal background politico, etnico o religioso, parte della società è unita nella discriminazione contro la comunità LGBTI.

Uranija Pirovska, presidente del Comitato Helsinki per i diritti umani della Macedonia del Nord, ha dichiarato ai media che uno dei passi nella giusta direzione sarebbe identificare e perseguire tutti gli autori degli attacchi al Centro LGBTI.

"Questo sarà un definitivo segnale dell'esistenza della volontà politica di affrontare tali questioni e cambiare il clima per la comunità LGBTI", ha detto Pirovska.

Attacchi al Centro LGBTI
Incidenti e attacchi sono iniziati subito dopo l'apertura del Centro nell'ottobre 2012, nel vecchio bazar di Skopje. Poche ore dopo il termine dell'evento, verso le 3.30 del mattino, diverse persone hanno lanciato pietre contro il Centro. Due mesi dopo, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, teppisti sconosciuti hanno disegnato una svastica sulle barre protettive di metallo del Centro e scritto "Tremiti", facendo riferimento alle Isole Tremiti dove Benito Mussolini imprigionò centinaia di omosessuali. La notte successiva il Centro è stato nuovamente attaccato nel tentativo di incendiarlo.

"Gli attacchi al Centro sono stati la concretizzazione di precedenti dichiarazioni omofobiche e transfobiche, minacce e pressioni portate avanti con lo scopo di fermare l'apertura di tale istituzione", hanno spiegato a OBCT i rappresentanti del Centro.

Gli incidenti sono continuati negli anni seguenti. Nel marzo 2013, il Centro è stato attaccato da una folla di vandali che hanno causato danni significativi alla proprietà. L'incidente è stato registrato sulla telecamera di sicurezza. Tre mesi dopo, il 22 giugno 2013, il Centro LGBTI è stato nuovamente attaccato, questa volta durante l'evento della Pride Week, mettendo in pericolo la sicurezza di 40 ospiti.

L'anno successivo, nell'ottobre 2014, circa 20 teppisti incappucciati hanno vandalizzato il caffè Damar nell'Antico Bazar, dove la comunità LGBTI festeggiava il secondo anniversario del Centro. Durante gli incidenti, come riportato dai media, una donna è stata ferita alla testa da una bottiglia lanciata dai teppisti. Fino ad oggi nessuno di questi tentativi di danneggiare o incendiare il Centro è stato chiarito, mentre i responsabili rimangono non identificati.

Sulla strada giusta
L'organizzazione del Pride di quest'anno, insieme al sostegno dei più alti funzionari statali, è sicuramente un grande passo avanti considerando la mancanza di azioni positive mostrata dal precedente governo conservatore, guidato dal VMRO-DPMNE di Nikola Gruevski. Dopo l'adozione di quest'anno della nuova legge sulla prevenzione e la protezione contro la discriminazione, che per la prima volta vieta la discriminazione basata sull'orientamento sessuale e l'identità di genere, il paese si sta muovendo verso una società più inclusiva e tollerante.

Il nuovo ministro dell'Istruzione si è impegnato a rivedere alcuni libri di testo e cancellare o riscrivere le affermazioni discriminatorie che vi sono contenute, ad esempio "l'omosessualità è una stasi dello sviluppo psico-sociale ad un livello inferiore" e "le relazioni omosessuali sono parassitarie rispetto a quelle eterosessuali".

ILGA-Europe ha sottolineato che la Macedonia del Nord dovrebbe adottare leggi contro l'incitamento all'odio con menzione esplicita di tutte le motivazioni (orientamento sessuale, identità di genere, caratteristiche sessuali), mentre i social media sono invasi dall'incitamento all'odio dopo l'annuncio della parata imminente.

A giudicare dalle esperienze precedenti e dalle attuali reazioni dei cittadini, servono ancora molti passi per arrivare ad una società inclusiva. Il Pride è un passo in quella direzione, ma ciò non porterà i cambiamenti attesi finché ci sarà impunità per l'incitamento all'odio e gli assalti motivati dall'odio. Il segno del successo sarebbe avere la Skopje Pride Parade senza necessità di protezione della polizia.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #260 il: Giugno 28, 2019, 23:41:56 pm »
Poteva mancare il pride anche nell'Europa dell'Est?
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #261 il: Luglio 05, 2019, 20:58:12 pm »
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ALBANIA: Il dopo elezioni, tutti vincenti, tutti perdenti
Pietro Aleotti  2 giorni fa

Mutuando la battuta di una nota campagna pubblicitaria, si potrebbe dire che a Edi Rama, primo ministro albanese socialista, in carica dal 2013, “piace vincere facile”. Questo perché alle elezioni amministrative di domenica scorsa, nei 61 comuni dove si è votato, i candidati del Partito Socialista (PS) hanno vinto a mani basse. Non si può dire che abbiano vinto sbaragliando la concorrenza, tuttavia, perché in oltre metà dei casi, il candidato socialista era l’unico in lizza e nelle rimanenti municipalità il contendente apparteneva a liste largamente minoritarie e poco rappresentative.

Astensione protagonista: una vittoria per l’opposizione?

Questa situazione, che ricordava vagamente (ma nemmeno troppo), i tempi in cui al governo c’era il partito unico, quello comunista di Enver Hoxha, e il muro di Berlino era ancora ben saldo al suo posto, si è venuta a creare, come noto, in conseguenza del boicottaggio promosso e portato fino a compimento dalle opposizioni. Lulzim Basha, leader del Partito Democratico (PD, compagine di centro destra) e Monika Kryemadhi, capo del Movimento Socialista per l’Integrazione (LSI), nonché moglie del presidente della Repubblica Ilir Meta, entrambi all’opposizione, non hanno infatti anteposto alcun candidato: questo, all’apice di un periodo di proteste in atto da mesi in tutto il paese, non privo di manifestazioni violente e disordini di piazza.

Stanti così le cose, la vera cartina di tornasole per capire come effettivamente siano andate le elezioni, chi le abbia vinte e chi perse, è quella relativa al dato dell’affluenza: e ciò, anche, in ragione del fatto che Basha, alla vigilia del voto, aveva esortato i cittadini albanesi a disertare le urne restandosene a casa. E il dato dell’affluenza è, effettivamente, molto basso, poco superiore al 20%: una percentuale che appare in tutto il suo significato se raffrontata non solo al valore di affluenza media che in Albania è pari al 50% circa (elezioni nazionali), ma soprattutto, se comparato al risultato elettorale del Partito Socialista negli ultimi due decenni.

Dal 2001 il Partito Socialista è stabilmente oltre il 40% e alle ultime elezioni politiche, quelle del 2017, aveva addirittura sfiorato la maggioranza assoluta assicurandosi oltre il 48% dei consensi. Al netto del fatto che le elezioni politiche nazionali non sono quelle amministrative e che il boicottaggio delle opposizioni non ha certo incentivato la corsa ai seggi elettorali nemmeno dei fedelissimi di Rama, il dato politico resta, ed è, piuttosto impressionante. Ne è ben consapevole Rama stesso che, infatti, nelle dichiarazioni a caldo post-voto ha immediatamente dato disponibilità ad aprire un confronto con le opposizioni con toni concilianti che, in Albania, non si vedevano da un bel pezzo (“se l’opposizione vuole la pace, allora l’avrà”). E ne sono ben consapevoli i leader delle opposizioni: la Kryemadhi, in particolare, ha parlato di “tentativo fallito di istituire uno stato dittatoriale” dicendosi certa che “l’85% degli albanesi è nostro alleato”.

L’auto-esclusione: un favore alla maggioranza?

Vista da fuori, tuttavia, la presunta vittoria delle opposizioni appare in tutta evidenza come quella, epica, di Pirro. A riassumere perfettamente questo sentimento, per non dire questa certezza, è Jozefina Topalli, ex presidente del parlamento albanese ed esponente del Partito Democratico, che in un post pubblicato sulla propria pagina Facebook, definisce come “tradimento” dei propri sostenitori la linea dettata da Basha, annotando amaramente che “il PD non ha più alcun potere” e che, in pratica, “non esiste più”.

Difficile dare torto alla Topalli, difficile non vedere che il duo Basha- Kryemadhi si sia, nei fatti, infilato in un cul de sac: se l’atteggiamento “aventiniano” non dovesse cambiare, infatti, né il PD, né l’LSI potranno essere parte attiva nelle predisposizione di quelle riforme di cui l’Albania si dovrà dotare nei prossimi mesi, quella della giustizia in primis. Né, tanto meno, potranno giocare alcun ruolo nel definire la composizione di alcuni organi statali di fondamentale importanza, come la corte costituzionale, ad esempio, congelata da mesi per mancanza di giudici.

Un futuro di cooperazione?

L’auspicio, corroborato dall’approccio inusualmente accomodante di Rama, è che queste elezioni amministrative abbiano rappresentato il fondo del barile di una crisi politico-istituzionale senza precedenti nella storia recente albanese. Crisi ulteriormente fomentata dall’atteggiamento del presidente della Repubblica che, abbandonato il proprio ruolo super-partes, è diventato parte attiva della disputa politica, arrivando ad evocare presunte (e non comprovate) teorie cospirative per destabilizzare l’Albania: il suo tentativo, poi abortito, di posporre, se non addirittura annullare, le elezioni del 30 giugno, poteva apparire come un endorsment politico all’azione delle opposizioni se non, addirittura, giustificazionista dell’atteggiamento ostruzionistico e persino violento da loro promosso.

Se effettivamente si sia toccato il fondo potremmo dirlo solo nelle settimane e nei mesi prossimi, così come servirà tempo per capire se ci troviamo di fronte ad una possibile collaborazione tra maggioranza e opposizione o, magari, ad un governo di unità nazionale. Fa ben sperare, in questa direzione, il fatto che la giornata di domenica sia passata senza i temutissimi scontri, in un clima tutto sommato sereno, cosa nient’affatto scontata alla vigilia. La tenuta democratica sembra esserci stata, la crisi istituzionale scongiurata. Tira un sospiro di sollievo l’Europa (e non solo) che, ad ottobre, dovrà riaprire il fascicolo Albania e decidere, una buona volta, cosa fare.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #262 il: Luglio 05, 2019, 21:01:13 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Ex-Jugoslavia-i-politici-non-vogliono-la-verita-sulle-guerre-di-dissoluzione-195486

Citazione
Ex Jugoslavia: i politici non vogliono la verità sulle guerre di dissoluzione
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Srebrenica, 2013 (© umut rosa / Shutterstock.com)

Oggi si chiude a Poznań il vertice annuale del Processo di Berlino. Presenti anche i rappresentanti di molte organizzazioni della società civile, tra cui REKOM, che da anni si batte per istituire una commissione regionale sui crimini di guerra e sull'accertamento delle vittime dei conflitti della disgregazione jugoslava

05/07/2019 -  Radomir Kračković
(Pubblicato originariamente da Deutsche Welle  il 30 giugno 2019 tit. orig. "Političari ne žele istinu o ratu i zločinima devedesetih")

Il vertice annuale del Processo di Berlino, che si svolge a Poznań dal 3 al 5 luglio, è un’occasione per discutere della prospettiva europea dei paesi dei Balcani occidentali e della cooperazione economica. Al summit di Poznań partecipano anche i rappresentanti delle organizzazioni della società civile attive nei Balcani occidentali, che hanno l’opportunità di presentare le loro attività, tra cui spicca per importanza un’iniziativa che, pur essendo avviata undici anni fa, ancora fatica a concretizzarsi.

Si tratta dell’iniziativa REKOM, acronimo di Commissione regionale per l’accertamento dei fatti relativi ai crimini di guerra e ad altre gravi violazioni dei diritti umani commesse sul territorio dell’ex Jugoslavia nel periodo compreso tra il 1 gennaio 1991 e il 31 dicembre 2001.

Nel 2008 è stata creata la Coalizione per REKOM, che ad oggi raccoglie oltre 2000 organizzazioni non governative per la difesa dei diritti umani, attive nei paesi nati dalla dissoluzione della Jugoslavia, diverse associazioni degli ex internati dei campi di concentramento, degli sfollati e delle famiglie delle persone scomparse durante le guerre degli anni Novanta, nonché numerosi intellettuali di spicco.

La Coalizione si batte affinché venga istituita una commissione riconosciuta da tutti i paesi ex jugoslavi e incaricata di accertare i fatti relativi alle tragiche vicende degli anni Novanta, più precisamente di creare un elenco di tutte le vittime, sia civili che militari, delle guerre jugoslave; di appurare le circostanze della loro morte o scomparsa, e di creare un registro dei campi di concentramento in ex Jugoslavia.

L’iniziativa ha raccolto finora circa 600mila firme nei paesi ex jugoslavi, ma la commissione non è ancora stata istituita a causa della mancanza di volontà politica di alcuni paesi della regione. REKOM ha infatti ottenuto l’appoggio formale dei capi di stato di Serbia, Montenegro, Kosovo e Macedonia del Nord, ma manca ancora l’appoggio di Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia.

Difficile aspettarsi una svolta al summit di Poznań
Circa un mese fa, una delle promotrici dell’iniziativa REKOM e nota attivista per i diritti umani Nataša Kandić ha invitato i leader dei paesi dell’ex Jugoslavia a sostenere l’istituzione di REKOM. Oggi, tuttavia, non è particolarmente ottimista al riguardo.

"Temo che a Poznań non sarà firmata la Dichiarazione sull’istituzione di REKOM, anche se ci aspettavamo che venisse firmata, considerando che la Commissione europea ha fortemente sostenuto l’iniziativa alla riunione dei ministri [degli Esteri] dei paesi della regione, tenutasi a Varsavia nell’aprile 2019. Nel frattempo, la Presidenza della Bosnia Erzegovina e la Croazia non hanno nominato i propri esperti giuridici nel Gruppo di lavoro per la finalizzazione della Bozza dello Statuto di REKOM, ragione per cui il Gruppo di lavoro non ha potuto proseguire nella propria attività", spiega Nataša Kandić.

Alla domanda perché alcuni leader dei paesi della regione sono restii ad appoggiare l’iniziativa REKOM, Vesna Teršelič, direttrice di “Documenta” (Centro per l’elaborazione del passato) di Zagabria, risponde che alcuni politici temono che, qualora decidessero di sostenere REKOM, potrebbero perdere il potere.

"Nelle nostre società polarizzate e traumatizzate, i politici temono di perdere consensi, soprattutto su questioni delicate, come quelle relative all’interpretazione della guerra, che da queste parti spesso vengono usate per creare miti e fomentare l’intolleranza. Per i leader politici rendere giustizia alle vittime non è una priorità. Nessuna sorpresa quindi se manca ancora la volontà politica di istituire REKOM", afferma Teršelič.

La direttrice di Documenta aggiunge inoltre che la Croazia, che all’epoca in cui Ivo Josipović era presidente della Repubblica ha fornito un forte sostegno all’iniziativa REKOM, oggi si rifiuta di sottoscrivere la Dichiarazione sull’istituzione di REKOM.

"Gli esponenti del governo croato partono dal presupposto che la Croazia sia in grado di stabilire, senza l’aiuto di nessuno, tutti i fatti relativi non solo alla guerra in Croazia, ma anche a quella in Bosnia Erzegovina. Inoltre, la Croazia e la Slovenia sono membri a pieno titolo dell’Unione europea e non devono più sforzarsi di dare di sé l’immagine migliore possibile", spiega Teršelič.

Per quanto riguarda la Bosnia Erzegovina, ad ostacolare la creazione di REKOM sono le autorità della Republika Srpska. "Il membro serbo della Presidenza della Bosnia Erzegovina Milorad Dodik ha implicitamente affermato che REKOM per loro è inaccettabile perché l’accertamento dell’identità delle vittime e delle circostanze della loro morte sarebbe basata sulle sentenze del Tribunale dell’Aja", afferma Nataša Kandić.

Tamara Milaš, del Centro per l’educazione civica (CGO) di Podogorica, concorda sul fatto che il confronto con il passato sia una questione che non si presta a facili consensi, sottolineando però che il Montenegro ormai da tempo ha assunto un atteggiamento positivo nei confronti dell’iniziativa REKOM.

"L’anno scorso il governo montenegrino ha adottato un rapporto in cui ha espresso il proprio sostegno all’iniziativa REKOM. Così il Montenegro è diventato il primo paese della regione a dare pieno sostegno politico a questa iniziativa", spiega Milaš, aggiungendo tuttavia che l’appoggio fornito a REKOM non ha comportato alcun cambiamento nell’atteggiamento del governo di Podgorica nei confronti dei crimini di guerra commessi in Montenegro. "Le autorità montenegrine si impegnano sistematicamente per far dimenticare i crimini di guerra accaduti sul territorio del Montenegro e quelli commessi da cittadini montenegrini", afferma Milaš.

Investire nel futuro
Le nostre interlocutrici concordano sul fatto che negli ultimi anni l’ascesa dei movimenti populisti e nazionalisti abbia contribuito a relegare in secondo piano la questione del confronto con il passato e a rafforzare la riluttanza ad assumersi le proprie responsabilità e a riconoscere le vittime di nazionalità diversa dalla propria.

Vesna Teršelič ritiene che REKOM possa contribuire a “porre simbolicamente fine alle guerre” jugoslave e a superare i traumi. "[REKOM] ridurrebbe la possibilità di negare i crimini e al posto dell’attuale clima di intolleranza creerebbe uno spazio per riflettere criticamente sulle politiche sbagliate e su come costruire una società sana", spiega Teršelič, aggiungendo che non solo le persone che hanno vissuto la guerra, ma anche le nuove generazioni hanno bisogno di sapere la verità.

"Senza piena verità non c’è vera riconciliazione. Per noi il vero confronto con il passato è fondamentale per affrontare il futuro", afferma Tamara Milaš.

Stando alle sue parole, i paesi ex jugoslavi potrebbero contribuire alla riconciliazione anche attraverso altri meccanismi, come i programmi di riparazione delle vittime. "Bisognerebbe creare un unico sistema di riparazione delle vittime a livello regionale. Ciò implicherebbe l’accertamento dei fatti relativi alle vittime e ai luoghi dei crimini, riparazioni adeguate, lo sviluppo della cultura della memoria attraverso la costruzione di memoriali e monumenti e la creazione di materiali didatici adeguati, ma anche le attività volte ad evitare che simili crimini si ripetano in futuro", spiega Milaš.

Nataša Kandić dice che alla società civile non resta che continuare ostinatamente a esercitare pressioni sui politici. "Tuttavia, senza l’aiuto dell’Unione europea difficilmente riusciremo a far sì che i politici si rendano conto delle loro responsabilità nei confronti del passato e del futuro. I nostri politici non capiscono che investire nella riconciliazione significa investire nel futuro", conclude Kandić.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #263 il: Luglio 05, 2019, 21:03:16 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-il-diritto-allo-stato-di-diritto-195519

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Bosnia Erzegovina, il diritto allo stato di diritto
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Manifestazione per chiedere giustizia tenutasi lo scorso sabato a Sarajevo (foto di Alfredo Sasso)

Le morti di Dženan e David sono solo alcuni dei “casi silenziati”, i tanti episodi di malagiustizia che stanno agitando la Bosnia Erzegovina negli ultimi anni. Da qui è sorta una delle poche mobilitazioni capaci di attraversare i confini amministrativi e quelli cosiddetti “etnici” del paese nel dopoguerra

05/07/2019 -  Alfredo Sasso
"Mio fratello è un simbolo di lotta e resistenza, e voi siete la dimostrazione che non tutti in questo paese hanno una pietra al posto del cuore". Anche quando è rotta dall’emozione, la voce di Arijana Memić risuona forte nella piazza del Teatro nazionale di Sarajevo, di fronte a circa un migliaio di manifestanti, sotto il sole torrido di questo sabato di fine giugno. Arijana è la sorella di Dženan Memić, ragazzo di 22 anni morto a Sarajevo nel febbraio 2016 in circostanze ancora non chiarite dalla giustizia, e su cui proprio in questi giorni si sta riaprendo l’ennesima e contestata fase processuale.

La morte di Dženan è uno dei “casi silenziati”, i tanti episodi di malagiustizia che stanno agitando la Bosnia Erzegovina negli ultimi anni: omicidi irrisolti, incidenti sospetti, abusi e omissioni degli organi giudiziari e di sicurezza. Da qui è sorta una delle poche mobilitazioni capaci di attraversare i confini amministrativi e quelli cosiddetti “etnici” del paese nel dopoguerra. In piazza, insieme al collettivo di Pravda za Dženana (“Giustizia per Dženan”), sono rappresentate tante cause: Edita Malkoć e Selma Agić, due studentesse universitarie sarajevesi uccise da un pirata della strada nel 2016; Jovan Arbutina, giovane di Banja Luka investito nel 2015; Harun Mujkić, undicenne di Zenica morto a scuola, nel 2014, con una sospetta frattura alla testa; e poi Ivona Bajo di Bijeljina, Nikola Djurović di Banja Luka e tanti altri, tutti giovanissimi.

Arrivato in massa con diversi pullman da Banja Luka, in questa piazza c’è anche il movimento fratello di Pravda za Dženana: è quello di Pravda za Davida (“Giustizia per David”), che chiede giustizia per il caso di David Dragičević, il 21enne ucciso a Banja Luka nel marzo 2018. Movente e colpevoli restano ignoti dopo una serie sofisticata di omissioni e insabbiamenti da parte delle autorità. Dopo un presidio non-stop durato nove mesi che l’ha trasformato in un attore centrale della vita pubblica bosniaca, dallo scorso dicembre Pravda za Davida è oggetto di una dura repressione da parte delle autorità della Republika Srpska (una delle due entità della Bosnia Erzegovina, di cui Banja Luka è capitale).

Le fotografie
 
Sabato 29 giugno centinaia di manifestanti si sono riuniti nella capitale bosniaca per esprimere sostegno ai genitori di David Dragičević e Dzenan Memić uccisi in circostanze ancora non chiare e per chiedere che venga rispettato lo stato di diritto. Foto di Alfredo Sasso

Il papà di David, Davor Dragičević, ha mandato un saluto in diretta video dall’Austria, dove risiede temporaneamente per sfuggire all’arresto (proprio a seguito delle proteste in cui ha chiesto verità per il figlio). Così gli ha risposto dalla piazza Muriz Memić, il papà di Dženan: "Il mio fratello Davor cerca la verità per suo figlio. Sia Davor che io ce lo meritiamo. Invito l’attuale presidente Milorad Dodik a venire oggi in piazza, perché veda quanta umanità c’è qui". Appena la piazza sente il nome di Dodik (già leader della Republika Srpska e considerato il mandante della repressione contro il movimento) partono bordate di fischi. Lo stesso succede quando si nomina Bakir Izetbegović, ex-presidente statale e leader dei nazionalisti bosgnacchi, insieme a Dodik visto come il volto della politica bosniaca dell’ultimo decennio, e quindi del malfunzionamento dello stato e della giustizia.

Tutte queste cause sono apparentemente lontane per geografia, moventi e sviluppi dei casi, ma hanno trovato un terreno comune, fondato sulla lotta contro l’impunità e sulla rivendicazione di un paese normale. Nessuna di queste cause è nata come “politica”, un’etichetta costantemente rifiutata con sdegno. Eppure tutti sollevano i problemi nevralgici dell’etnopoli bosniaca (e non solo, a guardare lo scenario europeo di oggi): lo stato di diritto, la minima credibilità degli organi di giustizia e sicurezza, il diritto all’incolumità individuale, persino la libertà d’espressione.

In piazza c’è Suzana Radanović, la madre di David Dragičević, diventata ormai un’icona del coraggio civile in Bosnia Erzegovina per avere sfidato i divieti a manifestare e i muri di gomma che circondano l’omicidio del figlio. Decine di persone, prevalentemente donne e anziane, fanno letteralmente la fila per salutarla e abbracciarla. "Oggi è stata una bella manifestazione - spiega a OBC Transeuropa - per me è importante che qui si possa cantare la canzone di David, o meglio, che la gente possa cantarla: io ancora non ci riesco, è troppo doloroso. Ma almeno abbiamo potuto scandire ‘Pravda za Davida’, alzare i pugni (il gesto-simbolo del movimento, ndA). Sono tutte cose che a Banja Luka non si possono più fare. Ci battiamo anche per la libertà di parola e, letteralmente, per la libertà di vivere".

Il caso Memić: tre anni senza verità
La lotta per la verità della famiglia Memić dura da quasi tre anni e mezzo. Nella notte dell’8 febbraio 2016, un’ambulanza soccorre Dženan e la fidanzata Alisa Mutap alla Velika Aleja, il lungo viale pedonale di Ilidža, sobborgo di Sarajevo. Dženan è riverso per terra privo di conoscenza, in condizioni serie, con un grave ematoma alla testa. Alisa invece è in stato confusionale ma con ferite più lievi. Ricoverato all’Ospedale Universitario di Sarajevo, Dženan muore il 15 febbraio, dopo sette giorni di coma. Da qui inizia una girandola di ipotesi ed errori giudiziari.

Secondo la perizia del medico che ha operato Dženan durante il coma, il ragazzo è stato senza dubbio oggetto di un’aggressione violenta. Nessuna ferita sarebbe compatibile con l’investimento di un’auto, che è però l’ipotesi su cui si concentreranno le indagini della procura del cantone di Sarajevo. Tre mesi dopo, nel maggio 2016, viene arrestato Ljubo Seferović, accusato di avere travolto i due ragazzi con il proprio furgone mentre guidava in stato di ebbrezza, per poi darsi alla fuga e cercare di manomettere le prove insieme al padre e alla moglie, anch’essi arrestati. Inizialmente Seferović ammette l’incidente colposo, ma in seguito ritratterà e si dichiarerà innocente. Nel primo processo davanti al Tribunale cantonale di Sarajevo, alcune tracce e reperti decisivi spariscono, altri diventano inservibili. Mancano i filmati delle videocamere sulla strada nei minuti decisivi, la prova dell’ebbrezza di Seferović, le tracce che confermino che il furgone coinvolto fosse effettivamente il suo. Emergono pesanti incoerenze tra le diverse perizie. La fidanzata, unica testimone diretta dei fatti, afferma di soffrire di amnesia sulla notte della tragedia.

Si forma così il collettivo Pravda za Dženana, guidato dal papà del ragazzo Muriz e dalla sorella Arijana. Iniziano le prime manifestazioni di protesta in città. Quella di sabato scorso è la diciottesima, affermano più volte dal microfono con un misto di orgoglio e stanchezza. La famiglia Memić sostiene con forza la tesi dell’omicidio. Quella del furgone, secondo loro, è una montatura creata dagli aggressori di Dženan, che avrebbero approfittato della vulnerabilità dei Seferović, una famiglia povera di origine rom, per incastrarli. Il movimento accusa gli organi giudiziari, in primis la procura del cantone di Sarajevo, di non fare il proprio lavoro, per insipienza o perché stanno intenzionalmente allontanando la verità.

Media e istituzioni locali seguono costantemente il caso, e circolano sospetti di ogni tipo, molti privi di fondamento: si mormora del coinvolgimento di familiari di politici, imprenditori o criminali nell’omicidio, della fidanzata Alisa e sul suo silenzio che starebbe coprendo i responsabili, delle ambizioni politiche della famiglia Memić (la sorella Arijana, sull’onda del caso, nel 2018 viene eletta nel parlamento cantonale). Si crede a tutto e a niente, con un sistema giudiziario altamente frammentato e inefficace, che segue la divisione amministrativa del paese (municipi, cantone, entità, stato) e permanentemente soggetto a pressioni di politici e gruppi di potere, a cooptazioni e scambi di favori. Anche il Parlamento del cantone di Sarajevo prende posizione sulle lacune nell’operato degli organi di giustizia e sicurezza: raccomanda l’apertura di inchieste interne che, tuttavia, non vedranno mai la luce.

Nel luglio 2018 avviene un nuovo colpo di scena. La sentenza del tribunale cantonale assolve i Seferović per assenza di prove e rigetta la tesi dell’incidente. La famiglia Memić ora vuole l’acquisizione di nuove prove e soprattutto chiede che sia il Tribunale statale, e non più il cantonale, a prendere il caso in carico. Muriz Memić denuncia più di 40 persone tra procuratori, giudici e membri delle forze dell’ordine che avrebbero commesso gravi irregolarità nel caso. Invece, nel giugno 2019 il Tribunale supremo della Federazione di BiH (il livello intermedio tra stato e cantone) ribalta nuovamente il quadro, ordinando la ripetizione del processo di primo grado. La tesi processuale torna a basarsi sull’incidente anziché sull’omicidio. Tutto daccapo. La reazione del movimento è durissima: Muriz Memić e il suo avvocato Ifet Feraget parlano di “crimine organizzato dentro gli organi di giustizia”.

Giustizia latitante
Proprio a inizio giugno 2019 scoppia lo scandalo della corruzione nel Consiglio della magistratura statale. Il presidente del maggiore organo giudiziario del paese è filmato mentre si impegna a chiudere un procedimento penale dietro pagamento di denaro. È la conferma di quello che i movimenti per la giustizia dicono da anni. Ma i partiti politici rispondono con indifferenza, assorbiti dalle negoziazioni per formare il governo statale che durano ormai da nove mesi. Buona parte dell’opinione pubblica appare inerte e rassegnata.

Non è un caso che le posizioni tradizionalmente felpate della comunità internazionale si fanno ora più incisive, come per dare una scossa. "Tre mesi fa ho incontrato i genitori di David e Dženan. Ieri loro e molti altri genitori e cittadini frustrati hanno manifestato pacificamente a Sarajevo contro l’assenza di giustizia in Bosnia Erzegovina. I lunghi ritardi nella gestione giuridica di questi ed altri casi sono inaccettabili per un paese che cerca l’accesso alla UE", è il duro commento alla manifestazione del Commissario UE all’allargamento Johannes Hahn in un tweet  .

Messi alle strette nel proprio paese, i movimenti cercano agibilità in campo internazionale. Suzana Radanović spiega a OBC Transeuropa: "A Banja Luka il nostro movimento ora non può esistere, ma noi abbiamo rifondato l’associazione a Vienna, e il prossimo 12 settembre organizzeremo un convegno a cui inviteremo politici, giornalisti e diplomatici internazionali. Vogliamo informare l’Europa di ciò che sta avvenendo". Nel frattempo, le tante battaglie per la verità e lo stato di diritto continuano, per non permettere che ragazzi giovanissimi che si sono trovati in posti sbagliati e in momenti sbagliati debbano perdere la vita, come è successo troppe volte in questi anni. O perché non decidano di lasciare il paese, come avviene in decine di casi ogni giorno.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #264 il: Luglio 05, 2019, 21:04:18 pm »
Poteva mancare il pride anche nell'Europa dell'Est?

Ovviamente no.
E ancora non è niente.
Tempo al tempo.
...

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #265 il: Luglio 06, 2019, 00:10:42 am »
Almeno Putin uno stop ai pride l'ha dato.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #266 il: Luglio 06, 2019, 13:25:33 pm »
Sai bene che di Putin ce n'è uno.
Peraltro il capo del Cremlino agisce e può agire in un contesto sociale ben diverso da quello occidentale.

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #267 il: Luglio 06, 2019, 13:45:11 pm »
Peraltro il capo del Cremlino agisce e può agire in un contesto sociale ben diverso da quello occidentale.
Certo, in Russia (ma credo anche in altri Paesi dell'Est) non ci sono legioni di uomini che accorrono a difendere la cosca LGBT alla prima legittima misura di ordine pubblico e buon costume.
Gli uomini occidentali sono, per una buona metà almeno, così mesmerizzati dal politicamente corretto che appoggiano attivamente le stesse forze che li stanno affossando come maschi e come esseri umani.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #268 il: Luglio 16, 2019, 00:19:36 am »
https://www.eastjournal.net/archives/98998

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STORIA: La lunga catena di omicidi dei servizi segreti jugoslavi
Riccardo Celeghini  7 ore fa

Il 28 luglio del 1983, Stjepan Đureković, ex partigiano, successivamente direttore della compagnia petrolifera statale jugoslava INA e poi dissidente critico del regime di Tito, veniva freddato a colpi di pistola nella cittadina tedesca di Wolfratshausen. Come dimostrato da un tribunale tedesco nel 2018, l’omicidio fu pianificato dalla famigerata UDBA, il servizio segreto jugoslavo. Quella di Đureković, però, non è una storia isolata: dal 1946 al 1990, la lista di omicidi perpetuati dall’UDBA in giro per il mondo è lunghissima. Una storia tragica, per anni celata dietro ai buoni rapporti vigenti tra la Jugoslavia di Tito e il blocco occidentale, e successivamente messa a tacere dalle élite dei nuovi Stati balcanici.

L’UDBA

L’UDBA, letteralmente l’Amministrazione Sicurezza Statale, fu istituita nel 1946 dal regime del Maresciallo Tito con il compito di garantire la sicurezza dello Stato jugoslavo. Sottoposta al controllo centrale del ministero degli Interni ed organizzata in modo decentrato nelle sei repubbliche che costituivano la Federazione, negli anni l’UDBA venne ristrutturata più volte, senza mai perdere il proprio potere di polizia politica e il suo interesse a perseguire ogni forma di dissidenza.

L’UDBA, negli anni, fu protagonista dell’arresto e dell’eliminazione di centinaia di cosiddetti “nemici dello Stato”: le eliminazioni avvenivano non solo all’interno dei confini jugoslavi, ma arrivarono a colpire i dissidenti in Europa, in primis nell’allora Germania Ovest, ma anche negli Stati Uniti, in Australia, in Argentina e in Sud Africa.

Gli omicidi

La lista delle persone uccise dall’UDBA in giro per il mondo non è completa e negli anni ben poco è venuto alla luce di quei fatti. Quel che è certo è che tra le vittime figurano soprattutto croati, ma anche serbi ed albanesi del Kosovo. Se ad accomunare le vittime vi è la critica al regime jugoslavo, tra loro esistono però profonde differenze.

Alcune delle personalità uccise dai servizi segreti jugoslavi erano veri e propri collaboratori del regime filonazista degli ustaša, che governò la Croazia negli anni della Seconda guerra mondiale macchiandosi di atroci crimini contro oppositori, ebrei e serbi. Scappati dalla Jugoslavia dopo la vittoria dei partigiani di Tito, alcuni di loro vennero raggiunti ed uccisi negli anni seguenti: è il caso di Vjekoslav “Maks” Luburić, generale responsabile della gestione dei campi di concentramento istituiti dal regime fascista croato, trovato morto nel 1969 nella sua abitazione in Spagna, dove il regime di Francisco Franco gli aveva dato ospitalità. Altre vittime erano invece attivisti dei circoli nazionalisti croati del dopoguerra. Tra questi, si ritrovano membri del Movimento Croato di Liberazione (HOP) o della Fratellanza Rivoluzionaria Croata (HRB), organizzazioni della diaspora croata dalle note simpatie verso il movimento ustaša, come ad esempio, Nahid Kulenović, ucciso dall’UDBA a Monaco nel 1969, o Stjepan Ševo, freddato nel 1972 a San Donà di Piave, vicino Venezia.

Tra le vittime croate, però, vi sono anche figure più moderate, dissidenti del regime di Tito ma non per questo sostenitori dell’ideologia ustaša. È questo il caso proprio di Đureković, avvicinatosi tardi ai circoli nazionalisti croati, dopo aver lasciato la Jugoslavia dopo una vita passata nella compagnia petrolifera statale dell’INA, e autore di alcuni testi che mettevano in luce tutte le criticità dell’economia della Federazione. O, ancora, di Bruno Bušić, perseguitato dal regime per alcuni suoi articoli sostenitori della causa croata, fuggito a Parigi, dove venne raggiunto ed ucciso nel 1978.

Le vittime dell’UDBA, però, non si limitano alla dissidenza croata. Nel 1977, lo scrittore serbo Dragiša Kašiković, caporedattore del giornale della diaspora serba anticomunista negli Stati Uniti, veniva violentemente assassinato con 64 coltellate nel suo ufficio a Chicago. Nel 1981, l’attivista, musicista, scrittore Jusuf Gërvalla, promotore della causa degli albanesi del Kosovo, veniva ucciso insieme al fratello Bardhosh e ad un altro attivista, Kadri Zeka, a Stoccarda, in Germania Ovest. Kosovaro albanese era anche l’attivista Enver Hadri, ucciso a Bruxelles nel 1990, probabilmente l’ultima vittima di questa scia di sangue.

Il metodo

Anche le modalità con cui questi omicidi furono perpetuati sono di diverso tipo. Spesso l’UDBA inviava infiltrati nei circoli delle diaspore nel mondo, membri dei servizi segreti che instauravano rapporti professionali o di amicizia con le vittime. Altre volte, si utilizzava una “manodopera” composta da membri della criminalità organizzata, assoldati in cambio di compensi economici: secondo alcune fonti, tra questi vi sarebbe stato anche Željko Ražnatović, tristemente noto con il nome di Arkan per i massacri compiuti nelle guerre degli anni ’90.

Alcune delle esecuzioni, inoltre, non mancano di particolari ancora più tragici: a San Donà di Piave, insieme a Ševo, persero la vita anche la moglie Tatjana, di 26 anni, e la figlia Rose Marie, di soli 9 anni, freddate dallo stesso killer; a Chicago, invece, il responsabile dell’uccisione di Kašiković non risparmiò nemmeno la giovanissima Ivanka, figlia della moglie del giornalista serbo.

Il silenzio

Ad anni di distanza da quei tragici avvenimenti, i passi avanti fatti per fare chiarezza sono stati molto pochi. Per lungo tempo, difatti, i paesi dove questi omicidi sono stati commessi hanno preferito non approfondire i casi: nel contesto della Guerra Fredda, la Jugoslavia godeva di un consolidato credito internazionale e diversi paesi occidentali vedevano di buon occhio il regime di Belgrado. Non è perciò da escludere che i servizi segreti di questi paesi fossero a conoscenza delle operazioni, preferendo chiudere un occhio e scegliendo di non impegnarsi nella ricerca dei responsabili.

A mancare, però, è stata anche la volontà politica dei paesi sorti sulle ceneri della Jugoslavia. Morta la Federazione, molti dei membri dell’UDBA si sono abilmente riciclati nei servizi segreti dei nuovi Stati, mantenendo spesso stretti legami con le élite locali. Emblematico è il caso della Croazia, proprio con riferimento all’omicidio di Đureković. La volontà di un tribunale tedesco di perseguire Zdravko Musac e Josip Perković, due croati ai vertici dell’UDBA all’epoca dei fatti, ha difatti portato ad uno scontro politico tra Berlino e Zagabria. Il governo croato ha ostacolato per anni la richiesta di estradizione proveniente dalla Germania, proteggendo i due. Solo dopo forti pressioni, inclusa la minaccia della Commissione europea di tagliare i fondi di sviluppo per la Croazia, nel 2014 Musac e Perković sono stati arrestati e consegnati alle autorità tedesche. Nel 2018, entrambi sono stati condannati all’ergastolo per aver favorito l’omicidio di Đureković e solo pochi giorni fa, l’11 luglio, Perković è stato trasferito in un carcere croato.

Si è trattato di uno dei pochi processi volti ad accertare le responsabilità dei servizi segreti jugoslavi nelle uccisioni all’estero dei dissidenti del regime. Un piccolo passo, quello del processo sull’omicidio di Đureković, che ci ricorda quanto questa storia drammatica meriti ben più attenzione e volontà di fare chiarezza.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
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Citazione
BOSNIA: Il diritto allo stato di diritto
Alfredo Sasso  8 ore fa

Questo articolo è frutto di una collaborazione editoriale con OBCT.

Le morti di Dženan e David sono solo alcuni dei “casi silenziati”, i tanti episodi di malagiustizia che stanno agitando la Bosnia Erzegovina negli ultimi anni. Da qui è sorta una delle poche mobilitazioni per il diritto allo stato di diritto capaci di attraversare i confini amministrativi e quelli cosiddetti “etnici” del paese nel dopoguerra

“Mio fratello è un simbolo di lotta e resistenza, e voi siete la dimostrazione che non tutti in questo paese hanno una pietra al posto del cuore”. Anche quando è rotta dall’emozione, la voce di Arijana Memić risuona forte nella piazza del Teatro nazionale di Sarajevo, di fronte a circa un migliaio di manifestanti, sotto il sole torrido di questo sabato di fine giugno. Arijana è la sorella di Dženan Memić, ragazzo di 22 anni morto a Sarajevo nel febbraio 2016 in circostanze ancora non chiarite dalla giustizia, e su cui proprio in questi giorni si sta riaprendo l’ennesima e contestata fase processuale.

La morte di Dženan è uno dei “casi silenziati”, i tanti episodi di malagiustizia che stanno agitando la Bosnia Erzegovina negli ultimi anni: omicidi irrisolti, incidenti sospetti, abusi e omissioni degli organi giudiziari e di sicurezza. Da qui è sorta una delle poche mobilitazioni per il diritto allo stato di diritto capaci di attraversare i confini amministrativi e quelli cosiddetti “etnici” del paese nel dopoguerra. In piazza, insieme al collettivo di Pravda za Dženana (“Giustizia per Dženan”), sono rappresentate tante cause: Edita Malkoć e Selma Agić, due studentesse universitarie sarajevesi uccise da un pirata della strada nel 2016; Jovan Arbutina, giovane di Banja Luka investito nel 2015; Harun Mujkić, undicenne di Zenica morto a scuola, nel 2014, con una sospetta frattura alla testa; e poi Ivona Bajo di Bijeljina, Nikola Djurović di Banja Luka e tanti altri, tutti giovanissimi.

Arrivato in massa con diversi pullman da Banja Luka, in questa piazza c’è anche il movimento fratello di Pravda za Dženana: è quello di Pravda za Davida (“Giustizia per David”), che chiede giustizia per il caso di David Dragičević, il 21enne ucciso a Banja Luka nel marzo 2018. Movente e colpevoli restano ignoti dopo una serie sofisticata di omissioni e insabbiamenti da parte delle autorità. Dopo un presidio non-stop durato nove mesi che l’ha trasformato in un attore centrale della vita pubblica bosniaca, dallo scorso dicembre Pravda za Davida è oggetto di una dura repressione da parte delle autorità della Republika Srpska (una delle due entità della Bosnia Erzegovina, di cui Banja Luka è capitale).

Il papà di David, Davor Dragičević, ha mandato un saluto in diretta video dall’Austria, dove risiede temporaneamente per sfuggire all’arresto (proprio a seguito delle proteste in cui ha chiesto verità per il figlio). Così gli ha risposto dalla piazza Muriz Memić, il papà di Dženan: “Il mio fratello Davor cerca la verità per suo figlio. Sia Davor che io ce lo meritiamo. Invito l’attuale presidente Milorad Dodik a venire oggi in piazza, perché veda quanta umanità c’è qui”. Appena la piazza sente il nome di Dodik (già leader della Republika Srpska e considerato il mandante della repressione contro il movimento) partono bordate di fischi. Lo stesso succede quando si nomina Bakir Izetbegović, ex-presidente statale e leader dei nazionalisti bosgnacchi, insieme a Dodik visto come il volto della politica bosniaca dell’ultimo decennio, e quindi del malfunzionamento dello stato e della giustizia.

Tutte queste cause sono apparentemente lontane per geografia, moventi e sviluppi dei casi, ma hanno trovato un terreno comune, fondato sulla lotta contro l’impunità e sulla rivendicazione di un paese normale. Nessuna di queste cause è nata come “politica”, un’etichetta costantemente rifiutata con sdegno. Eppure tutti sollevano i problemi nevralgici dell’etnopoli bosniaca (e non solo, a guardare lo scenario europeo di oggi): lo stato di diritto, la minima credibilità degli organi di giustizia e sicurezza, il diritto all’incolumità individuale, persino la libertà d’espressione.

In piazza c’è Suzana Radanović, la madre di David Dragičević, diventata ormai un’icona del coraggio civile in Bosnia Erzegovina per avere sfidato i divieti a manifestare e i muri di gomma che circondano l’omicidio del figlio. Decine di persone, prevalentemente donne e anziane, fanno letteralmente la fila per salutarla e abbracciarla. “Oggi è stata una bella manifestazione – spiega a OBC Transeuropa – per me è importante che qui si possa cantare la canzone di David, o meglio, che la gente possa cantarla: io ancora non ci riesco, è troppo doloroso. Ma almeno abbiamo potuto scandire ‘Pravda za Davida’, alzare i pugni (il gesto-simbolo del movimento, ndA). Sono tutte cose che a Banja Luka non si possono più fare. Ci battiamo anche per la libertà di parola e, letteralmente, per la libertà di vivere”.

Il caso Memić: tre anni senza verità
La lotta per la verità della famiglia Memić dura da quasi tre anni e mezzo. Nella notte dell’8 febbraio 2016, un’ambulanza soccorre Dženan e la fidanzata Alisa Mutap alla Velika Aleja, il lungo viale pedonale di Ilidža, sobborgo di Sarajevo. Dženan è riverso per terra privo di conoscenza, in condizioni serie, con un grave ematoma alla testa. Alisa invece è in stato confusionale ma con ferite più lievi. Ricoverato all’Ospedale Universitario di Sarajevo, Dženan muore il 15 febbraio, dopo sette giorni di coma. Da qui inizia una girandola di ipotesi ed errori giudiziari.

Secondo la perizia del medico che ha operato Dženan durante il coma, il ragazzo è stato senza dubbio oggetto di un’aggressione violenta. Nessuna ferita sarebbe compatibile con l’investimento di un’auto, che è però l’ipotesi su cui si concentreranno le indagini della procura del cantone di Sarajevo. Tre mesi dopo, nel maggio 2016, viene arrestato Ljubo Seferović, accusato di avere travolto i due ragazzi con il proprio furgone mentre guidava in stato di ebbrezza, per poi darsi alla fuga e cercare di manomettere le prove insieme al padre e alla moglie, anch’essi arrestati. Inizialmente Seferović ammette l’incidente colposo, ma in seguito ritratterà e si dichiarerà innocente. Nel primo processo davanti al Tribunale cantonale di Sarajevo, alcune tracce e reperti decisivi spariscono, altri diventano inservibili. Mancano i filmati delle videocamere sulla strada nei minuti decisivi, la prova dell’ebbrezza di Seferović, le tracce che confermino che il furgone coinvolto fosse effettivamente il suo. Emergono pesanti incoerenze tra le diverse perizie. La fidanzata, unica testimone diretta dei fatti, afferma di soffrire di amnesia sulla notte della tragedia.

Si forma così il collettivo Pravda za Dženana, guidato dal papà del ragazzo Muriz e dalla sorella Arijana. Iniziano le prime manifestazioni di protesta in città. Quella di sabato scorso è la diciottesima, affermano più volte dal microfono con un misto di orgoglio e stanchezza. La famiglia Memić sostiene con forza la tesi dell’omicidio. Quella del furgone, secondo loro, è una montatura creata dagli aggressori di Dženan, che avrebbero approfittato della vulnerabilità dei Seferović, una famiglia povera di origine rom, per incastrarli. Il movimento accusa gli organi giudiziari, in primis la procura del cantone di Sarajevo, di non fare il proprio lavoro, per insipienza o perché stanno intenzionalmente allontanando la verità e il diritto ad essa.

Media e istituzioni locali seguono costantemente il caso, e circolano sospetti di ogni tipo, molti privi di fondamento: si mormora del coinvolgimento di familiari di politici, imprenditori o criminali nell’omicidio, della fidanzata Alisa e sul suo silenzio che starebbe coprendo i responsabili, delle ambizioni politiche della famiglia Memić (la sorella Arijana, sull’onda del caso, nel 2018 viene eletta nel parlamento cantonale). Si crede a tutto e a niente, con un sistema giudiziario altamente frammentato e inefficace, che segue la divisione amministrativa del paese (municipi, cantone, entità, stato) e permanentemente soggetto a pressioni di politici e gruppi di potere, a cooptazioni e scambi di favori. Anche il Parlamento del cantone di Sarajevo prende posizione sulle lacune nell’operato degli organi di giustizia e sicurezza: raccomanda l’apertura di inchieste interne che, tuttavia, non vedranno mai la luce.

Nel luglio 2018 avviene un nuovo colpo di scena. La sentenza del tribunale cantonale assolve i Seferović per assenza di prove e rigetta la tesi dell’incidente. La famiglia Memić ora vuole l’acquisizione di nuove prove e soprattutto chiede che sia il Tribunale statale, e non più il cantonale, a prendere il caso in carico. Muriz Memić denuncia più di 40 persone tra procuratori, giudici e membri delle forze dell’ordine che avrebbero commesso gravi irregolarità nel caso. Invece, nel giugno 2019 il Tribunale supremo della Federazione di BiH (il livello intermedio tra stato e cantone) ribalta nuovamente il quadro, ordinando la ripetizione del processo di primo grado. La tesi processuale torna a basarsi sull’incidente anziché sull’omicidio. Tutto daccapo. La reazione del movimento è durissima: Muriz Memić e il suo avvocato Ifet Feraget parlano di “crimine organizzato dentro gli organi di giustizia”.

Giustizia latitante
Proprio a inizio giugno 2019 scoppia lo scandalo della corruzione nel Consiglio della magistratura statale. Il presidente del maggiore organo giudiziario del paese è filmato mentre si impegna a chiudere un procedimento penale dietro pagamento di denaro. È la conferma di quello che i movimenti per la giustizia dicono da anni. Ma i partiti politici rispondono con indifferenza, assorbiti dalle negoziazioni per formare il governo statale che durano ormai da nove mesi. Buona parte dell’opinione pubblica appare inerte e rassegnata.

Non è un caso che le posizioni tradizionalmente felpate della comunità internazionale si fanno ora più incisive, come per dare una scossa. “Tre mesi fa ho incontrato i genitori di David e Dženan. Ieri loro e molti altri genitori e cittadini frustrati hanno manifestato pacificamente a Sarajevo contro l’assenza di giustizia in Bosnia Erzegovina. I lunghi ritardi nella gestione giuridica di questi ed altri casi sono inaccettabili per un paese che cerca l’accesso alla UE”, è il duro commento alla manifestazione del Commissario UE all’allargamento Johannes Hahn in un tweet.

Messi alle strette nel proprio paese, i movimenti cercano agibilità in campo internazionale. Suzana Radanović spiega a OBC Transeuropa: “A Banja Luka il nostro movimento ora non può esistere, ma noi abbiamo rifondato l’associazione a Vienna, e il prossimo 12 settembre organizzeremo un convegno a cui inviteremo politici, giornalisti e diplomatici internazionali. Vogliamo informare l’Europa di ciò che sta avvenendo”. Nel frattempo, le tante battaglie per la verità e lo stato di diritto continuano, per non permettere che ragazzi giovanissimi che si sono trovati in posti sbagliati e in momenti sbagliati debbano perdere la vita, come è successo troppe volte in questi anni. O perché non decidano di lasciare il paese, come avviene in decine di casi ogni giorno.