Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 78165 volte)

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Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #270 il: Luglio 16, 2019, 00:32:04 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-rotta-contraria-195375

Citazione
Albania: rotta contraria

Chi sono i ragazzi albanesi dei call center? E cosa pensano dei colleghi italiani – che hanno intrapreso la “rotta contraria”, dall’Italia all’Albania, in cerca di lavoro? E qual è il mondo – e l’idea di mondo – che si muove grazie a loro ma soprattutto dietro di loro? Un'intervista a Stefano Grossi, regista del documentario "Rotta contraria"

15/07/2019 -  Valentina Vivona
Presentato in anteprima al festival Bif&st di Bari lo scorso 28 aprile, il documentario “Rotta contraria” di Stefano Grossi si annuncia come racconto dell’emigrazione dall’Italia di quei ragazzi e quelle ragazze impiegati nei call center di Tirana.

Il boom del telemarketing in Albania è stato più volte trattato da OBCT negli ultimi anni. Gli autori che si occupano per noi di questo paese hanno cercato di contrastare la retorica dei media italiani riguardo al presunto ‘miracolo economico albanese’. Tra questi anche l'intellettuale Fatos Lubonja che, in un articolo del 2015, definiva ‘schizofrenico’ il tentativo di "vendere all’estero questa realtà come una sorta di paradiso, per fare poi di questi articoli e reportage la superficie su cui invitare i cittadini a specchiarsi".


La locandina di "Rotta contraria"

Lubonja è una delle principali fonti e voci del documentario di Stefano Grossi, al punto che una sua citazione appare anche nella locandina: “Se volete vedervi allo specchio, guardate l’Albania”. La metafora dello specchio aiuta a decifrare non soltanto la scelta del regista di riprendere gli intervistati e le intervistate attraverso un vetro, ma il senso dell’opera. Più che un racconto, “Rotta contraria” è infatti un saggio sulle conseguenze delle politiche neoliberiste, di cui l'Albania rappresenta un caso-studio o, per l'appunto, un riflesso. I call center sono, per stessa ammissione del regista, solo un pretesto per parlare di un modello di sviluppo fuori controllo.

Il documentario si può dividere in tre blocchi: la questione call center viene esaurita nei primi venticinque minuti dalle diverse esperienze degli otto operatori intervistati, equamente divisi tra donne e uomini, albanesi e italiani. L’ammonimento di Agron Shehaj, proprietario della catena di telemarketing IDS e deputato del Partito Democratico, sul rischio di nuova diaspora della gioventù albanese nel caso in cui i call center chiudano, segna l’inizio del secondo blocco. Le immagini scivolano all’indietro verso la fine del regime di Hoxha, l’emigrazione albanese dei primi anni Novanta, la transizione democratica che culmina nella terza e ultima parte con il racconto della discarica di Sharre alle porte di Tirana. Un viaggio mentale scandito, dall’inizio alla fine, dai guaiti dei cani rinchiusi nelle celle dell’International Pet Hospital della capitale albanese. Il regista Stefano Grossi ha raccontato le sue scelte stilistiche al Cinema Astra di Trento lo scorso 18 giugno.

Stefano, cosa rappresentano i cani nel tuo documentario?

Ho scoperto l’International Pet Hospital di Tirana quasi per caso, rimanendo colpito dalla contraddizione in cui vivono gli animali ospitati. Mi spiego: in Albania non esistono canili, per cui i randagi rischiano di essere uccisi se non vengono ricoverati. In questo centro ricevono ogni tipo di cura, le loro celle sono spaziose, tuttavia ne sono allo stesso tempo prigionieri. Vivono la stessa contraddizione degli operatori dei call center, catturati dietro i vetri dei call center da condizioni contrattuali favorevoli, o meglio, più favorevoli rispetto a quello che offre, in media, il mercato in Albania. In questo senso i cani rappresentano la sintesi dei vari livelli del film. I loro guaiti sono il lamento di una vita che non hanno deciso.

Come nasce il film? E quali sono state le sue fasi?

Per me i documentari sono un’opera di saggistica. Anche nel mio precedente documentario “Nemico dell’Islam” sul regista tunisino Nouri Bouzid, ho usato le vicende biografiche del protagonista per parlare di religione e altri temi più complessi. In un periodo storico dove si parla tanto di migrazioni, io volevo offrire una prospettiva sul tema ‘dalla sponda opposta’. I numeri della migrazione italiana in Albania sono piccoli, ma dicono tanto del nostro paese. Mi interessava questa contro-narrazione per andare a sviscerare cosa è davvero la migrazione: una lacerazione psichica, prima che fisica. In definitiva, si emigra solo se si deve. C’è poi una dimensione letteraria che deve tanto al mio amico Fatos Lubonja, che conosco dal 2009 dopo averlo voluto tra i protagonisti del mio “Diari del Novecento”. Ho letto tantissimo durante la produzione di questo film.

Come sei arrivato alla discarica di Sharre? Per caso, come per i cani, o per scelta?

No, sapevo dall’inizio che avrei parlato della discarica e sapevo dall’inizio cosa avrebbe rappresentato nel film. A me non interessava raccontare la vita degli operatori di call center, italiani o albanesi che siano. Le loro testimonianze sono solo un contrappunto musicale, una metafora del nostro modello di sviluppo che riconosce solo la funzione merceologica della vita. L’Albania è il laboratorio a cielo aperto di tutte le contraddizioni del nostro modello, la discarica il suo emblema, il punto di arrivo del ragionamento. Luigi Pintor, fondatore de “Il Manifesto”, in un’intervista mi aveva parlato del “mondo come mattatoio sopra un immondezzaio”. Così l’ho voluto riproporre, come grido di allarme. Sapevo anche che i volti degli attivisti di Akip intervistati sarebbero stati gli unici nitidi perché rappresentano la realtà. La storia di questo movimento ambientalista albanese meriterebbe un documentario a parte.

Cosa hanno pensato gli intervistati della tua scelta di sfocare i loro visi?

Nessuno di loro ha ancora visto il film, ma presto ci sarà una proiezione a Tirana. Per me sarà molto dura tornarci, la capitale albanese mi sembra davvero esprimere la follia del mondo in cui viviamo. La maggior parte delle riprese sono notturne perché i contrasti di questa città-flipper sono ancora più forti.

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https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-stress-da-call-center-180680

Citazione
Albania: stress da call-center

I call-center che offrono i propri servizi ad aziende italiane impiegano migliaia di giovani albanesi, ma le condizioni di lavoro sono pessime. A lungo andare lo stress danneggia la salute fisica e psicologica di chi ci lavora

16/06/2017 -  Nkiruka Omeronye,    Klevis Paloka,    Anxhela Ruci   Tirana
(Articolo originariamente pubblicato dal portale investigativo albanese PSE   il 10 maggio 2017)

Migena L. ha 22 anni e uno dei momenti più duri delle sue giornate è quando, finito di lavorare, riceve una telefonata da sua madre. Esita a risponderle. Migena si è da poco laureata in giornalismo e da tre anni e mezzo lavora in un call-center di Tirana, da dove ogni giorno, per otto ore filate, contatta persone che abitano a 400 chilometri di distanza, dall'altra parte dell'Adriatico. Il suo lavoro è quello di “convincerli” a registrarsi per ricevere servizi e accettare offerte proposte da diverse compagnie italiane.

Oltre ad averla portata a sviluppare una generale riluttanza a parlare al telefono, come risultato delle molte ore in cui indossa le cuffie, Migena racconta di aver perso la sua serenità, e di ritrovarsi spesso a provare un senso di tensione e disagio nella vita di tutti i giorni. “A fine giornata mi sento davvero esausta e in ansia”, ci dice. “Se una persona mi ripete due volte la stessa cosa mi irrito e mi sento infastidita. Sono sempre stata una persona calma e rilassata ma ora ho perso la mia serenità”.

Sono circa 25.000 i giovani albanesi che, come Migena, lavorano per aziende che offrono servizi di tele-marketing rivolti ai consumatori italiani. L'età media delle persone occupate in questo tipo di servizi si aggira attorno ai 23 anni, e quasi il 90% sono studenti universitari o laureati.

In un paese come l'Albania, in cui il tasso di disoccupazione dei giovani nella fascia d'età tra i 19 e i 29 anni era del 33,2% nel 2015, i call-center italiani sono considerati un'industria importante che contribuisce a migliorare le possibilità di lavoro per i giovani. Per questa ragione, le istituzioni albanesi hanno seguito con preoccupata attenzione le recenti modifiche alla legislazione italiana, volte a rendere più difficile la delocalizzazione dei servizi di tele-marketing al di fuori dell'Italia e dell'Unione Europea.

Sembra tuttavia molto limitato l'interesse che le stesse istituzioni dimostrano verso le condizioni di lavoro dei giovani albanesi impiegati nei call-center. In particolare, è praticamente nulla l'attenzione rivolta agli effetti sulla salute fisica e psicologica dei dipendenti provocati dalle molte ore trascorse a dialogare, ascoltare e stare davanti a un computer.

Intervistando i giovani centralinisti, emerge che le aziende non offrono loro alcuna assistenza psicologica o servizi di counseling, né tanto meno i controlli medici a scadenza periodica indispensabili per monitorare il loro udito, la vista e le corde vocali o qualsiasi problema che potrebbe manifestarsi alla spina dorsale a seguito delle lunghe ore passate seduti su una sedia. La mancata erogazione di questo tipo di assistenza viene candidamente ammessa dagli stessi dirigenti e dai rappresentanti delle aziende che operano nel settore dei call-center in Albania.

L'Istituto nazionale di statistica, INSTAT, riporta che i call-center attivi in Albania nel 2015 erano 804 – un incremento di dieci volte rispetto ai numeri registrati nel 2000, quando solo 76 imprese offrivano questo tipo di servizio nel paese.

Quando il bisogno di sopravvivere prevale sui rischi per la salute
Denada M. ha 21 anni e riassume in due parole i molti anni spesi come operatrice di call-center: “stress e soldi”. Studentessa di psicologia, Denada ha lavorato per tre diverse compagnie di tele-marketing a Tirana e Durazzo. Per illustrare la forte pressione in questi ambienti lavorativi, racconta di ritmi di lavoro che prevedono una sola pausa di 15 minuti nell'arco di un intero turno di lavoro, che dura otto lunghe ore. La pausa, dopo le prime quattro ore, è l'unico momento per sgranchirsi: rimanere seduti così a lungo può essere doloroso e stressante, e può causare problemi alla spina dorsale. “Il momento più bello della mia giornata di lavoro sono quei 15 minuti di pausa”, racconta. Tutti i call-center del paese sono operativi sei giorni alla settimana.

Xhuliana Jakimi dice di aver sofferto seri problemi di vista nel periodo in cui lavorava per un call-center. Klaudia, 23 anni, ha lavorato nel settore per tre anni, sviluppando problemi all'udito a causa dell'alto volume delle conversazioni con i consumatori italiani e delle cuffie che era costretta a indossare costantemente. Fjoralb Hodaj, uno studente che ha lavorato per quattro mesi in un call-center, riporta di aver sofferto di seri disturbi del sonno a causa dello stress accumulato durante il lavoro. “Non riuscivo assolutamente a dormire, era semplicemente impossibile continuare a lavorare in quel posto”, dice Fjoralb.

Nonostante queste difficoltà, i giovani continuano a lavorare nei call-center perché per alcuni di loro si tratta dell'unica maniera per poter continuare gli studi. Anche i neolaureati guardano ai call-center come a una prospettiva che permette loro di avere un'entrata economica sufficiente a garantirsi uno standard di vita base, in un contesto dove integrarsi nel mondo del lavoro è un'impresa tutt'altro che facile.

Un'ora di lavoro in un call-center viene pagata tra i 180 e 250 lek (1,30-1,80 euro circa), ma il compenso può essere più alto per casi o servizi particolari. Un normale giorno di lavoro prevede turni di quattro o otto ore, però in alcuni casi i giovani che hanno bisogno di qualche soldo in più scelgono di fare turni più lunghi. Gli stipendi pagati da queste compagnie sono ben al di sopra del minimo previsto in Albania, che è fissato a 22.000 lek (165 euro) al mese. Denada ci dice che al call center guadagna abbastanza per garantirsi una vita ordinaria, mentre se avesse dovuto lavorare come psicologa lo stipendio non sarebbe bastato nemmeno per coprire la spesa e il cibo.

D'altra parte, le procedure estremamente semplificate per l'assunzione nei call-center hanno spinto molti giovani a riversarsi in queste compagnie e a guadagnarsi da vivere vendendo servizi al telefono. Emona Alla, capo delle risorse umane per il Tregi Marketing Group – gruppo che impiega all'incirca mille giovani – dice a PSE che tutto ciò che serve per iniziare a lavorare per la compagnia è una conoscenza discreta dell'italiano e la volontà di lavorare dalle quattro alle sei ore al giorno.

La preoccupazione di medici e psicologi
Jetmira Fejzaj, otorinolaringoiatra presso l'ospedale universitario Madre Teresa, ci dice che i problemi alle corde vocali e all'udito sono alcune delle principali conseguenze legate al lavoro prolungato nei call-center, e che controlli medici frequenti sono necessari per prevenire questi rischi. “Parlare senza sosta può causare problemi alle corde vocali, mentre un uso prolungato delle cuffie può danneggiare il nervo uditivo”, dice Fejzaj. “È consigliabile che i lavoratori dei call-center si sottopongano a controlli medici ogni sei mesi, così da tenere sotto controllo lo stato del loro apparato uditivo”.

Uno dei problemi più seri provocati dal lavorare per queste compagnie è l'alto livello di stress a cui sono soggetti i lavoratori, che devono passare molto tempo di fronte a un computer senza potersi muovere, continuamente presi a parlare e ascoltare. La psicologa Fleura Shkëmbi, professoressa all'Università europea di Tirana, ci dice che lavorare per lunghi periodi di tempo in un call-center può causare insonnia, stress e stanchezza. Se si manifestano questi sintomi “bisognerebbe lasciare il lavoro, sarebbe il momento giusto per i giovani per iniziare ad avere più attenzione per se stessi e la propria salute”, suggerisce.

Secondo Shkëmbi, il problema maggiore è che le compagnie non offrono servizi di counseling o terapia psicologica, lasciando quindi peggiorare una situazione già di per sé difficile. Le sessioni di terapia normalmente costano 1.500 lek (11 euro) all'ora, e i dipendenti dei call-center non possono permettersi di pagarle di tasca propria. “Le compagnie non pagano per la terapia”, dice Shkëmbi, “di conseguenza i giovani si ritrovano in un circolo vizioso. Lavorano per guadagnare denaro, ma poi lo devono spendere per una terapia da uno psicologo: alla fine quanto gli rimane?”. Emona Alla ammette che la compagnia per cui lavora ha pensato di offrire un servizio di counseling ai propri dipendenti, ma non ha ancora preso una decisione e non è detto che pagherà le sessione di terapia.

Secondo Shkëmbi, lo stress deriva anche dalla mancanza di prospettive di carriera all'interno dei call-center. “A un certo momento i giovani si rendono conto di ritrovarsi bloccati in questo specifico frangente della loro vita”, dice la psicologa. “Capiscono che tutto quello che hanno fatto fino a ora non è altro che cercare di vendere offerte o promozioni per telefono ad altre persone”.

La mancanza di attenzione verso i possibili problemi fisici e psicologici degli impiegati nei call-center è un problema serio, che potrebbe portare i giovani a pensarci due volte prima di iniziare a lavorare per queste compagnie.

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #271 il: Luglio 16, 2019, 00:36:56 am »
Già perché ora non si delocalizza più il lavoro, ma i lavoratori che vengono deportati trasferiti in Albania, Portogallo, Romania. E mica per sempre, l'anno dopo se ne vanno in altri Paesi, cambiano lavoro e via da capo (v. caso dell'utente Artemisia). Poi dicono che non ci sono più famiglie.
La globalizzazione mercifica gli esseri umani e crea un marasma sociale ingestibile, un frullato che alla lunga non fa neppure bene agli affari.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #272 il: Luglio 16, 2019, 00:40:34 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-il-muro-del-suono-189069

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Romania: il muro del suono

Più di 23.000 rumeni soffrono di deficit all'udito. E sono per questo sottoposti a molteplici discriminazioni. Un reportage

19/07/2018 -  Delia Marinescu
(Pubblicato originariamente da Digi24  , selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans  e OBCT)

All'età in cui la maggior parte dei neonati parlottano e reagiscono in qualche modo al mondo degli adulti loro non lo fanno. “Picchiettavo su di una stufa, ma lui non reagiva”, ricorda Bogdana Stîngaciu, la mamma di Brad. “Mi sono resa conto che era sordo, e quel giorno è stato molto doloroso”. Più tardi è arrivata anche la diagnosi: “Sordità bilaterale profonda”, detto in altre parole mancanza parziale o totale di udito, che colpisce anche la voce. Questi bambini non hanno quindi mai avuto la possibilità di ascoltare le ninne nanne, le storie lette dai loro genitori o la voce dei personaggi dei cartoni animati.

In Romania più di 23.000 persone soffrono di deficit dell'udito. Vivono in universi che chi ha un buon udito non conosce. Delia Păştin è un'insegnante specializzata per bambini con deficit uditivi. “Li si chiama sordo-muti ma è una denominazione impropria perché sono sordi e non muti. Con molto lavoro riescono a parlare”. In scuole specializzate, con il sostegno di logopedisti ed insegnanti, riescono effettivamente ad imparare a parlare.

Al Liceo tecnologico numero 3 di Bucarest sono iscritti 127 studenti con problemi all'udito. Cristi Zota ha 13 anni e i suoi genitori non sono privi d'udito. Una differenza che può essere determinante. “I bambini che provengono da famiglie che non hanno problemi d'udito vengono solitamente mandati ad una scuola normale per vedere se riescono a cavarsela” spiega Delia Păştin. “Nel caso di Cristi non ha funzionato e quindi è poi arrivato da noi. Quando hanno contatti con chi è dotato d'udito tendono ad isolarsi perché non capiscono e non riescono a farsi capire. Alcuni si rifiutano addirittura di uscire a giocare con gli altri bambini”.

Lo stato poco presente
Lo stato non ha attivo alcun programma per insegnare ai genitori o ad altri membri della famiglia la lingua dei segni. Questi ultimi allora si inventano, per comunicare, dei propri segni ma quando i bambini arrivano nelle scuole specializzate ed imparano la lingua dei segni ufficiale un nuovo muro sorge tra figlio o figlia e genitori.

Anche nelle stesse scuole specializzate la situazione non è ideale perché alcuni insegnanti insegnano in lingua parlata non accompagnandola con il linguaggio dei segni. “Mi trovo in difficoltà quando un insegnante mi domanda qualcosa e non lo fa scandendo le parole bene e ad alta voce”, racconta la giovane Laura Sotir. “Non capisco niente quando si parla a bassa voce ma se si apre bene al bocca e si parla forte allora capisco”. Per compensare Laura legge il movimento delle labbra, ma la scuola rimane difficile.

Per coloro le cui famiglie non abitano nella capitale e i cui genitori non possono accompagnarli ogni giorno a scuola vi è il collegio. Vi restano l'intera settimana. Il fine settimana ritornano a casa. Per fare il viaggio Laura e Cristi utilizzano il “treno personale”. Si chiama così, in Romania, il treno meno caro e più lento del paese. Essendo non-udenti i trasporti per loro sono gratuiti. Ma i loro genitori spendono circa 300 lei (67 euro) ogni mese per accompagnarli perché sono troppo giovani per viaggiare da soli. Altro dettaglio logistico ed ostacolo: i loro genitori devono avere un lavoro flessibile che permetta loro di accompagnare i figli a Bucarest il lunedì mattina e ritornare a prenderli il venerdì pomeriggio.

Nicoleta, la madre di Laura, è anche lei non-udente. Ne soffre dall'infanzia, lo testimonia la sorella Mihaela. “E' stata dura perché la maggior parte della gente non la capiva e la prendeva in giro”, racconta. Mihaela aiuta Nicoleta a far fronte a situazioni che non sarebbe in grado di affrontare da sola. “Ero con lei durante il parto in cui ha dato alla luce Laura. Medici ed infermieri mi dicevano cosa doveva fare e io glielo comunicavo e tutto è andato bene. Vado con lei ovunque io possa, dai dottori, all'ospedale, presso tutte le istituzioni”.

136 interpreti della lingua dei segni in tutta la Romania
Quando non c'è Mihaela e l'unica interprete della lingua dei segni di Ploieşti è occupata, Nicoleta e suo marito, anch'egli non-udente, si fanno a vicenda coraggio per sbrigare le loro questioni amministrative. “Il più grande problema di discriminazione riguarda l'interazione con le istituzioni”, spiega Daniel Sotir, marito di Nicoleta. “Veniamo la maggior parte delle volte respinti. Ormai sono abituato, ma in cuor mio, ogni volta, mi sento soffocare”.

La famiglia Sotir vive del salario di Nicoleta che lavora in una fabbrica di tessile e degli indennizzi riconosciuti allo stato ai non-udenti: circa 700 lei (150 euro) per Nicoleta e Daniel. Quando Laura è andata all'asilo i suoi genitori si sono resi conto che l'apparecchio acustico che le dovevano comperare costava 7000 lei (1500 euro). La Cassa nazionale di assicurazione sanitaria (CNAS) se ne prendeva in carico solo 1800. “Ci ha aiutati mia sorella, degli amici, il mio padrino...”, racconta Nicoleta “ma abbiamo dovuto smettere con le ore con la logopedista”.

Claudia Iordache è una psicologa e interprete specializzata nella lingua dei segni. Ha imparato a comunicare nella lingua dei segni fin da piccola dato che entrambi i suoi genitori sono non-udenti. Di solito è a lei che si rivolgono i principali canali televisivi nazionali quando hanno bisogno di una traduzione simultanea nella lingua dei segni.

Per dei genitori non-udenti non sentire i propri figli piangere, segnale che indica che hanno fame o che qualcosa non va, è sicuramente una prova molto dura. “La notte i miei genitori si addormentavano e non mi sentivano piangere e allora mia zia sbatteva sul muro. A volte veniva a suonare all'ingresso e avevamo un sistema speciale: suonando si accendevano le luci della casa”.

A 19 anni Claudia è partita per Bucarest per studiare psicologia. E' stata dura lasciare i suoi genitori a Ploieşti. “Mi ero abituata a stare con loro tutto il giorno per aiutarli, per essere le loro orecchie e a volte i loro occhi, perché i sensi sono particolarmente connessi. Quando sono partita ho sentito una sorta di rottura, come se li avessi traditi. I figli di non udenti sanno che non si possono allontanare troppo dai propri genitori”.

Trovare lavoro, missione impossibile
Trovare lavoro, ecco uno dei problemi più rilevanti per i non-udenti. Anche se nelle scuole specializzate apprendono a fare le parrucchiere, la manicure e pedicure, ad essere cuochi, a lavorare nel settore tessile sono in realtà in pochi i datori di lavoro a dar loro una possibilità. Carolina Verko lavora presso l'associazione nazionale dei non-udenti. “Ho subito enormi discriminazioni. Ho mandato il cv in molti luoghi ma quando poi mi recavo al colloquio e si rendevano conto che ero sorda mi dicevano che erano dispiaciuti ma che non mi potevano assumere”.

Vi è un'eccezione in Romania: un'azienda di Ploieşti, specializzata in tessile per automobili. Ha recentemente assunto 18 persone non-udenti. Costin Trâmbiţaşu è il suo direttore: “Il modo di comunicare con i non-udenti, anche se non avviene attraverso i suoni, è molto umano e arricchente. Ho assistito agli sforzi di tutto il gruppo di lavoro per avvicinarsi a loro e alla fine capirsi, è una lezione fantastica”. “Sono persone molto coscienziose e serie”, conferma la collega Iulia Negulescu.

Dopo aver identificato i bisogni dei nuovi dipendenti la direzione ha apportato numerose modifiche all'interno dello stabilimento. Per esempio, un segnale luminoso accompagna l'allarme anti-incendio. I non-udenti portano inoltre delle magliette gialle affinché gli altri colleghi si adattino al loro handicap.

Andreea Stîngaciu ha da poco compiuto 20 anni. E' divenuta sorda a 4 anni a seguito di una successione di otiti e ad una predisposizione genetica propizia alla sordità. Al suo compleanno metà degli amici presenti erano non-udenti, la eco delle emozioni passava attraverso il roteare a destra e sinistra nell'aria delle mani, che rappresenta l'applaudire nella lingua dei segni.

Malgrado il suo deficit all'udito Andreea ha sempre voluto studiare presso scuole “normali”, dove il livello di insegnamento è più alto. Il grado del suo handicap glielo permetteva. Ora studia all'università. “Studio diritto perché voglio battermi per i diritti delle persone non-udenti. Perché so cosa significa, in questo mondo, essere portatori di handicap e voglio fare tutto il possibile per rendere questo mondo più accogliente”.

Al posto di ricevere un po' di aiuto dalle istituzioni e dalle persone che hanno attorno i non-udenti sono sempre costretti ad adattarsi. Devono leggere il labiale se qualcuno parla troppo veloce e non abbastanza forte, devono subire la derisione delle persone che non li comprendono. Ciononostante non chiedono la luna: solo di avere accesso all'educazione e al lavoro, a un interprete quando ne hanno bisogno e che si smetta di guardarli con sospetto e mancanza di fiducia. Vogliono un po' di rispetto, che li si accetti, che si dia loro una possibilità.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #273 il: Luglio 16, 2019, 00:45:30 am »
Già perché ora non si delocalizza più il lavoro, ma i lavoratori che vengono deportati trasferiti in Albania, Portogallo, Romania. E mica per sempre, l'anno dopo se ne vanno in altri Paesi, cambiano lavoro e via da capo (v. caso dell'utente Artemisia). Poi dicono che non ci sono più famiglie.
La globalizzazione mercifica gli esseri umani e crea un marasma sociale ingestibile, un frullato che alla lunga non fa neppure bene agli affari.

Premesso che per me è roba vecchia, quando (ri)leggo roba del genere, mi girano i coglioni a mille...

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Un'ora di lavoro in un call-center viene pagata tra i 180 e 250 lek (1,30-1,80 euro circa)

Pazzesco.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #274 il: Luglio 17, 2019, 23:39:38 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/99012

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CULTURA: Sette motivi per vedere “Novine”, la serie croata su giornali e politica
redazione  1 giorno fa

di Biljana Prijić

La serie imperdibile dell’anno non è né americana né inglese. E non è nemmeno italiana. L’anno è ormai a metà, ma voi dedicatevi a guardare Novine e non ve ne pentirete. La trovate su Netflix con il titolo internazionale The Paper, perché “novine” significa giornale quotidiano, e delle vicende di un giornale tratta, con una qualità che forse non ti aspetteresti da una produzione tutta croata. Chi scrive l’ha iniziata a vedere per motivi biografici, essendo nata in Dalmazia che della Croazia è la regione costiera più bella, e per noia, avendo una volta oziosamente digitato “serbocroatian” nella barra di ricerca di Netflix, poi dice che divanarsi non serve a nulla… Ma voi potete vederla anche senza avere un cognome in -ić perché le cosebelle sono universali. Ecco 7 buonissimi motivi per non perderla.

Europea, ma esotica
La croazia è un vicino lontano, di cui sappiamo pochissimo perché i media se ne disinteressano, e che visitare una settimana d’estate non basta. Guardando Novine la si avverte esattamente così, vicina come tanti altri paesi dell’UE (dal 2014) e remota come può esserlo un luogo in cui “prima della guerra” vuol dire meno di trenta anni fa.

Dark, molto dark, e cattivi cattivissimi
Novine racconta la vita travagliata di una redazione di giornalisti bravi e dediti, alle prese con lo strapotere di politici, poliziotti, giudici e uomini e donne d’affari dal passato sempre inevitabilmente opaco e privi di ogni scrupolo morale. Il più pulito ha la rogna, e House of cards pare un collegio di educande al confronto.

Tutti i mali del sovranismo, spiegati bene
Soprattutto nella seconda stagione (uscita su Netflix a inizio di quest’anno) la connessione tra deriva morale e nazionalismo cieco è palese e raccontata attraverso le azioni, i gesti e le parole di personaggi eterogenei tra loro, di parti politiche avverse e di estrazioni tra le più varie. Non si scende mai nella retorica del “tutto un magna magna”, però: le contraddizioni sono mostrate in modo piano e crudo, con una sensazione di inevitabilità che mette angoscia ma tiene pure incollati allo schermo.

Fiume fotogenica
Novine non è girato né ambientato nella scontata capitale Zagabria, ma in una città costiera e portuale che fu a lungo italiana. Rijeka d’inverno è una scenografia livida perfetta, ripresa da ogni angolazione anche con droni parsimoniosi e benevoli. Ci sono le calli del centro, i portoni socialisti di periferia, le opulente stanze del potere, le ville di design in collina, i bar dall’aria densa.

Croatian way of life, sesso fumo e alcool.
Non siamo più abituati (per fortuna) a vedere fumare ovunque, dal bar al ristorante alla casa di qualcun altro. In Novine tutti fumano e bevono (whisky, soprattutto) tantissimo, in continuazione e con voluttà disperata. Può essere utile per ricordarci che tutto sommato stiamo meglio ora che si fuma solo all’aperto, ma anche per rivedere dei gesti che da decenni abbiamo associato ai film su crimini e complotti, con gente che fuma a prescindere, ovunque, e se ne frega. Persino per i non fumatori, liberatorio.

Il serbocroato in tante sfumature, imprecazioni comprese
Le serie (e internet) hanno compiuto il miracolo che tutte le VHS di English movie collection non potevano sperare di raggiungere. È molto bello godersi le voci originali degli attori e aiutarsi con i sottotitoli se lo slang di Boston (o di LA, o di Londra) non sono alla nostra portata. È altrettanto bello però godersi lingue di cui non capiamo quasi nulla ma che sono intimamente legate all’ambientazione che le caratterizza. Pur trattando temi universali in cui vi riconoscerete di certo, Novine è balcanica fino al midollo, e i personaggi devono parlare una lingua slava. Godetevi Novine in lingua, assaporate gli accenti (una delle giornaliste è serba e non lo nasconde), non arrossite per le parolacce e bestemmie a ripetizione, fanno parte del gioco.

La qualità sta dove si sa esprimerla
Attori bravi, fotografia curata e chirurgica, regia sapiente del folletto pluripremiato del cinema croato Dalibor Matanić, quello di Sole alto. La realizzazione della serie è stata all’altezza delle ambizioni della produzione, e dei migliori prodotti internazionali in circolazione.
Novine parla di noi e a noi senza pretese universalistiche o pipponi morali. Lo fa perché chi meglio di un vicino lontano può aiutarci a fare quel passetto indietro per guardarsi un po’ da fuori, che è sempre tanto utile quanto difficile? Ci pare che il vantaggio valga lo sforzo di saggiare la prima puntata.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #275 il: Luglio 17, 2019, 23:42:07 pm »
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ROMANIA: Un secolo di disastri in Moldavia
Francesco Magno  1 giorno fa

Fino a qualche anno fa i muri e i pali della luce di Bucarest venivano tempestati di piccoli adesivi neri sui quali troneggiava una scritta tanto lapidaria quanto chiara: “Basarabia este România” (la Bessarabia e Romania). Ancora oggi è possibile vederli. I romeni non si riferiscono mai alla Repubblica di Moldavia con il suo nome officiale; ancora oggi la chiamano Bessarabia, un termine dall’etimologia incerta che deriva verosimilmente dal nome della dinastia medievale dei Basarab. “Basarabia pământ românesc”, “Bessarabia terra romena”. Spesso i romeni chiudono con questa sentenza una qualsiasi discussione sull’identità della Moldavia, sbeffeggiando chiunque cerchi di problematizzare la questione etnico-nazionale del loro vicino nord-orientale. Un vicino, quasi un fratello minore, da proteggere, spesso da prendere in giro, il cui ritorno a casa (prima o poi) è dato quasi per certo. Un atteggiamento paternalistico che nel corso della storia non ha caratterizzato solo l’opinione pubblica, ma anche la classe dirigente, che dal 1918 ad oggi ha mostrato più volte di aver compreso poco della terra tra il Nistro e il Prut. La peculiare auto-identificazione ibrida dei moldavi, sospesi tra mondo romenofono a spazio-post sovietico, non si deve solo a 50 anni di appartenenza all’U.R.S.S., ma anche agli errori (passati e presenti) di Bucarest.

Gli errori di ieri

Quando 100 anni fa, dopo la prima guerra mondiale, la Bessarabia divenne ufficialmente una regione della Romania, pochi la conoscevano realmente. Per più di un secolo essa aveva fatto parte dell’impero russo, periferia sud-occidentale di un regno sconfinato, abitata per lo più da contadini romenofoni che, tuttavia, non sentivano un grande trasporto verso la Romania. Si trattava di uomini e donne analfabeti, dediti ad un’agricoltura di sussistenza in villaggi spesso isolati e difficilmente raggiungibili dall’unico grande centro urbano, Chișinău. Una città costruita da architetti italiani, abitata soprattutto da ebrei, che di romeno aveva poco o nulla.

La popolazione contadina bessarabena veniva però idolatrata nei salotti intellettuali della capitale come elemento portante dell’identità nazionale nella regione, focolare di resistenza dei valori culturali ancestrali. Bastarono poche settimane ai funzionari giunti dalla capitale per smontare i sogni dell’intellighenzia nazionalista. Nel novembre del 1918, a soli otto mesi dall’unione, un delegato del ministro della giustizia descrive in toni pessimistici ai suoi superiori l’atteggiamento della popolazione

Dal mio arrivo nella regione ho potuto constatare che la nostra popolazione romena (moldava) è molto insubordinata e non ha preso per niente bene l’arrivo dei nostri funzionari e della nostra amministrazione

Diversi impiegati pubblici spediti nella regione vi avevano sin da subito visto una terra di nessuno dove poter sfruttare la confusione istituzionale seguita alla prima guerra mondiale, alla rivoluzione russa e al cambio di appartenenza statale per arricchirsi. Frequenti furono i soprusi ai danni della popolazione contadina, vessata dalle tasse e da nuove leggi e istituzioni che essi non comprendevano e, di conseguenza, non accettavano. I russi avevano permesso ai villaggi bessarabeni quasi di autogovernarsi, seguendo ritmi sedimentatisi nel corso dei secoli. L’insediamento del nuovo potere interruppe il lento scorrere della vita contadina. Intollerabile per la popolazione locale fu l’atteggiamento della gendarmeria, che non perdeva occasione per abusare del suo potere.

Emblematico un episodio del 1920, quando un contadino e un maestro vennero picchiati e poi rinchiusi per tre giorni in cella senza cibo o acqua dai gendarmi solo perché avevano chiesto che la legge sull’espropriazione delle proprietà ecclesiastiche venisse applicata in modo corretto.[1]

Una relazione talmente traumatica, quella tra gendarmeria e contadini, che nella Repubblica di Moldavia odierna le forze dell’ordine hanno abbandonato il nome di gendarmeria (che conservano in Romania) per adottare la denominazione di carabinieri.

Bucarest trattò Chisinău per tutto il periodo interbellico come una sorta di colonia interna, ignorando le peculiarità della regione e puntando ad una nazionalizzazione completa della vita pubblica. Se a ciò si unisce l’inefficienza e la corruzione dell’amministrazione, non sorprende che nel 1940, al ritorno dei sovietici, molti contadini non si siano strappati le vesti.

Gli errori di oggi

 Nonostante 50 anni di potere sovietico e la successiva indipendenza, non sorprende che la Moldavia continui a rappresentare una delle principali preoccupazioni strategiche della Romania, in virtù di comunanze storiche e linguistiche. Risulta difficile giustificare, pertanto, il comportamento romeno in occasione della crisi istituzionale moldava del mese scorso. La Romania è stata uno degli ultimi attori internazionali a sostenere il governo Sandu, proponendo fino all’ultimo un dialogo chiaramente insostenibile con l’oligarca Vladimir Plahotniuc. Quest’ultimo ha goduto per anni di numerose e influenti simpatie negli ambienti istituzionali e politici romeni, soprattutto all’interno del partito social-democratico, il più importante del paese. C’è addirittura chi sostiene, come l’analista Sorin Ionita, che Plahotniuc sia stata un’invenzione dei servizi segreti romeni per mettere un piede nelle stanze dei bottoni di Chișinău; uno strumento sul quale, tuttavia, Bucarest avrebbe successivamente perso il controllo.

Certo è che l’ambiguo legame che lega l’oligarca al mondo politico finanziario della Romania è chiaro: questi già nel 2001 era riuscito ad ascendere ai vertici di Petrom, compagnia petrolifera all’epoca di proprietà dello stato, secondo Ionita grazie allo stretto rapporto da lui intrattenuto con il leader dell’epoca del PSD Adrian Nastase. Successivamente Plahotniuc è diventato amministratore delegato della sezione moldava della stessa Petrom. Per anni i governi monopolizzati dai social-democratici hanno individuato in Plahotniuc l’uomo che avrebbe guidato la Moldavia sulla strada filo-europea.

La Romania è rimasta con lui fino all’ultimo, anche quando UE e Stati Uniti lo avevano ormai abbandonato, trovandosi così realmente isolata. Una vicinanza, quella tra l’oligarca e alcuni circoli politici influenti, che addirittura ha spinto alcuni giornalisti a paventare una richiesta d’asilo dell’ex uomo forte proprio alla Romania; indiscrezione poi smentita. L’impressione è comunque che la Romania non riesca a imporsi come attore importante nelle trattative che riguardano il futuro moldavo, venendo quasi sempre messa di fronte al fatto compiuto. L’inconsistenza strategica sul tema è una macchia in un quadro diplomatico che negli ultimi 20 anni è stato abbastanza roseo, con l’ingresso nella Nato, nell’UE e il rapporto sempre più stretto con Washington, che ha proprio nel paese carpatico il suo principale alleato nell’area del Mar Nero.

L’errore compiuto dalla classe dirigente attuale è, pur con tutte le differenziazioni del caso, lo stesso compiuto dai suoi antesignani di un secolo fa: ignorare la complessità della regione. Un’ignoranza che si unisce ad una mancanza di visione sul lungo periodo, e ad una convinzione che, ieri come oggi, non ha mai vacillato: a Bucarest tutti, chi più chi meno, credono che i moldavi vogliano ardentemente tornare a casa, in Romania, where they belong. Non era vero nel 1918, e non è vero neanche oggi. Sebbene non manchino in gli unionisti, il panorama dell’opinione pubblica è ben più frastagliato; c’è chi ritiene indispensabile un legame economico-culturale con la Russia, c’è chi vorrebbe tenere equidistanza, c’è chi è totalmente indifferente al tema. E anche all’interno della compagine unionista, siamo sicuri che questo afflato “romenista” non sia in realtà una ben più banale voglia di occidente, identificato con la Romania in virtù della sua appartenenza all’Unione Europea?

Il legame tra i due paesi resta innegabile, non fosse altro per una comunanza linguistica e culturale innegabile. Non è un caso che il primo capo di stato incontrato dalla premier moldava Maia Sandu dopo la fine della crisi istituzionale sia stato il presidente romeno Klaus Iohannis, al quale ha chiesto soprattutto di perorare la causa del nuovo esecutivo a Bruxelles. Richiesta alla quale Iohannis ha risposto affermativamente, da fratello maggiore. La strada per diventare partner strategico e attore tenuto in considerazione dalle grandi potenze sembra, tuttavia, ancora lunga.

[1] A. Basciani, Dificila Unire. Basarabia si Romania Mare 1918-1940, Cartier, Chișinău, 2018

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #276 il: Luglio 19, 2019, 21:29:01 pm »
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Armenia: hai 30 anni? Troppi per aver diritto ad un lavoro

In Armenia la discriminazione sul lavoro basata sull'età è un problema serio, come dimostrano le testimonianze di Karine, Karen e Anna. Una proposta di legge che cambierebbe la situazione è però in fase di discussione in parlamento

19/07/2019 -  Armine Avetysian   Yerevan
Nella Repubblica di Armenia si sta discutendo la proposta per cui i datori di lavoro non avranno più il diritto di specificare restrizioni di età nelle offerte di lavoro, in quanto verrà proibito per legge.

A giugno, un progetto di legge è stato discusso e adottato in prima lettura dall'Assemblea Nazionale che, se adottato in via definitiva, modificherà il Codice del lavoro dell'Armenia, prevedendo che l'età dell'impiegato non può essere un limite legale o una ragione per non firmare un contratto di lavoro eccetto che per specifici casi regolati per legge.

Karine
Karine, 40 anni, ha lavorato per 5 anni come addetta alle pulizie in un salone di bellezza a Yerevan. Dice di avere dovuto fare quel lavoro in quanto non aveva altre alternative.

"Sarei dovuta diventare sociologa, ma ho abbandonato gli studi. Ero al mio secondo anno in università quando ho incontrato il mio futuro marito, mi sono innamorata, sposata, sono rimasta incinta subito e ho dovuto sospendere gli studi. Poi non sono più tornata all'università, anche se ho sempre pensato che l'avrei finita più avanti", racconta Karine.

All'età di 25 anni Karine era già madre di tre figli. All'inizio le piaceva stare a casa con i figli, vivevano grazie al salario del marito ma quest'ultimo ha poi avuto problemi alla schiena e non ha più potuto fare lavori pesanti. Karine ha allora iniziato a cercare un lavoro.

"Avevo solo 35 anni quando ho cominciato a cercare un lavoro. Pensavo, per esempio, che avrei trovato un lavoro come commessa, ma dovunque mi candidassi, ricevevo rifiuti: dicevano che ero troppo vecchia. Roba da non credere. guardano in faccia una donna di 35 anni e le dicono che è vecchia, che non è adatta al lavoro. Mi sono candidata in più di 12 posti e ho sentito le stesse risposte. Alla fine sono dovuta andare a fare la donna della pulizie. Insomma, avevamo bisogno di soldi", dice la donna.

Karen
Karen è originario di Gyumri, ma vive a Yerevan. Ha 38 anni ed è un economista di professione. Ha lavorato in un'azienda privata per circa 5 anni. Sono già passati due anni da quando ha perso il lavoro e da allora non è riuscito a trovare un'occupazione nel suo campo. Oggi lavora come tassista.

"Quando l'azienda in cui lavoravo ha chiuso, ero più che sicuro che avrei trovato un lavoro in un'altra azienda molto velocemente, ma non è successo. Ovunque mi candidassi, dicevano che rispettavano le mie competenze e la mia esperienza, ma che avevano bisogno di una squadra più giovane", ricorda Karen.

Karen non ha trascorso molto tempo alla ricerca di un lavoro da dipendente. Racconta di aver compreso la realtà dei fatti molto velocemente ed ha allora deciso di iniziare il lavoro di tassista. "Non potevo perdere tempo, ho due bambini, dovevo nutrire la mia famiglia. Ho registrato la mia macchina come taxi e ho cominciato a lavorare. Non mi lamento ora, viviamo normalmente. È solo un peccato non lavorare nel mio campo", racconta Karen.

Anna
Anna, 35 anni, risiede a Vanadzor, Armenia settentrionale. È da diversi anni che cerca un lavoro. È laureata in storia. "Dopo essermi laureata non riuscivo a trovare un lavoro in nessun scuola. Ho provato a candidarmi per la posizione vacante di insegnante di storia in parecchi posti, ma non sono stata presa da nessuna parte. Sono stata rifiutata per varie ragioni. Di fatto sino ad alcuni anni fa era impossibile ottenere un lavoro in Armenia senza nessuna "conoscenza", e io non avevo questa "conoscenza", dice Anna.

Un anno fa ha avuto luogo in Armenia una rivoluzione non-violenta, denominata la rivoluzione di velluto, che ha implicato grandi cambiamenti nella classe dirigente. Da quel giorno, Anna era convinta che sarebbe finalmente riuscita a trovare il lavoro desiderato perché le cose erano cambiate.

"Ho partecipato a un concorso di lavoro e non l'ho ottenuto; come storica avevo bisogno di un po' di preparazione in più, dovevo rinfrescare la memoria. Ero così stanca che ho deciso di abbandonare il sogno di diventare un'insegnante di storia e ho cercato un altro lavoro. Si è rivelato impossibile", dice Anna.

Anna ha seguito vari annunci di impiego ma è ancora disoccupata. "Non ricordo nemmeno dove mi sono candidata. Le mie richieste di lavoro, da commessa a maestra di asilo, sono state rifiutate. In tutti i posti insistevano sul fatto che sono troppo vecchia".

Ogni tipo di discriminazione dovrebbe essere proibita in Armenia
Nel 1995, l'Armenia ha ratificato la Convenzione di Ginevra adottata nel 1958 dall'Organizzazione Mondiale del Lavoro, che proibisce la discriminazione di assunzione basata sull'età. Anche la Costituzione della Repubblica di Armenia vieta la discriminazione. Secondo l'articolo 29 della Costituzione, la discriminazione basata su genere, razza, colore della pelle, origine etnica o sociale, caratteristiche genetiche, lingua, religione, visione del mondo, visione politica, essere parte di una minoranza nazionale, patrimonio, nascita, disabilità, età o altre circostanze personali o sociali, è proibita. Quest'anno a giugno l'argomento è stato anche trattato dell'Assemblea Nazionale; poi il progetto di legge summenzionato è stato adottato in prima lettura.

L'autore del progetto di legge è il Deputato Tigran Urikhanyan del partito Armenia Prospera. Il giorno della discussione Heriknaz Tigranyan, vice-presidente della Commissione permanente sulla sanità e gli affari sociali dell'Assemblea Nazionale, nel suo intervento ha sottolineato che il governo ha dato una valutazione negativa sul progetto di legge, ma durante la discussione in sede di commissione a Tigran Urikhanyan è stato suggerito di aggiornare la bozza di legge e definire la descrizione di discriminazione sulla base di quanto già contenuto nella Costituzione.

"La proibizione della discriminazione basata solo sull'età non è stata considerata sufficiente, vi è il bisogno di una formulazione più esauriente, per questo abbiamo aggiunto altre specifiche", ha dichiarato Tigranyan, sottolineando che al primo firmatario del progetto di legge verrà proposto di sottoporlo a revisione durante il periodo tra la prima e la seconda lettura del documento, inserendo che negli annunci di lavoro il datore di lavoro non potrà indicare quelle qualità che non sono condizionate dalle qualifiche professionali dell'impiegato o che non hanno a che fare con la sua preparazione, ad eccezione dei casi dove quelle restrizioni emergono dalla natura specifica del lavoro.

Al momento, la versione aggiornata della progetto di legge si trova sul sito dell'Assemblea Nazionale  in stato di seconda lettura.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #277 il: Luglio 28, 2019, 18:18:28 pm »
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Omicidi, bombe e dirottamenti aerei: breve storia del terrorismo anti-jugoslavo
Riccardo Celeghini  3 giorni fa

Il 7 aprile del 1971, due giovani ragazzi croati, Miro Barešić e Anđelko Brajković, entrano nella sede dell’ambasciata jugoslava a Stoccolma. Nonostante quella sia l’ambasciata del loro paese, la Jugoslavia appunto, i due ragazzi non sono lì per richiedere assistenza o il rilascio di un documento: sono entrati armati, e dopo essere penetrati all’interno dell’edificio arrivano fino all’ambasciatore Vladimir Rolović, che uccidono a colpi di pistola. Si tratta di un atto terroristico, uno dei tanti attacchi condotti negli anni ’60 e ’70 contro obiettivi legati alla Jugoslavia di Tito.

La galassia del terrorismo croato

Circa venti diplomatici e funzionari uccisi nelle loro missioni all’estero, quattro dirottamenti di aerei, almeno ottanta morti in totale, decine di attentati in giro per il mondo: questo è il bilancio di una vera e propria guerra, condotta dai nazionalisti e dagli anticomunisti, per lo più croati, contro la Jugoslavia socialista.

L’uccisione dell’ambasciatore Rolović a Stoccolma, difatti, non è che l’evento più eclatante di una scia di attentati organizzati in giro per il mondo da gruppi terroristici attivi soprattutto negli anni ’60 e ’70. Sigle come il Movimento Croato di Liberazione (HOP), la Fratellanza Rivoluzionaria Croata (HRB) o la Resistenza Nazionale Croata (HNO-Otpor) assursero alla ribalta per azioni violente e rocambolesche contro obiettivi jugoslavi.

Nonostante metodi diversi, queste organizzazioni erano difatti accomunate da un unico obiettivo: combattere con ogni mezzo per l’indipendenza della Croazia, liberandola dal “giogo” jugoslavo e riportandola ai presunti fasti dello Stato Indipendente di Croazia, lo stato fantoccio governato dal regime filonazista degli ustaša negli anni della Seconda guerra mondiale, macchiatosi di atroci crimini contro oppositori, ebrei e serbi. Proprio i superstiti di quel regime, fuggiti all’avvento dei partigiani titini, erano stati i fondatori delle organizzazioni nazionaliste, a cui, secondo le stime della CIA, si avvicinarono negli anni circa 3.000-5.000 estremisti croati in diversi paesi del mondo: si trattava spesso di giovani generazioni, figli della diaspora del dopoguerra, radicalizzati lontani dalla propria terra di origine.

Gli attentati in Jugoslavia

I primi grandi attentati organizzati dai nazionalisti croati avvennero in territorio jugoslavo. Il 13 luglio del 1968 una bomba esplose al cinema “20 Oktobar” di Belgrado, provocando una vittima e ben 85 feriti; poche settimane dopo, il 25 settembre, tre bombe colpirono la stazione ferroviaria della capitale jugoslava, causando 13 feriti. Il responsabile fu individuato dalle autorità in Miljenko Hrkać, membro del movimento nazionalista croato HOP, fondato dopo la guerra dallo stesso Ante Pavelić, leader degli ustaša fuggito in Spagna. Hrkać verrà poi arrestato e condannato a morte nel 1978.

Un altro tentativo di colpire il regime di Tito all’interno dei propri confini avvenne nel luglio del 1972. Un gruppo paramilitare costituito e addestrato in Germania Ovest dall’HRB, con fondi provenienti dalla diaspora croata in Australia, entrò in Jugoslavia con l’obiettivo di innescare una ribellione dei croati contro le autorità. La missione finì però tragicamente: a seguito di diversi scontri a fuoco, 18 membri del commando furono uccisi, e uno arrestato. Anche 13 soldati jugoslavi persero la vita nei combattimenti.

Le azioni all’estero

Ben presto, apparve chiaro ai terroristi che agire all’interno dei confini jugoslavi era una missione quasi impossibile. I gruppi si concentrarono perciò in azioni all’estero. Dopo alcune azioni minori, l’uccisione dell’ambasciatore in Svezia attirò l’attenzione del mondo. L’azione dei terroristi, in quel caso, aveva un obiettivo mirato: prima di divenire ambasciatore, difatti, il montenegrino Rolović era stato ai vertici dell’UDBA, i servizi segreti jugoslavi, nonché responsabile del campo di prigionia per i dissidenti del regime di Goli Otok. Proprio l’UDBA rappresentava il nemico numero uno del terrorismo croato, essendo impegnata nella ricerca e nell’eliminazione delle cellule nazionaliste in tutto il mondo, in una guerra senza esclusione di colpi.

Agli attacchi mirati, si sommarono presto azioni su larga scala. Il 26 gennaio 1972, una bomba esplose sul volo JAT 367 Stoccolma-Belgrado, causando 27 morti. L’unica sopravvissuta fu la hostess Vesna Vulović, in una storia che ha dell’incredibile. Ben presto, apparve chiaro che i responsabili erano terroristi croati.

Il 15 settembre dello stesso anno, un gruppo di terroristi dell’HNO dirottò il volo 130 della Scandinavian Airlines Goteborg-Stoccolma, richiedendo il rilascio degli arrestati per l’attentato all’ambasciata di Stoccolma. Lo scambio avvenne solo a metà, dato che una volta atterrati in Spagna i dirottatori trovarono la polizia ad aspettarli. E ancora, il 10 settembre 1976, un gruppo di nazionalisti croati dirottò il volo TWA 355 da New York a Chicago, un’avventura che finì con l’arresto di tutti i responsabili una volta atterrati a Parigi.

Il cacciatore di Tito

Tra i dirottamente aerei, uno in particolare ha delle caratteristiche peculiari. Nel 1979, l’aereo 727 New York-Chicago venne dirottato non da nazionalisti croati, ma dal serbo Nikola Kavaja, successivamente arrestato e condannato a 20 anni di prigione.

Kavaja è una figura unica: fervente anticomunista, fuggì dalla Jugoslavia nel 1953, e arrivato negli Stati Uniti tentò più volte di organizzare l’uccisione di Tito, forse dietro arruolamento della CIA. Tentativi mai portati a termine, ma che gli valsero il soprannome di “cacciatore di Tito”. Kavaja diventò poi membro del SOPO, il Movimento di Liberazione della Patria Serbia, un gruppo della diaspora anticomunista serba responsabile di una serie di attentati a consolati e uffici jugoslavi negli Stati Uniti. Kavaja uscì dal carcere nel 1997, quando tornò in Serbia e strinse legami con criminalità e gruppi nazionalisti e paramilitari locali, aggiungendo ulteriore alone di mistero ad una vicenda personale assolutamente controversa.

La guerra degli anni ‘90

Dagli anni ’80 in poi, le attività dei terroristi croati iniziarono a ridursi. Negli anni ’90, però, per molti di loro arrivò il momento della rivalsa: diversi esponenti di quegli stessi gruppi tornarono in patria, arruolandosi nella guerra che porterà alla nascita della Croazia democratica ed indipendente.

Tra questi, vi era anche Miro Barešić, l’assassino dell’ambasciatore a Stoccolma. Barešić, rientrato in patria alla fine degli anni ’80, morì in azione durante la guerra nel 1991, assurgendo a simbolo nazionale per i nazionalisti croati. Nel 2016 una sua statua venne eretta nel villaggio di Drage, nella contea di Zara, alla presenza di ministri e membri del parlamento croato, scatenando reazioni sdegnate da parte dei governi di Serbia e Montenegro.

Una dimostrazione, questa, di come ancora oggi la lettura di quei tragici eventi continua a dividere i paesi nati sulle ceneri di quella stessa Jugoslavia.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #278 il: Luglio 28, 2019, 18:20:29 pm »
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Inquinamento: se in Bosnia l'emergenza diventa normalità

A distanza di pochi giorni due report indipendenti fotografano il gravissimo inquinamento industriale in Bosnia Erzegovina. Secondo gli attivisti, all'inefficienza di vecchi impianti si somma quella delle istituzioni, che forniscono dati incompleti e parziali. Così l'emergenza diventa una normalità camuffata

26/07/2019 -  Marco Ranocchiari
In una conferenza stampa tenutasi lo scorso 17 giugno a Zenica, le associazioni ambientaliste Arnika ed Eko Forum hanno presentato un rapporto sull'inquinamento dell'aria dovuto all'attività industriale in Bosnia Erzegovina. Lo studio, mettendo in rassegna i dati ufficiali disponibili, compila una sinistra top ten dei dieci impianti più responsabili di quella che nel paese balcanico sembra avere raggiunto le dimensioni di una piaga ambientale e sanitaria.

Sul primo gradino del podio figura l'acciaieria Arcelor Mittal di Zenica, responsabile, tra l'altro, dell'emissione di 5200 tonnellate di solfati e nitrati nel 2017. Seconda classificata, la centrale termoelettrica di Tuzla.

La lista comprende tabelle sull'emissione di particolato, gas serra e altri inquinanti.

La notizia forse più rilevante, però, è quello che non c'è. Sono infatti scarsissimi, denunciano gli attivisti, i dati messi a disposizione dei cittadini. Quando pure presenti, sono spesso incompleti o inaccurati. La lista è quindi incompleta: non è stato possibile inserire, ad esempio, le centrali termoelettriche di Gacko e Uglijevik, che pure sono stimati considerano tra le più inquinanti d'Europa.

Sebbene la legge imponga l'obbligo da parte dei gestori degli impianti di comunicare i dati sulle proprie emissioni, questo avviene con estrema difficoltà. "Le informazioni sono accessibili solo su richiesta ufficiale. Le autorità competenti rispondono di solito con grande ritardo, quando ormai è troppo tardi per permettere ai cittadini di influire sul processo decisionale", dice il professor Samir Lemeš, dell'associazione Eco Forum.

L'acciaieria di Zenica
L'impianto più inquinante della Bosnia Erzegovina risulta essere la storica acciaieria di Zenica. Ai tempi della Jugoslavia, quando dava lavoro a oltre ventimila persone, era il cuore pulsante della città sul fiume Bosna. L'impianto chiuse a causa della guerra degli anni '90 e rimase in stato di abbandono fino al 2004, quando il colosso dell'acciaio Arcelor - Mittal (proprietario, tra l'altro, dell'ex-Ilva di Taranto) ne rilevò la proprietà. Quattro anni dopo gli altoforni ripresero la produzione. La speranza di rinascita derivante da questa impresa era scritta nel nome del progetto: Feniks, come l'uccello mitologico che rinasce dalle sue ceneri. Ma dopo undici anni, solo duemila (tremila, se consideriamo gli operai esternalizzati) lavoratori sono tornati al loro posto. L'unica cosa che, oggi, ricorda la mitica fenice sono proprio le ceneri.

Come il particolato PM10: 1400 le tonnellate emesse nel 2017. La soglia di diossido di zolfo (125 microgrammi al metro cubo), che la legge raccomanda di non raggiungere più di tre volte in un anno, è stata superate 124 volte nel 2018. Sempre meglio che nel 2012, la soglia era stata passata 192 volte, e migliaia di cittadini di Zenica erano scesi in piazza, ma la situazione resta disastrosa. Un odore acre di smog impregna perennemente i quartieri vicino agli fornaci, mentre la fornace a ossigeno sparge un fumo marrone che, nelle giornate senza vento, ristagna indisturbato nella città. Numerose evidenze mostrano un aumento nei casi di cancro e di patologie respiratorie nella città di Zenica. Eppure le autorità non hanno finora fatto molto più che fornire rapporti di poche pagine che si limitano a fare un elenco dei casi, rendendo difficilissimo dimostrare una correlazione con l'inquinamento industriale.

Alle manifestazioni, negli ultimi anni, sono seguite le azioni legali. Le associazioni, in particolare Eko Forum, che è riuscita a coinvolgere la municipalità di Zenica, all'inizio recalcitrante, contestano ritardi e irregolarità, oltre alla cronica riluttanza a fornire informazioni.

Vengono in particolare contestate le modalità di rinnovo dei permessi ambientali dell'acciaieria, scaduti nel 2014 e 2015 e rinnovati senza difficoltà dal ministero nonostante numerose inadempienze. Come i filtri per la fornace a ossigeno, che doveva arrivare sei anni fa ed è stata invece appena installata. "È già qualcosa, ma ne servirebbero almeno altre tre", dice il professor Lemeš. Gli attivisti, dopo lunghi negoziati, hanno ottenuto criteri più stringenti per i nuovi permessi. Ma nel febbraio 2019, per una sorta di cortocircuito legale, il tribunale cantonale di Sarajevo pur riconoscendo nel merito molte ragioni agli attivisti, ha respinto il ricorso.

A Zenica si mantiene quindi lo status quo, in una cornice di formale regolarità. Gli attivisti continuano a negoziare, chiedendo, in primo luogo, maggiore trasparenza.

Il rapporto "Lifting the Smog" a Tuzla
Negli stessi giorni della conferenza di Zenica, Bankwatch e altre associazioni presentavano un altro rapporto indipendente, "  Lifting the Smog", che accende i riflettori su Tuzla, dove sorge il secondo impianto più inquinante del paese.

La città dell'est del paese, già scintilla delle imponenti proteste di piazza del 2014 e da sempre a vocazione industriale e mineraria, detiene un altro secondo posto, ancora più inquietante: quello della mortalità da inquinamento dell'aria (dati della World Health Organization  ). Il complesso della centrale termoelettrica di Tuzla, che comprende anche una miniera di lignite a cielo aperto e una discarica, è stato costruito tra gli anni '60 e '70.

In 5 mesi di monitoraggio, si legge nel report, i livelli di particolato PM10 risultavano doppi rispetto al limite medio imposto dalla legge. Al particolato PM2.5, secondo lo studio, sono dovute ben 136 morti precoci nel 2018, cioè il 17% del totale dei decessi tra gli adulti.

La piaga dell'inquinamento è nota alle autorità. La soluzione che propongono, però, appare paradossale agli attivisti: la costruzione di una nuova centrale. Un impianto a carbone da 450 MW, più moderno, che dovrebbe consentire di ridurre gli impatti. Peccato che invece di sostituire quella vecchia, due delle vecchie unità continuerebbero a operare. Difficile quindi parlare di una reale riduzione.

Secondo gli autori dello studio, anche in questo caso, a mancare è soprattutto un reale impegno da parte delle istituzioni, e soprattutto la reticenza a ricavare e fornire informazioni. A titolo di esempio, anche se la legislazione della Bosnia Erzegovina prevede il monitoraggio del particolato, a Tuzla esistono stazioni ufficiali solo per il particolato più sottile (PM2.5), e non per il PM10.

"Le istituzioni responsabili del monitoraggio della qualità dell'aria e delle misure per migliorarla" - si legge nel documento - "non raccolgono i dati che servirebbero per capire e migliorare la situazione".

Conclusioni simili a quelle cui, a Zenica, giunge il professor Lemeš: "Sembra che le autorità, invece che ammettere il problema e cercare una soluzione adeguata, cerchino di minimizzare la gravità della situazione. Usano ancora i problemi sociali ed economici come pretesto per continuare con il business as usual e garantire un po' di occupazione mentre, in realtà, non si fa quasi niente per sviluppare o attrarre investimenti sostenibili".

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #279 il: Luglio 28, 2019, 18:24:08 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Ue-porte-chiuse-ai-Balcani-195610

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Ue: porte chiuse ai Balcani

Il Consiglio europeo dello scorso giugno ha sferrato un altro colpo alle speranze di Albania e Macedonia del Nord di aprire i negoziati di adesione all’UE. Per gli altri paesi dei Balcani la situazione non è molto più incoraggiante

16/07/2019 -  Ornaldo Gjergji
Dopo aver già rimandato la decisione nel 2018, il 18 giugno scorso il Consiglio europeo non ha trovato un accordo unanime e ha stabilito che per l’Albania e la Macedonia del Nord i negoziati di adesione apriranno, forse, il prossimo ottobre. Questo potrebbe frustrare ulteriormente i due paesi che, con gli accordi di Prespa in Macedonia del Nord e il vetting giudiziario in Albania, hanno visto i rispettivi governi impegnati in riforme importanti, messe in atto per persuadere gli stati dell’Unione europea a dare il via libera alle negoziazioni.

Le motivazioni che hanno portato il Consiglio ad esprimere un parere negativo, sostenute in primis dalla Francia di Emmanuel Macron, sono state sostanzialmente strumentali e la decisione è stata figlia delle molte trattative in atto fra i massimi decisori europei, i paesi membri. Questo soprattutto se si considera che la Commissione europea aveva dato per ben due volte parere positivo all’apertura dei negoziati di adesione per Tirana e Skopje.

Per quanto riguarda gli altri paesi della regione, Serbia e Montenegro hanno già aperto le negoziazioni con l’Unione europea ma queste sostanzialmente sono in una fase di stallo. La Serbia deve affrontare il problema della soluzione delle relazioni con il Kosovo - condizione necessaria per la chiusura dei negoziati -, del deteriorarsi della libertà dell’informazione e dell’erosione degli standard democratici. In Montenegro vi è una corruzione endemica che sta rendendo difficili i negoziati con l’UE. Bosnia Erzegovina e Kosovo, invece, non sono nemmeno ancora ufficialmente candidati.

Queste difficoltà hanno alimentato nella regione un senso di scetticismo nei confronti dell’UE. Come mostrano le rilevazioni del Balkan Public Barometer, Albania e Kosovo sono i paesi in cui la popolazione vede con maggior favore un eventuale ingresso nell’Unione europea. Nel caso kosovaro il sostegno è però drasticamente sceso nel 2019 - forse anche a causa delle resistenze da parte dell’UE nel concedere ai cittadini kosovari la libera circolazione all’interno dei propri confini.

Anche in Macedonia del Nord e Montenegro si sta invertendo la tendenza che aveva visto crescere negli ultimi anni il supporto all’Unione europea. In Bosnia Erzegovina e Serbia, invece, meno della metà della popolazione vede positivamente la partecipazione del proprio paese al processo di integrazione europea.

Per quanto la Commissione europea abbia delineato nel 2018 una strategia credibile per la prospettiva di allargamento verso i paesi balcanici, la regione sembra più lontana oggi, rispetto a pochi anni fa, dall’obiettivo di diventare parte integrante dell’Unione. Da un lato, nei paesi dei Balcani si sta assistendo a una crescente resistenza alle riforme socio-economiche e politiche richieste dall’UE, se non a dei veri e propri passi indietro rispetto ai progressi fatti nel passato. Dall’altra, l’Unione europea, a causa delle sue molteplici crisi interne, è meno concentrata sull’allargamento di quanto non fosse fino ad alcuni anni fa.

Se gli stati membri dovessero continuare a strumentalizzare l’apertura o il prosieguo dei negoziati con i paesi balcanici, invece di pensare a un’Europa a 33, i Balcani rischiano di rimanere uno spazio escluso. Rischiano di essere lasciati a stagnare in una condizione di crisi permanente, verso la quale si reagisce solo con tattiche di breve periodo, tese ad arginare le degenerazioni più violente e le loro ripercussioni sull’Europa tutta. Servirebbe invece una strategia credibile in grado di risolvere i problemi di fondo, di cui le crisi non sono che i sintomi: reali prospettive di ingresso nell’Unione europea sarebbero la soluzione più efficace.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network   ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #280 il: Agosto 03, 2019, 16:39:33 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-quando-la-cronaca-nera-smuove-il-sistema-politico-195858

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Romania, quando la cronaca nera smuove il sistema politico

L'omicidio di una ragazza di quindici anni scuote l'intero paese e non solo per l'efferatezza del delitto, ma anche a causa del comportamento delle forze dell'ordine. I romeni scendono in piazza, il ministro dell'Interno si dimette

31/07/2019 -  Francesco Magno
Negli ultimi giorni l'opinione pubblica romena dibatte soltanto del terribile omicidio avvenuto probabilmente tra il 25 e il 26 luglio a Caracal, una piccola cittadina del sud, dove una quindicenne, Alexandra Măceșanu, è stata rapita, violentata e infine uccisa. L'accusa è caduta su un uomo, tale Gheorghe Dincă, già accusato di aver assassinato un'altra ragazza nella scorsa primavera con modalità spaventosamente simili. Nel cortile della sua abitazione sono stati ritrovati resti umani, e nella sua macchina un orecchino della vittima. C’è tuttavia chi nega che Alexandra e l’altra adolescente scomparsa qualche mese fa (di cui non è mai stato ritrovato il corpo), siano state uccise da Dincă, che le avrebbe invece consegnate a criminali dediti al traffico di esseri umani. Le indagini sono ancora in corso.

Il delitto ha scosso l'intero paese, non soltanto per la sua efferatezza, ma anche e soprattutto a causa del comportamento delle forze dell'ordine. Prima di essere uccisa Alexandra è riuscita più volte a mettersi in contatto con la polizia grazie a un telefono trovato nella casa dove era sequestrata, fornendo dati importanti sull'ubicazione del luogo del rapimento; la sua disperata richiesta d'aiuto è stata tuttavia ignorata dai funzionari del centralino d'emergenza, che hanno scambiato la telefonata per una burla e hanno invitato la ragazza, secondo quanto riportano alcune testate, a non tenere la linea occupata.

Le rivelazioni sul comportamento dei poliziotti hanno scatenato un'ondata di indignazione e proteste. Come spesso accade in Romania, il tragico evento di cronaca si è trasformato in un pretesto per lanciarsi contro l'intero sistema politico e istituzionale: la scarsa efficienza, anche se potremmo addirittura parlare di totale incompetenza, dei poliziotti del 112 (il numero romeno delle emergenze) viene imputata alla corruzione e al malaffare che dominano le assunzioni pubbliche ad ogni livello.

Dimostrazioni sono state organizzate nei giorni scorsi di fronte al ministero dell'Interno e nelle principali strade di Bucarest. L’altro ieri un gruppo di manifestanti si è radunato di fronte alla sede del Partito social-democratico, urlando improperi all'indirizzo di membri del partito, accusati di essere corresponsabili dell'omicidio.

La mobilitazione di piazza ha portato alle dimissioni del ministro dell’Interno, Nicolae Moga, che aveva assunto la carica appena sette giorni fa. Moga ha motivato le dimissioni con la “necessità di proteggere il prestigio del ministero, augurandosi che eventi del genere possano non accadere più”.

Nel pomeriggio di ieri il presidente della Repubblica Klaus Iohannis, già in evidente clima da campagna elettorale per le elezioni presidenziali, ha indirettamente incolpato il governo a guida social-democratica, reo di aver “riempito le istituzioni pubbliche di incompetenti”  .

Non è la prima volta che in Romania un evento di cronaca scatena proteste e manifestazioni contro l'intero sistema politico e istituzionale. Nel 2015, a seguito dell'incendio della discoteca Colectiv di Bucarest, che causò la morte di decine di ragazzi, il governo guidato dal social-democratico Victor Ponta fu costretto a dimettersi sotto i colpi delle enormi dimostrazioni di piazza.

Anche in quel caso, la morte delle vittime venne imputata alla corruzione e all'inefficienza della pubblica amministrazione di Bucarest, che aveva concesso troppo facilmente la licenza a un locale con chiari problemi strutturali. Ovviamente i responsabili ultimi della tragedia, anche in quel caso, erano considerati i membri del governo e del Partito social-democratico, dai più ritenuto l'unico dispensatore di malaffare del paese.

Per quanto ambiguo e spesso corrotto, risulta difficile credere che anche tragici eventi di cronaca nera possano essere sempre imputati al Partito social-democratico, o alla corruzione. La corruzione sta diventando in Romania un'eminenza grigia astratta responsabile di ogni magagna che affligge il paese, e ogni occasione è buona per indignarsi contro le inefficienze del sistema. A ciò va aggiunto l'astio sempre crescente della popolazione nei confronti delle forze dell'ordine. Un rancore nato circa un anno fa, a seguito della manifestazione della diaspora terminata in violenza del 10 agosto 2018, quando manifestanti pacifici vennero massacrati senza apparente motivo dalla gendarmeria.

Per questo un evento di cronaca nera diventa l'ennesimo pretesto per scendere in piazza e mostrare indignazione contro il sistema. A volte, tuttavia, la spiegazione più banale è anche quella più semplice. La povera Alexandra è stata vittima di un uomo crudele e di poliziotti incompetenti: due tragiche fatalità, di cui difficilmente si può accusare il PSD.

Il modo in cui la gente reagisce a questi eventi ci dice però molto sulla situazione del paese e sul sentir comune: i romeni si sentono vittime di una struttura più grande di loro, alla quale imputano ogni problema che li affligge. Un sentimento che è un po' figlio della storia e del retaggio comunista: lo stato è ritenuto responsabile di qualsiasi cosa accada, sia essa bella o brutta, e il più delle volte purtroppo è brutta.

Abituarsi alla libertà significa anche abituarsi al destino, anche tragico. Il non saper rassegnarsi al fato e il dover cercare sempre una motivazione superiore, più oscura, è un altro segno della transizione post-comunista mai terminata.

Che le istituzioni pubbliche, specialmente nella remota periferia contadina, non siano efficienti e spesso si limitino ad essere vere e proprie prebende da offrire in cambio di voti, è fuor di dubbio. Che la colpa sia solo del sistema PSD e non di una cultura politica generalizzata e trasversale esistente da almeno un secolo è, tuttavia, difficile da sostenere. A ciò vanno aggiunte una formazione scadente impartita alle forze dell’ordine, e un totale stato di abbandono della provincia profonda.

È improbabile che la fine dell’egemonia politica del PSD possa risolvere nel breve questi problemi, ed è del tutto impossibile che un cambiamento politico segnerà la fine delle fatalità tragiche.



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Le rivelazioni sul comportamento dei poliziotti hanno scatenato un'ondata di indignazione e proteste. Come spesso accade in Romania, il tragico evento di cronaca si è trasformato in un pretesto per lanciarsi contro l'intero sistema politico e istituzionale: la scarsa efficienza, anche se potremmo addirittura parlare di totale incompetenza, dei poliziotti del 112 (il numero romeno delle emergenze) viene imputata alla corruzione e al malaffare che dominano le assunzioni pubbliche ad ogni livello.

Fosse accaduto in Italia, i soliti italiani esterofili e disfattisti, nonché quotidianamente impegnati a prendersi a martellate sui genitali, avrebbero urlato ai quattro venti che "certe cose accadono solo in Italia".
Certo, come no.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #281 il: Agosto 03, 2019, 16:46:12 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/99245

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RUSSIA: Perché nessuno spegne gli incendi in Siberia?
Maria Baldovin  3 giorni fa

“La situazione in Siberia è catastrofica”. Con queste parole Grigorij Kuksin, responsabile della sezione antincendi di Greenpeace Russia, commenta gli incendi che, da circa dieci giorni, stanno mettendo in ginocchio un’area molto estesa del paese. Si parla di circa tre milioni di ettari di foreste in fiamme, soprattutto nelle regioni di Krasnojarsk e Irkutsk. Fiamme divoratrici che stanno colpendo il polmone verde della federazione e la cui nube si sta espandendo a vista d’occhio. Ciononostante, gli interventi, fino ad oggi, sono stati effettuati solo su novantamila ettari di terreno.

La decisione riguardo alle zone in cui intervenire, in questi casi, spetta alle autorità. Stando a diverse fonti russe, il governatore della regione di Krasnojarsk Aleksandr Uss avrebbe dichiarato che spegnere gli incendi, nella cosiddetta “zona di controllo”, non avrebbe senso e potrebbe essere addirittura dannoso.

Ma cosa sono le “zone di controllo”? La definizione è stata introdotta da una legge disegnata nel 2014 e approvata nel 2015 dal Ministero per l’ambiente. Secondo quest’ultimo, all’interno delle “zone di controllo” non sarebbe obbligatorio spegnere gli incendi. Nei casi in cui la presenza delle fiamme non rappresenti un pericolo per la popolazione e per l’economia e, in aggiunta, se l’estinzione dell’incendio venisse a costare di più dei potenziali danni, gli incendi nelle zone di controllo possono dunque divampare liberamente. Inizialmente, le zone di controllo erano state definite come aree remote, difficili da raggiungere per mezzi e persone. In realtà, secondo i calcoli del responsabile di Greenpeace, un’elevata percentuale di foreste presenti sul territorio della federazione è classificata come zona di controllo e proprio qui sono avvenuti il 90% degli incendi nella stagione passata. Incendi che nessuno spegne.

“A nessuno verrebbe mai in mente di affondare un iceberg, così da poter avere un clima più caldo. La stessa cosa vale per gli incendi nelle zone di controllo, è un normale fenomeno naturale” ha commentato il governatore di Krasnojarsk Aleksandr Uss. Totalmente in disaccordo Grigorij Kuksin, il quale ha risposto: “Non c’è niente di usuale in questi incendi. Se fossimo nella regione di Mosca, a nessuno verrebbe mai in mente di dire ‘Ma sì, è un processo naturale'”.

Non lontano dalle zone degli incendi ci sono villaggi, vivono persone, la nube rischia di intossicare migliaia di cittadini e animali. Tuttavia, l’indifferenza sembra regnare sovrana, con le autorità ad assicurare che tutto è sotto controllo. Spegnere gli incendi è oneroso e sembra che il calcolo costi-benefici non decida a favore dell’intervento. In altre parole, non ne vale la pena.

È proprio questo a far indignare i cittadini siberiani. Ancora una volta, nelle periferie del paese domina la sensazione di essere cittadini di seconda classe. È lo stesso processo in atto nella regione di Archangel’sk, dove i cittadini locali protestano da mesi contro la costruzione di una discarica che “accoglierebbe” i rifiuti provenienti dalla regione della capitale.

“Il nostro governo si comporta come un contabile”, “Ci dicono senza mezzi termini di morire”, sono solo alcune delle citazioni di cittadini siberiani riprese negli ultimi giorni dai media. Intanto sono partite le petizioni, mentre gli hashtag #SaveSiberianForests e #потушитепожарывсибири (“Spegnete gli incendi in Siberia”) sono tra i più utilizzati su Twitter. Come sempre, l’ironia sui social media non manca e c’è anche chi, tra il serio e il faceto, ipotizza una nuova fiction drammatica, dopo il successo raggiunto dalla serie tv dedicata agli eventi di Chernobyl.

Nel frattempo, lo stato di emergenza è stato dichiarato nelle regioni di Krasnojarsk, Irkutsk e, parzialmente, in Buriazia. Tuttavia, non è chiaro cosa questo comporterà e se si uscirà dalla logica che regola gli interventi nelle cosiddette “zone di controllo”. Rimarranno, per molto tempo, i danni causati dagli spaventosi incendi – definiti “senza precedenti” – e dall’immobilismo di questi dieci lunghi giorni.

In Siberia, come in altre zone del mondo, più o meno estese, più o meno periferiche, il calcolo costi-benefici  detta legge, decidendo le sorti dell’ambiente e dei cittadini che ci vivono.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #282 il: Agosto 23, 2019, 19:46:09 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Emigrazione-sud-est-Europa-anemico-195857

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Emigrazione: sud-est Europa anemico

L’emigrazione di forza lavoro e la cosiddetta fuga di cervelli – due fenomeni in crescita in tutti i paesi del sud-est europeo – preoccupano esperti, politici e imprenditori da Budapest ad Atene

22/08/2019 -  Euractiv
(Originariamente pubblicato dal portale euractiv.rs  il 23 luglio 2019)

Una delle cose che accomunano i paesi del sud-est Europa è il timore che, a causa di una massiccia emigrazione dei propri cittadini verso l’estero, siano destinati a spopolarsi. Nonostante un progressivo, seppur lento, aumento del tenore di vita e dei salari in tutti i paesi della regione, molti cittadini scelgono di emigrare, perlopiù verso Germania, Austria, Italia e Spagna. L’emigrazione di forza lavoro e la cosiddetta fuga di cervelli – due fenomeni in crescita in tutti i paesi del sud-est europeo – preoccupano esperti, politici e imprenditori da Budapest ad Atene.

Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa tedesca DPA, in tutti i paesi del sud-est Europa si registra una carenza di forza lavoro. Ad andarsene sono soprattutto i giovani altamente istruiti, molto richiesti dai mercati del lavoro di alcuni paesi dell’UE.

“Il nostro paese sta scomparendo”, dice Marian Hanganu, proprietario di un’agenzia di lavoro con sede in Romania, commentando il fenomeno dell’emigrazione di massa da uno dei paesi più poveri dell’Unione europea. “Di conseguenza, molte multinazionali hanno deciso di non investire più in Romania, semplicemente perché manca forza lavoro”, ha scritto Hanganu sul sito della sua agenzia che svolge attività di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro.

La situazione è simile anche in Bulgaria. “Le imprese iniziano a ritirarsi dagli accordi e a posticipare l’avvio di nuovi progetti perché manca forza lavoro”, ha dichiarato il ministro dell’Economia bulgaro Emil Karanikolov nel corso di una trasmissione televisiva.

Di fronte al fenomeno dell’emigrazione di massa, alcune autorità locali reagiscono cercando disperatamente di convincere la popolazione che tutto va bene. Le autorità del villaggio di Ruševo, nei pressi di Slavonski Brod in Croazia, hanno recentemente provveduto a intonacare l’unica scuola del villaggio, frequentata da quattro alunni in tutto. Tuttavia, nessuna intonacatura può nascondere il fatto che in questo villaggio, che oggi conta appena 310 abitanti, la metà delle case è vuota e molti edifici versano in uno stato di degrado.

Stando ai dati diffusi dal governo di Bucarest, sono oltre 2 milioni i romeni che vivono all’estero, perlopiù in Spagna e in Italia. Cifre simili si registrano anche in altri paesi del sud-est Europa. Secondo le statistiche ufficiali, oltre 700mila cittadini bulgari vivono in un altro stato membro dell’UE.

Stando ad uno studio commissionato dalla Banca centrale croata, nel periodo compreso tra il 2013 e il 2016 dalla Croazia sono emigrati 230mila cittadini, un dato che corrisponde ad un tasso emigratorio annuo del 2% della popolazione.

Dal 2000 ad oggi 654mila persone hanno lasciato la Serbia, aggiungendosi a quel mezzo milione di cittadini serbi emigrati durante gli anni Novanta a causa della guerra e del regime di Slobodan Milošević.


I dati diffusi da alcune organizzazioni sindacali greche dimostrano che, dallo scoppio della crisi del debito pubblico nel 2010, dalla Grecia se ne sono andati circa 400mila cittadini, perlopiù giovani. Il neo premier greco, il conservatore Kyriakos Mitsotakis, ha più volte ribadito che uno dei principali obiettivi del suo governo sarà quello di migliorare le condizioni di vita di tutti i cittadini greci e di offrire nuove prospettive ai greci emigrati all’estero affinché tornino in patria.

Secondo una ricerca realizzata dalla sociologa ungherese Ágnes Hárs, la crisi finanziaria globale del 2008 ha provocato un’ondata di emigrazione dall’Ungheria – fino ad allora considerata uno dei paesi più sviluppati dell’Europa sud-orientale -, e il fenomeno ha subito una forte accelerazione a partire dal 2010, anno in cui Viktor Orbán ha assunto l’incarico di primo ministro.

Nel periodo compreso tra il 2010 e il 2017, dall’Ungheria sono emigrati 200mila cittadini, e il paese si è collocato al primo posto tra i nuovi stati membri dell’UE per numero di espatriati.

Mancanza di medici e personale sanitario
Una delle più gravi conseguenze della massiccia emigrazione dai paesi del sud-est Europa è la carenza di medici e di personale sanitario in tutta la regione. Il reparto di malattie infettive dell’ospedale di Szolnok in Ungheria è stato chiuso per mancanza di personale. L’ospedale di Tulcea in Romania è attualmente senza anestesisti: due dei tre anestesisti che vi lavoravano si sono licenziati, mentre uno è assente per malattia.


Molti medici e operatori sanitari provenienti dai paesi dei sud-est europeo decidono di continuare la loro carriera in Germania. Da un sondaggio condotto in 217 ospedali in Germania è emerso che la maggior parte degli infermieri stranieri impiegati negli ospedali tedeschi proviene dalla Bosnia Erzegovina. Stando ai dati della Federazione tedesca delle aziende ospedaliere, la maggior parte degli infermieri stranieri impiegati presso gli ospedali tedeschi è stata assunta direttamente dalle aziende ospedaliere o tramite un intermediario privato.

Cristina Mihu, 32 anni, originaria dalla Romania, ha deciso di emigrare in Germania senza troppa esitazione. Ha studiato il tedesco, come seconda lingua straniera, a scuola a Deva, in Transilvania. Successivamente, da studente di medicina presso l’Università di Timișoara ha trascorso periodi di specializzazione in Italia, Spagna e a Heidelberg. “Volevo fare un’esperienza all’estero”, dice Cristina, che ormai da sei anni vive a Norimberga, dove lavora come medico internista presso una clinica.

Mihu spiega che, oltre ai bassi salari, un altro motivo che l’ha spinta a lasciare la Romania è la corruzione, ormai dilagante, nel settore sanitario. Aggiunge inoltre che in Germania gli ospedali sono attrezzati molto meglio rispetto a quelli romeni e che i medici “parlano molto di più con i loro pazienti”.

Per far fronte alla grave carenza di manodopera, gli imprenditori romeni cercano di attrarre i lavoratori stranieri, compresi quelli provenienti dal Medio Oriente. Quest’anno il governo romeno ha autorizzato l’ingresso di 20mila lavoratori extracomunitari. Marian Hanganu dice che questa misura non può risolvere il problema, perché la Romania ha bisogno, come minimo, di 300mila lavoratori.

Stando alle parole di Andrea Tartacan, collaboratore di Marian Hanganu, i lavoratori provenienti dai paesi del Medio Oriente spesso decidono di disdire il contratto di lavoro stipulato con un datore romeno perché non riescono ad abituarsi al clima e al cibo romeno. “Ora stiamo cercando di reclutare lavoratori edili dal Tajikistan. Sono più robusti dei vietnamiti perché provengono dalle steppe”, spiega Tartacan.

Anche in Bulgaria ci sono molti gastarbeiter, anche se provengono dai paesi meno esotici, mentre nei ristoranti e alberghi sulla costa montenegrina lavorano molti cittadini ucraini, bielorussi e moldavi.

Sembra che i paesi occidentali, con le loro politiche del lavoro, favoriscano l’emigrazione da alcuni paesi meno sviluppati. Il ministro della Sanità tedesco Jens Spahn ha recentemente visitato una scuola superiore medico tecnica in Kosovo che ha stipulato una convenzione con alcune aziende ospedaliere tedesche. Anche il ginnasio tedesco di Prizren sembra favorire la fuga dei cervelli. Ogni anno fino ai 30 studenti dell’ultima classe ricevono un contributo per continuare gli studi in Germania, e sono pochi quelli che, una volta conclusi gli studi, decidono di tornare in Kosovo.

Secondo Herbert Brücker, ricercatore presso l’Istituto per la ricerca sull’occupazione (IAB) con sede a Norimberga, la Germania trae grande vantaggio dalla presenza di lavoratori provenienti dal sud-est Europa. Stando alle sue parole, senza questi lavoratori alcuni settori dell’economia tedesca, come quello dell’edilizia, ristorazione e cura della persona, sarebbero in grande difficoltà perché è praticamente impossibile trovare lavoratori tedeschi disposti a lavorare in questi settori.

Brücker afferma inoltre che la prospettiva di un buon lavoro nell’Europa occidentale spinge molti cittadini dei paesi dell’Europa sud-orientale a studiare, contribuendo così all’aumento dei livelli di istruzione in questi paesi.

Tado Jurić, politologo e docente di storia presso l’Università Cattolica di Zagabria, la pensa diversamente. Stando alle sue parole, la Germania non dovrebbe cercare di risolvere la crisi demografica che sta attraversando ormai da tempo attingendo alla forza lavoro proveniente dal sud-est Europa. “Non è giusto che la Germania si stia salvando a scapito di tutti noi”, ha dichiarato Jurić, aggiungendo che l’Unione europea dovrebbe occuparsi del problema delle “migrazioni ingiuste”.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #283 il: Agosto 23, 2019, 19:50:53 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bulgaria/Quale-futuro-per-il-turismo-in-Bulgaria-196104

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Quale futuro per il turismo in Bulgaria?

Secondo il ministero del Turismo di Sofia, il settore rappresenta oggi ben il 12% del prodotto interno lordo del paese, per un giro di affari di circa 4 miliardi di euro nel 2018. La Bulgaria tuttavia non è ancora riuscita a trasformarsi da “soluzione alternativa” a “destinazione preferita”

23/08/2019 -  Francesco Martino   Sofia
Colonne infinite di auto piene di villeggianti in fuga dalla Bulgaria, in chilometriche code alla frontiera con la Grecia, direzione mare Egeo. Allo stesso tempo immagini di spiagge vuote e ombrelloni chiusi sulle spiagge delle principali località turistiche bulgare sul Mar Nero. Era iniziata così, a inizio luglio, con fotografie contrastanti e cariche di cattivi presagi, la stagione turistica bulgara dell'estate 2019.

Le polemiche avevano fatto presto a seguire, rimbalzando dai social media all'arena della politica. Per alcuni, la stagione appena iniziata – evidentemente col passo sbagliato - non era che l'inevitabile conseguenza di politiche irresponsabili, prezzi fuori controllo e eccessivo sfruttamento delle coste del Mar Nero, altri invece minimizzavano, parlando di un assestamento naturale dopo anni di forte crescita del settore.

Oggi, a stagione ormai matura, è possibile fare un primo, seppur parziale punto della situazione che, pur archiviando gli scenari più apocalittici, lascia aperti numerosi punti interrogativi sulla sostenibilità di lungo corso del modello di turismo sviluppato in Bulgaria negli ultimi anni.

12%
Innanzitutto, qualche numero: secondo i dati del ministero del Turismo di Sofia, il settore rappresenta oggi ben il 12% del prodotto interno lordo del paese, una fetta dell'economia importante, soprattutto se, oltre alle entrate dirette, si considerano anche la ricadute della presenza dei turisti su altri rami, come i trasporti, i generi alimentari, i servizi, non sempre facilmente quantificabili.

Dell'intera torta del turismo bulgaro, che nel 2018 ha fatto registrare un giro d'affari totale intorno agli 8,4 miliardi di leva (4,3 miliardi di euro) il 70% è rappresentato proprio dal turismo estivo, che gravita intorno alle località di mare distribuite sui quasi 400 chilometri di coste che si affacciano sul mar Nero. Ecco perché, i primi dati statistici significativi, arrivati proprio a inizio luglio, e che mostravano un calo drastico di prenotazioni e presenze, quantificabile intorno al 20% in meno rispetto al 2018, hanno scatenato così in fretta preoccupazioni, malumori e polemiche.

C'è da dire che, effettivamente, il turismo estivo in Bulgaria negli ultimi anni ha fatto registrare una crescita importante, a tratti tumultuosa. A sentire gli esperti, però, dovuta più ai problemi della concorrenza che a virtù proprie. Gli ultimi anni, infatti, sono stati estremamente difficili per alcune delle classiche destinazioni dei flussi turistici nell'area mediterranea, come Turchia, Tunisia ed Egitto, che tra terremoti politici, problemi di terrorismo e instabilità hanno visto un crollo nelle presenze di visitatori, soprattutto stranieri.

La Bulgaria, approdo tradizionalmente meno gettonato, ma da anni stabile e tranquillo (unica eccezione, il sanguinoso attentato contro i turisti israeliani all'aeroporto di Burgas del luglio 2012) , ha saputo imporsi come “piano B” per moltissimi turisti provenienti da Germania, Regno Unito, Russia, Ucraina, e molti paesi dell'Europa centro-orientale, che spesso conoscevano già il Mar Nero bulgaro dai tempi della Cortina di ferro.

Dopo il boom il calo
Il problema però, è che la Bulgaria non ha saputo o potuto trasformarsi da “soluzione alternativa” a “destinazione preferita”: ecco perché, col relativo miglioramento della situazione nei paesi summenzionati, il vantaggio accumulato dal paese negli ultimi anni sembra essersi esaurito in fretta, e agli anni del boom è seguito quest'anno un calo imponente.

I conti finali, naturalmente, potranno essere fatti solo a stagione conclusa, ma il trend per il 2019 difficilmente potrà essere ribaltato nelle ultime settimane d'estate. Se i dati sembrano chiari, però, la loro interpretazione è invece aperta al dibattito. Uno degli elementi in discussione, ad esempio, è il tormentato rapporto dei turisti bulgari con il proprio litorale, dopo anni di sviluppo caotico, speculazione edilizia, costruzioni selvagge.

In occasione delle code al confine con la Grecia il quotidiano Dnevnik pubblicava un accorato editoriale dal titolo tanto lungo quanto esplicito: “Quest'estate rappresenta la condanna del turista bulgaro della cementificazione del Mar Nero”. “Sì, i bulgari non amano protestare”, argomentava l'editoriale, “ma non potete obbligarli ad andare sul litorale del Mar Nero, dove deve pagare ai mafiosi quaranta leva per una sdraio, o bere alcol taroccato che gli viene servito sempre dagli stessi mafiosi”.

Come gestire il Mar Nero?
Il clima politico sulla gestione del Mar Nero in realtà si era arroventato già prima, con l'approvazione a metà giugno di una nuova normativa da parte del parlamento di Sofia. Principale motivo del contendere, l'introduzione del divieto di campeggio libero, iniziativa apertamente contestata da una parte della società civile, e che aveva portato addirittura al veto parziale da parte del presidente Rumen Radev. Per i critici, la nuova normativa si accanisce contro gli amanti del campeggio libero, lasciando però mano libera a una nuova ondata di cementificazione lungo le coste, anche ai danni di aree protette.

C'è però anche chi ha interpretato il calo delle presenze sul Mar Nero sotto una luce meno negativa. Per Rumen Draganov, presidente dell'Istituto per l'analisi sul turismo, la crisi dell'estate 2019 in realtà è “salutare” per tutto il settore. Intervistato dalla tv pubblica, Draganov ha parlato di una “pausa dovuta”, dopo anni di crescita a due cifre che ha portato a “affollamento, pessimo servizio e in ultima battuta, a clienti insoddisfatti”. Nel 2019, invece, “abbiamo prezzi più contenuti, spiagge meno affollate, un servizio di gran lunga migliore”. L'ottimistica previsione di Draganov è che “l'anno prossimo avremo nuovamente un aumento nel numero dei turisti, perché chi ha visitato il Mar Nero quest'anno sarà rimasto soddisfatto, e tornerà ancora”.

Sospeso tra prospettive catastrofiche e sogni di gloria, il futuro del turismo sul litorale bulgaro resta segnato da non poche incognite rispetto ai piani di sviluppo per il futuro. Al momento, nei confronti dei turisti internazionali, il suo punto di forza restano ancora e soprattutto i prezzi bassi rispetto alla maggior parte delle destinazioni alternative in Europa. Un vantaggio che però ha generato un turismo di massa dagli effetti devastanti su molte delle località più gettonate, e che non sembra sostenibile sul lungo periodo.

Per i turisti bulgari il Mar Nero resta il “mare di casa”, carico di ricordi ed emozioni. Con la facilità di spostamento oltreconfine e la concorrenza di destinazioni alternative a portata di mano, però, la loro presenza non può più essere data per scontata. E se le località sulla costa bulgara non riusciranno a fare il salto di qualità, le code per il mare della Grecia continueranno ad allungarsi nelle prossime estati.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #284 il: Agosto 23, 2019, 19:52:02 pm »
Quasi sono contento che siamo pieni di rumeni, almeno sono molto più simili a noi a partire dalla lingua. Quando noi italiani non esisteremo più o quasi, pochi noteranno la differenza tra i pochi bianchi* rimasti.

Futuro del turismo in Bulgaria? Per me non c'è neanche un passato :cool:

* Ops non dovevo dirlo. Rinforzo lo stereotipo di un forum "covo di violenza" per suprematisti-stragisti bianchi.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.