Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 78263 volte)

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Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #300 il: Ottobre 10, 2019, 01:04:24 am »
https://www.eastjournal.net/archives/100030

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La Cina investe nella ferrovia Belgrado-Budapest
Gian Marco Moisé 24 ore fa

All’inizio dell’estate, il ministro delle finanze ungherese ha completato la richiesta di finanziamento per 1,42 miliardi di euro alla banca cinese Exim. Il prestito verrà finalizzato al pagamento dei lavori previsti per il miglioramento della linea ferroviaria Belgrado-Budapest.

Linea ferroviaria Belgrado-Budapest

Il progetto di investimento nella linea ferroviaria Belgrado-Budapest riguarda un piano di miglioramento della struttura ferroviaria esistente. Il progetto è pensato per ridurre il tempo di viaggio tra le due capitali dalle attuali 8 ore e mezza a 3 ore. La funzione principale di questa tratta ferroviaria sarà il trasporto di beni prodotti in Cina verso la capitale ungherese collegando Budapest al porto greco di Piraeus, la cui proprietà di maggioranza è proprio cinese.

Il costo previsto per il progetto è 3,2 miliardi di euro, di cui 1,68 a carico dalla stessa Ungheria. Il 15% di questa cifra verrà finanziato attraverso la compagnia ungherese dei trasporti ferroviari, mentre il rimanente 85% sarà finanziato con un prestito della banca cinese Exim. Questo progetto, in aggiunta al prestito di 10 miliardi ricevuto dalla Russia per l’ampiamento della centrale nucleare ungherese di Paks, esporrà il paese a creditori esterni per il 10% del proprio PIL.

L’alleanza sino-ungherese

I motivi della Cina per investire in Ungheria sono piuttosto chiari. Infatti, il progetto ricade nell’ambito della One Belt One Road Initiative, destinata a migliorare i collegamenti infrastrutturali tra la Cina e l’Europa per facilitare l’export di prodotti cinesi. I motivi dell’Ungheria, invece, risultano meno chiari. Infatti, le città attraversate da questa linea ferroviaria non superano una popolazione di 27.000 persone ciascuno, senza contare la presenza dell’autostrada M5 che collega i due paesi. Il traffico di persone sarà quindi piuttosto limitato. Secondo gli esperti intervistati da Samuel Rogers (2019), le ragioni ungheresi per appoggiare l’investimento sono quattro: 1) migliorare l’arretrato comparto ferroviario ungherese, 2) stimolare iniziative economiche complementari, 3) facilitare l’ingresso di Serbia e Macedonia nell’Unione Europea e 4) diventare centro di distribuzione di prodotti cinesi nell’Europa centro-orientale.

Questa non è la prima volta che la Cina propone all’Ungheria progetti per i miglioramenti delle sue infrastrutture. Dal 2010, i cinesi avevano proposto il Ferex, un piano per la connessione ferroviaria rapida tra l’aeroporto Liszt Ferenc e una delle stazioni ferroviarie centrali di Budapest, e la costruzione della linea ferroviaria V0, ideata con l’intento di assistere treni in transito per l’Ungheria ad aggirare il centro della capitale. Entrambi i progetti non vennero realizzati per via del fallimento della compagnia ferroviaria Malév oltre a limitazioni imposte dalla legislazione europea per gli appalti.

È quindi chiaro, che l’investimento è stato concordato in prospettiva politico-economica visto il frequente allontanamento di compagnie occidentali dal territorio ungherese. Come chiarito nei mesi scorsi su East Journal, l’approvazione della cosiddetta legge schiavitù non fu che il disperato tentativo di convincere le compagnie automobilistiche tedesche a non delocalizzare la produzione altrove. L’avvicinamento ungherese prima alla Russia e poi alla Cina dimostra l’intenzione del governo Orbán di diversificare le fonti di investimenti. Il governo cinese, invece, ha dimostrato ancora una volta di saper sfruttare a suo favore il pragmatismo dei governi euro-scettici.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #301 il: Ottobre 12, 2019, 11:56:47 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Azerbaijan/Universita-in-Azerbaijan-troppe-tasse-gli-studenti-abbandonano-196788

Citazione
Università in Azerbaijan: troppe tasse, gli studenti abbandonano

In Azerbaijan vi sono le tasse universitarie più alte di tutto il Caucaso. Ed in effetti sono migliaia ogni anno gli studenti costretti all'abbandono

11/10/2019 -  Kamran Mahmudov
(Pubblicato originariamente da OC Media  il 17 settembre 2019)

Umman Safarov questo settembre non proseguirà con i suoi studi universitari presso la Facoltà di giornalismo dell'Università di Baku. Non può permettersi la retta. “Dovevo pagare ma non ho soldi a sufficienza. Magari prima o poi riuscirò a finirla”, racconta ad OC Media. “Del resto studiare in Azerbaijan per me era solo una perdita di tempo, specialmente alla facoltà di giornalismo. È stato facile decidere di abbandonare. Se non hai soldi, non hai scelta”.

Safarov è tra le migliaia di studenti dell'Azerbaijan che, negli ultimi anni, hanno abbandonato l'università per motivi finanziari.

Ogni anno, quando i termini di iscrizione stanno per scadere, i social network del paese vengono inondati di post in cui gli studenti chiedono aiuto ad amici, parenti e anche ad estranei per riuscire a pagare le loro rette universitarie.

Secondo il Centro statale per gli esami per l'anno accademico 2019/2020 sono stati ammessi agli studi universitari 42.000 nuovi studenti. Di questi 18.000 otterranno borse di studio statali mentre gli altri 24.000 devono pagarsi di tasca propria gli studi. Le rette presso le università dell'Azerbaijan vanno dai 1.000 manat all'anno (circa 590 dollari) ai 6.500 (3.800 dollari), quasi il doppio della media della regione.

Problemi sistemici
Attualmente sono circa 160.000 gli studenti iscritti presso le università dell'Azerbaijan. Di questi circa il 70% si paga gli studi mentre il 30% è coperto da budget statale.

Kamran Asadov, è a capo del Centro per l'analisi e la ricerca sui servizi educativi, una ong con sede a Baku. A suo avviso le rette universitarie nelle università dell'Azerbaijan sono più alte di molti altri paesi del mondo, in particolare di quelli con uno sviluppo economico simile. Contemporaneamente la qualità delle università del paese non è all'altezza: nessuna università dell'Azerbaijan rientra nelle classifiche mondiali del Times Higher Education  .

Il governo dell'Azerbaijan attualmente copre con borse di studio esclusivamente alcune materie. Inoltre vengono integrati i costi di studenti provenienti da situazioni particolarmente svantaggiate, persone con disabilità e dei figli di persone riconosciute “Eroi nazionali” dell'Azerbaijan.

Kamran Asadov sottolinea come negli ultimi cinque anni a più di 7.000 studenti è stato negato il diritto di studio perché non erano in grado di pagare le rette universitarie. A suo avviso uno dei problemi principali è la mancanza di prestiti d'onore per lo studio, di cui si fa garante lo stato.

“Non ci sono prestiti d'onore per gli studenti in Azerbaijan”, chiarisce. “L'unico fondo esistente è il 'Maarifchi Loan Student Fund' ma è privato e attualmente non ha budget”.

Nell'agosto scorso quest'ultimo ha annunciato ai media locali l'accordo stretto con 15 università e la concessione di 247 prestiti ad altrettanti studenti. Numeri molto inferiori rispetto agli abbandoni attesi per difficoltà finanziarie. Inoltre, aggiunge Asadov, nonostante le alte rette le università non provano nemmeno ad alleviare le precarie condizioni economiche degli studenti.

“Purtroppo in Azerbaijan i 160.000 studenti che studiano nelle 54 università del paese non ricevono alcun sconto su nulla. Altrove nel mondo è invece normale che gli studenti ottengano sconti negli abbonamenti per i trasporti, nelle mense, nei negozi di libri o a volte per gli alloggi”, aggiunge il ricercatore.

Asadov contesta anche l'approccio delle università rispetto alle rette: “Le rette si basano sugli stipendi degli insegnanti e sui costi di mantenimento dell'università. Ma governo e università dovrebbero anche tener conto dei salari medi dei laureati che poi usciranno da quelle specifiche università”. Con il livello attuale dei salari, spiega infatti, servono dieci anni per rientrare sui costi degli studi.

Come conseguenza, sottolinea, la frequenza delle università è bassa e i corsi con pochi studenti sono obbligati ad alzare ulteriormente le rette. Questo causa un circolo vizioso che spinge sempre più studenti all'estero, creando ulteriori vuoti nel sistema universitario del paese.

“Gli studenti possono andare all'estero dove ottengono un'istruzione migliore pagando meno. Stiamo creando le condizioni affinché sempre più persone se ne vadano all'estero”, chiosa Asadov.

Dibattito politico
Natig Jafarli, segretario del partito ReAl, opposizione, ha lanciato una raccolta firme – nel novembre 2018 - per introdurre una legge che garantisca una libera formazione universitaria. Secondo la normativa dell'Azerbaijan se una proposta di legge popolare raggiunge le 40.000 firme può essere presa in esame dal Parlamento. La proposta di legge sopra menzionata è stata però bloccata dalla Commissione elettorale centrale che ha sostenuto che un certo numero di firme tra quelle presentate non erano autentiche e che quindi la soglia delle 40.000 firme non era stata superata.

Jafarli, comunque, ritiene che la petizione sia stata un successo: “Prima della nostra iniziativa solo a 12-15.000 studenti veniva garantita una formazione universitaria per la quale non dovevano pagare, quest'anno ci si è alzati a 20.000”, ha dichiarato ad OC Media.

Ma, secondo Jafarli, questo è solo un primo passo. Chiarisce infatti che è necessario creare le condizioni per un libero accesso agli studi universitari non solo a vantaggio degli studenti dell'Azerbaijan ma dello sviluppo del paese.

“In molti paesi l'educazione universitaria è del tutto gratis – sottolinea Jafarli – un alto numero di laureati ha un impatto significativo sulla crescita del Pil, sulla crescita economica ed in generale sul benessere dei cittadini”.

Fazil Mustafa, parlamentare eletto tra le fila del “Grande partito dell'istituzione” ha dichiarato ai media locali che alcune università dovrebbero essere privatizzate e dovrebbero competere una con l'altra. In questo modo a suo avviso “sarebbero capaci di creare profitto” e la concorrenza abbasserebbe salari e costi amministrativi.

Kamila Aliyeva, membro del Comitato parlamentare sulla scienza e l'educazione ha dichiarato che spetta a chi si vuol iscrivere all'università aver presente i suoi costi: “Se le risorse finanziarie della famiglia dello studente sono basse non dovrebbero iscriversi ad università non coperte da borse di studio.”

La deputata è l'autrice di una proposta di legge per l'introduzione di prestiti d'onore, ciononostante è lei stessa ad affermare che i prestiti non bastano. “A mio avviso il modo più realistico di affrontare la questione è quella di tagliare di metà le rette”, ha affermato.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #302 il: Ottobre 12, 2019, 12:00:29 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/100048

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Trent’anni dopo il crollo del Muro, East Journal racconta gli anni ’90 ad est
Francesco Magno 18 ore fa

Il 9 novembre 2019 verranno celebrati i trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, evento che segnò la fine della divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti. Da allora l’Europa ha ritrovato una sua unità, almeno simbolica; buona parte dei paesi ex comunisti sono entrati nell’Unione Europea, le barriere sono state quasi completamente abbattute e gli scambi tra l’occidente e l’oriente del continente sono all’ordine del giorno.

Resta, tuttavia, un’incomunicabilità di fondo tra le due aree del continente. L’esplosione dei cosiddetti governi populisti in Ungheria, Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, ha riacceso la secolare “questione orientale”. Il nazionalismo è un problema atavico dell’Europa dell’est? In cosa si differenzia da quello dell’Europa occidentale? Perché personalità come Orban, Borissov, Kaczynski, Babis dominano la politica dei rispettivi paesi impedendo uno sviluppo naturale della democrazia liberale?

Le risposte a queste, e ad altre domande, possono essere rintracciate spesso nel decennio che seguì il crollo del comunismo; anni di contraddizioni, cambiamenti, riassestamenti, ambiguità il più delle volte ignorate in Occidente. Troppo forte la tentazione di presentare il trionfo del capitalismo come panacea di tutti i mali della regione: per molti ad est gli anni ’90 furono più duri delle decadi precedenti. Mentre dal lato fortunato della Cortina si ascoltavano i Nirvana, si restava scioccati da Trainspotting e iniziavano a fare capolino le prime Play Station, nell’Europa orientale si lottava con gli effetti collaterali del cambiamento di sistema economico.

Come funghi, tra il grigio del cielo e del cemento socialista, apparvero i primi brand occidentali. Bucarest, che per anni aveva sofferto la cronaca mancanza di cibo, si mise in coda per un Big Mac e una manciata di patatine fritte, temporaneo sollievo dai mali del post-comunismo.

 foto: b365.ro

Benetton aprì un negozio a Sofia, con l’idea di sfruttare il potenzialmente enorme mercato orientale, ma ci volle del tempo per rimpiazzare il tipico vestiario bulgaro.

  Foto: vagabond.bg

Alcuni non riuscirono a riadattarsi al nuovo sistema, e furono costretti all’emigrazione. L’immagine della nava Vlora stracolma di profughi albanesi resta una delle più iconiche del decennio.

 Foto: Repubblica

E’ proprio in quegli anni ’90 di euforia, miseria, senso di libertà e disillusione che si annidano molti dei mali attuali della regione. In questi anni parte della popolazione alimenta il risentimento anti-occidentale, il nazionalismo diventa un caldo rifugio contro le incertezze della povertà, contro lo spaesamento provocato dal capitalismo. East Journal nelle prossime settimane dedicherà degli articoli specifici all’ultimo decennio del XX secolo nell’Europa orientale, cercando di metterne in luce le innumerevoli contraddizioni, con l’obiettivo specifico di gettare nuova luce su quello che seguì il crollo del muro. Un evento tanto importante da oscurare quasi completamente gli eventi successivi. Lo faremo cercando di rifuggire dai luoghi comuni, con spirito volutamente provocatorio, consci che il crollo del comunismo, oltre ad una riconquistata libertà, abbia portato alla distruzione di certezze, consuetudini, legami, che avevano caratterizzato la vita di milioni di persone per cinquant’anni.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #303 il: Ottobre 12, 2019, 12:04:05 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/100189

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UNGHERIA: Domenica elettorale. Budapest non è Istanbul…ma qualche analogia c’è
Lorenzo Venuti 21 ore fa

Il 13 ottobre è tempo di elezioni amministrative in Ungheria, in una cornice inedita dove l’opposizione si presenterà compatta in (quasi) tutti i comuni, cercando di spezzare il monopolio arancione – colore della FIDESz – sul paese. Il rischio di un generalizzato ricambio di amministrazioni è alto, specie nella capitale Budapest, cuore pulsante del paese. Immediato il richiamo ad Istanbul, dove il candidato Binali Yıldırım, supportato da Erdogăn, è stato sconfitto nel marzo (e poi di nuovo nel giugno) di quest’anno da Ekrem Imamoglu.

Dietro qualche analogia, tante differenze

Lo stesso candidato di Budapest Gergely Karácsony (MSZP-P-DK-Momentum-LMP-MLP), ispira in qualche misura questo collegamento fra le due esperienze, ricordando le similitudini che legano i due governi; ad agosto, quando la campagna elettorale entrava nel vivo, il giovane sociologo si recava ad Istanbul proprio in visita da Imamoglu. Del resto, anche la loro storia politica presenta qualche analogia. Entrambi hanno maturato una certa esperienza nell’amministrazione locale, e entrambi sono partiti da una situazione di profondo svantaggio nei confronti dei rivali governativi, colmato nel tempo malgrado l’ostilità dei media.

Budapest tuttavia, al netto di queste analogie, non è Istanbul. Diversa è la sua storia politica, minore il peso che il sindaco ha negli affari nazionali. Diverso è anche l’uomo del potere da sfidare: mentre Imamoglu poteva scagliarsi contro Binali Yıldırım, uomo di partito e di apparato, lo sfidante di Karácsony è István Tárlos, sindaco uscente di Budapest, personalità stimata, che gode di una popolarità superiore persino a quella generale di FIDESz.

La battaglia per la capitale

Come già sottolineato, il vantaggio di Tárlos, convinto a ricandidarsi da Orbán in cambio di maggiori investimenti e di un futuro canale diretto con il primo ministro, si è progressivamente assottigliato, grazie alla dinamica campagna di Gergely Karácsony, sindaco rionale uscente di Zugló (distretto XIV). Da agosto il giovane sfidante ha presentato iniziative che hanno riscosso un certo interesse, come quella della petizione stadiumstop, che chiedeva la fine della costruzione di impianti sportivi nella capitale – attualmente vi sono due cantieri del genere solo nella capitale magiara – per destinare i fondi alla sanità. Una campagna alla quale il settantunenne sindaco uscente ha replicato con difficoltà, ribandendo i risultati positivi della propria amministrazione, ma soffrendo le mancanze di una comunicazione limitata ai media tradizionali.

Il confronto fra i due è poi ulteriormente complicato da due fattori: in primo luogo dall’incognita del voto dei residenti di cittadinanza non ungherese; un esercito di i 140.000 persone in possesso della lakcimkartya, profondamente disomogeneo nella sua composizione, di cui sarà difficile prevedere il comportamento elettorale. Dall’altro la presenza di due ulteriori candidati: Róbert Puzsér e Krisztián Berki. Mentre ci sono pochi dubbi sul fatto che il secondo, creatura della FIDESz per frazionare il voto, raccolga un risultato tutto sommato limitato (attorno all’1%), il primo ha un’influenza ben maggiore. Giornalista ed ex conduttore radiofonico, Róbert Puzsér sembra superare a destra il partito di Orbán e può condensare su di sé il voto dei delusi: probabilmente in misura sufficiente per alterare la corsa alla poltrona.

Le schermaglie

La campagna elettorale nel frattempo infuria a tutti i livelli, e miete vittime. La più celebre è senza dubbio il ricandidato sindaco di Győr, Zsolt Borkai (FIDESz), presidente anche del MOB, il comitato olimpico magiaro. In un blog, Ez az ördög ügyvédje (questo è l’avvocato del diavolo) sono state recentemente pubblicate le foto del politico in compagnia dell’uomo d’affari Zoltán Rákosfalvy mentre si intratteneva con delle escort su uno yatch. Un attacco al quale il partito di Orbán ha replicato invocando unità, e confermando la candidatura di Borkai nella cittadina magiara, dove verrà verosimilmente rieletto. Altri scandali sessuali hanno coinvolto candidati rionali di Budapest dell’opposizione, in particolare Tamás Wittinghoff e Imre László, mentre András Pikó, celebre conduttore radiofonico candidato come sindaco rionale del distretto VIII, si è visto confiscare il computer e quello dei suoi collaboratori dalla polizia, con l’accusa di aver collezionato dati in modo illegale.

Lo stesso errore?

Al di là delle differenze, un tratto sembra però collegare effettivamente le elezioni amministrative in Turchia e Ungheria: l’atteggiamento governativo. Esattamente come Erdogăn ha dato pieno appoggio al suo candidato, spendendosi personalmente per la sua campagna, così Orbán ha garantito il pieno sostegno ai propri, ricollegando in una lettera aperta alla popolazione il piano nazionale con quello locale. Il rischio di una “guerra partigiana” delle amministrazioni dell’opposizione contro il governo spinge gli uomini della FIDESz ad alzare la posta in palio in una personalizzazione della campagna che rischia di far passare in secondo piano i punti deboli dell’opposizione, composta pur sempre da partiti molto diversi fra loro e amalgamati alla meno peggio.

Un operato che rischia di nuocere, più che favorire i propri candidati.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #304 il: Ottobre 25, 2019, 19:34:03 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/100067

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Un nuovo Muro divide l’Europa?
Matteo Zola 4 ore fa

Un nuovo muro divide l’Europa, la frattura fra l’oriente e l’occidente europeo sembra oggi più profonda che mai. Quindici anni dopo l’allargamento dell’UE verso i paesi dell’area centro-orientale, il solco tra vecchi e nuovi membri si è approfondito al punto da dare luogo a una vera e propria crisi dell’assetto europeo, con una regressione democratica sempre più evidente nella parte orientale del vecchio continente.

Nei paesi fondatori, Francia in testa, si parla sempre più apertamente di “errore” o, più diplomaticamente, si definisce “prematuro” l’allargamento a est. Non a caso la Francia ha bloccato i negoziati per Albania e Macedonia del Nord. In Germania e nei paesi del nord si diffonde l’idea di un’Europa a due velocità nella quale i paesi con le economie più avanzate e meglio integrate possano procedere lungo la via delle riforme senza il gravame dei paesi centro-orientali. Ma quanto questa frattura è reale e quanto percepita? Quali sono le ragioni di questa divisione?

Storia di un malinteso

Più volte abbiamo ribadito su queste colonne quanto sia sbagliato, inutile e deleterio gettare la croce della crisi europea sui paesi dell’Europa orientale, senza nemmeno fare lo sforzo di capire le ragioni e la storia di quella parte d’Europa. Esistono infatti differenti aspettative riguardo al progetto europeo.

I paesi occidentali vedono l’UE come percorso di progressiva unificazione europea. Ai nuovi membri è stato richiesto di aderire a degli standard precedenti, incorporando nel proprio sistema istituzionale le centomila pagine di acquis communautaire di fatto fotocopiando le norme stabilite prima e senza di loro. Non c’è stata reciprocità nell’adesione dei paesi dell’est.

Non c’è stata considerazione per l’idea di Europa che, in cinquant’anni di repressione totalitaria, i paesi dell’est avevano sviluppato. Un’idea che andava molto oltre il semplice “mercato comune” ma che vedeva nell’ingresso UE un “ritorno all’Europa” che era, di fatto, un ritorno a sé stessi, alla propria tradizione nazionale e culturale dopo la cupa parentesi comunista, coltivando al contempo un certo risentimento nei confronti di un progetto che è stato costruito senza di loro. Da qui la convinzione e l’intenzione di poter affermare la propria visione dell’Europa. Una visione in cui l’unificazione politica del continente non è un orizzonte auspicabile.

I paesi fondatori ritenevano invece che, dopo l’allargamento a est, l’Unione sarebbe stata la stessa di prima, solo più grande. E sarebbero stati loro, gli occidentali, a indirizzarla in quanto ‘proprietari’ del progetto sulla scorta di una visione carolingia dell’Europa.

Occorre infine considerare che mentre da un lato i paesi dell’est finalmente liberati dalla cattività comunista procedevano nello state building, ricostruendo la nazione ritrovata, dall’altro la sovranità appena acquisita veniva reclamata dal processo di integrazione europea. Si è trattato di un passaggio difficile e per certi versi doloroso che ancora non può dirsi accettato e risolto.

Stato e nazione

In molti paesi dell’Europa occidentale è lo Stato ad avere creato la nazione. È stato così in Francia, in Spagna, nel Regno Unito. Qui lo Stato ha costruito nell’arco di secoli la nazione sviluppando il concetto di cittadinanza. Nell’Europa orientale è il contrario. Qui si trovano nazioni antiche a cui corrispondono però Stati relativamente recenti.

La nazione, a est, si è sviluppata secondo il modello etno-linguistico tedesco di Kulturnation.  La nazione è quindi il fondamento dello Stato e delle sue istituzioni. L’idea europeista occidentale secondo cui l’Unione deve rappresentare un superamento del nazionalismo e una relativizzazione dello Stato nazionale non può essere accolta a Varsavia, a Budapest, a Praga. Non è questione di essere “dalla parte sbagliata della Storia”, o di avere un qualche gene fascistoide, o di essere culturalmente reazionari: significa che, da quella parte d’Europa, hanno un’altra Storia. È l’Europa occidentale che si è unilateralmente dichiarata “post-nazionale”. Quella orientale non ha mai detto di essere d’accordo.

Impero europeo e omogeneità culturale

Il passato d’Europa è un passato imperiale. Ma c’è chi l’impero lo ha subito e chi lo ha imposto. L’Europa occidentale ha dato vita, nei secoli, a imperi globali le cui estensioni si trovavano fuori dal continente, in Africa, nelle Americhe, in Asia. L’eredità degli imperi coloniali britannico, spagnolo, portoghese e francese, è l’immigrazione proveniente dalle ex-colonie. Tali fenomeni migratori hanno contribuito allo sviluppo di società multiculturali del tutto estranee all’esperienza dell’Europa orientale.

Qui gli imperi si sono invece subiti, quello russo, asburgico e ottomano hanno variamente alimentato un’identità nazionale forte e radicata che trova nell’indipendenza e nella sovranità il senso ultimo dello Stato. Il relativo isolamento di quelle società durante il periodo comunista ha prodotto una omogeneità culturale sconosciuta in occidente e spiega, almeno in parte, la resistenza verso i fenomeni migratori in corso.

L’imposizione di quote di redistribuzione dei migranti che giungono in Europa suscita resistenze e timori abilmente cavalcati da classi politiche opportuniste e abili a descrivere l’UE come una nuova forma di impero (persino come una nuova Unione sovietica) il cui fine è schiacciare le identità nazionali locali.

Lo sgretolamento demografico

Alle accuse di neo-colonialismo politico ed economico, i paesi dell’est accompagnano i timori per lo sgretolamento demografico della nazione. Negli ultimi venticinque anni, i paesi dell’est hanno visto un calo demografico medio del 7%. La Bulgaria e la Romania hanno perso un quinto della loro popolazione. Le previsioni parlano di un calo ancora maggiore nei prossimi anni. Le società dell’Europa centro-orientale sono colpite dall’emigrazione. Per questa ragione faticano ad accettare l’idea di accogliere migranti dai paesi in via di sviluppo reclamando, piuttosto, il ritorno dei propri connazionali in patria. Un ritorno reso impossibile dalla mancata convergenza economica.

Un vero muro?

Per quanto le economie centro-orientali siano cresciute, giovandosi largamente dei fondi europei, l’obiettivo della convergenza economica non è stato raggiunto. E questo è un elemento di forte frustrazione per quelle società che ancora vedono i figli emigrare, si tratti di cervelli in fuga o di braccia per l’industria. La frustrazione, il risentimento, e più in generale un diverso approccio all’unificazione europea, sono tra le cause dell’insorgere dei cosiddetti nazional-populismi.

La divisione tra est e ovest europeo è un fatto. Ma che tale divisione debba essere necessariamente una colpa delle società est-europee, è falso. Come è falso affermare che tale solco sia incolmabile. Anzi, la linea di faglia è tutt’altro che netta. L’insorgere del nazional-populismo non riguarda solo Polonia e Ungheria ma anche, e soprattutto, Francia e Italia, Germania e Regno Unito. I fenomeni critici che stanno minando la tenuta dell’UE sono trasversali, a essere differenti sono però le cause. Capirle serve a individuare soluzioni o, almeno, a far cadere quel muro di pregiudizio che media a politica continuano tenacemente a costruire.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #305 il: Ottobre 25, 2019, 19:39:06 pm »
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SERBIA: Governo sotto accusa per i traffici d’armi verso il Medio Oriente
Marco Siragusa 5 ore fa

Negli ultimi giorni un nuovo scandalo ha colpito il governo di Belgrado. Questa volta a suscitare perplessità sullo stato di diritto nel paese è stata la vicenda dell’arresto di Aleksandar Obradović, esperto informatico della fabbrica di armamenti “Krušik” di Valjevo e protagonista della diffusione di documenti ufficiali riguardanti una compravendita di armi ai danni di imprese statali e a beneficio del padre del ministro degli Interni Nebojša Stefanović. Le armi in questione sono poi finite ai miliziani jihadisti in Yemen.

L’arresto di Obradović

Il 18 settembre scorso agenti della BIA, l’intelligence serba, hanno arrestato, durante l’orario di lavoro, Aleksandar Obradović. Le autorità hanno tenuto segreta la notizia per oltre tre settimane, fino alla denuncia pubblicata dal settimanale NIN il 10 ottobre. Obradović, che anche grazie al sostegno ricevuto dall’Associazione dei giornalisti serbi (UNS), dall’opposizione e dall’opinione pubblica è stato trasferito agli arresti domiciliari in attesa del processo, è accusato di “violazione del segreto commerciale”. L’indagine riguarda la diffusione sul portale ArmsWatch di documenti ufficiali relativi all’acquisto di un lotto di armi da parte dell’impresa privata serba GIM e alla successiva vendita delle armi all’azienda saudita Rinad Al Jazira e alla Larkmont Holdings LTD, società offshore registrata nelle Isole Vergini britanniche.

Come emerso già lo scorso anno dall’inchiesta del portale investigativo BIRN la vicenda presenta almeno tre aspetti problematici. Il primo riguarda il forte conflitto d’interesse della GIM dovuto alla presenza, in qualità di rappresentante, di Branko Stefanović, padre dell’attuale ministro degli Interni e vice-primo ministro Nebojša Stefanović. Proprio Stefanović padre avrebbe svolto il ruolo di intermediario tra la GIM e le altre imprese coinvolte. Qui il secondo aspetto poco trasparente della storia. Secondo i documenti forniti da Obradović, la GIM avrebbe acquistato le armi dall’azienda statale Krušik di Valjevo ad un prezzo di gran lunga inferiore rispetto al loro reale valore e a quanto pagato dall’impresa statale Jugoimport SDPR, provocando così un significativo danno economico per lo stato. Infine, elemento non certo secondario, secondo quanto pubblicato da ArmsWatch le armi oggetto della compravendita sarebbero finite non al governo saudita ma, grazie ad esso, direttamente nelle mani degli jihadisti dello Stato islamico (IS) presenti in Yemen.

Le reazioni politiche

Due giorni dopo la pubblicazione della notizia sul portale ArmsWatch, il ministero del Commercio serbo aveva rilasciato una nota in cui ribadiva che nessuna esportazione era stata autorizzata verso paesi soggetti a sanzioni internazionali e che la Serbia “non può in alcun modo assumersi la responsabilità di ciò che i paesi di destinazione finale fanno con le merci”. Lo stesso giorno la Krušik negava la vendita delle armi alla GIM ad un prezzo privilegiato.
Il 18 settembre, giorno dell’arresto di Obradović, il ministro degli Interni Nebojša Stefanović aveva negato che la GIM fosse di proprietà del padre definendo la notizia “un pezzo di carta che non significa nulla”.

Pochi giorni fa il presidente Aleksandar Vučić ha bollato la questione come “un’invenzione prodotta dall’opposizione che sta conducendo una brutale campagna contro le persone al potere e che solo chi denuncia qualcosa all’organismo statale o all’ufficio del procuratore può essere considerato e lui [Obradović] non l’ha fatto”. Lo scorso 20 settembre lo stesso Vučić si era detto pronto a sollecitare “la vendita di più armi possibili” all’Arabia Saudita in quanto consentito dalla legge.

Quel che appare certo è che questa storia non finirà qua, come dichiarato dallo stesso Obradović in un’intervista dopo il suo rilascio in cui afferma di avere ancora molte cose da riferire sul tema: un’azione che compie “per rendere pubblica la verità”.

Vučić e i businessmen mediorientali

La società civile e l’opposizione serba chiedono di far luce sul caso. Il 22 ottobre la deputata dell’opposizione Marinika Tepić ha tenuto una conferenza stampa in cui ha esposto ulteriori dettagli sul coinvolgimento del governo serbo nel traffico d’armi verso i fronti di guerra del Medio Oriente. In particolare, Tepić ha mostrato le fotografie di alcuni carichi sospetti, per via delle grosse dimensioni, presso gli hangar dell’aeroporto di Belgrado contrassegnati con la dicitura “VIP”, quindi esentati da controllo, con destinazione Doha, in Qatar. La deputata ha poi chiesto a Vučić di rispondere circa il ruolo di due controversi personaggi palestinesi, mostrando le fotografie ricevute da un informatore che li ritrae insieme all’aeroporto.

Si tratta di Mohammed Dahlan e Adham Abo Madalala, che da anni vivono a Belgrado e sono diventati cittadini serbi. Mentre del secondo non si sa molto se non che è stato il primo ambasciatore palestinese in Montenegro, Mohammed Dahlan è molto più noto al pubblico. Dahlan è infatti ex capo dei servizi segreti palestinesi, rivale politico del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmud Abbas, nonché consigliere dei principi sauditi. Nel 2016 venne condannato in contumacia da una corte palestinese per essersi appropriato di 18 milioni di dollari di fondi pubblici. Dahlan è stato esiliato dalla Palestina nel 2011: oggi possiede passaporto montenegrino dal 2010 e serbo dal 2013, ed è stato anche fotografato insieme ai presidenti dei due paesi (quando entrambi ricoprivano la carica di primo ministro).

Tepić chiede quindi a Vučić cosa questi abbia concordato coi due palestinesi all’epoca degli scatti e quale sia il ruolo di questi controversi businessman nel traffico di armi, così come negli affari commerciali che legano la Serbia al Medio Oriente, tra cui il progetto edilizio “Belgrado sull’acqua” e l’acquisizione di Air Serbia da parte di Etihad Airways.

Il traffico di armi dalla Serbia

Che le guerre in Yemen e Siria siano diventate terreno di scontro tra grandi potenze, assumendo la forma di “guerre per procura”, è cosa nota. Quello che però risulta meno noto al grande pubblico è il punto di partenza di buona parte delle armi che alimentano quei conflitti. Tra questi, uno dei più importanti è la Serbia che tramite le imprese statali Jugoimport SDPR e Krušik, e la mediazione delle autorità statunitensi, esporta i propri armamenti in varie parti del mondo.

Il Trattato sul commercio delle armi delle Nazioni Unite, entrato in vigore nel dicembre 2014, vieta l’esportazione diretta verso paesi in cui sussistono “gravi violazioni dei diritti umani”. La norma prevede inoltre che le esportazioni siano provviste di un certificato che specifichi l’utente finale e di un documento emesso dal governo del paese importatore che garantisce che le armi non vengano riesportate verso paesi in guerra.

Per aggirare il problema le imprese serbe si affidano spesso ad intermediari statunitensi o agli stessi governi di Turchia, Arabia Saudita e paesi del Golfo. Già nel 2016 un’indagine di BIRN denunciava che circa 50 voli carichi di armi erano partiti, nel giro di un anno, dall’aeroporto Nikola Tesla di Belgrado diretti in Arabia Saudita o negli Emirati Arabi Uniti. Il carico sarebbe poi stato trasferito proprio verso la Siria e lo Yemen.

Quanto pubblicato da ArmsWatch nel settembre scorso dimostra come ancora oggi ingenti quantitativi di armamenti prodotti in Serbia giungano nelle mani degli jihadisti yemeniti. A guadagnare da questi commerci illeciti è, manco a dirlo, proprio l’impresa GIM. Tra il 2015, anno in cui Branko Stefanović ha cominciato a collaborare con il presidente Goran Todorović, e il 2018 i profitti dell’azienda sono cresciuti in maniera esponenziale passando da appena 340 mila euro a circa 16 milioni di euro.

Foto presa dai canali di comunicazione dello Stato islamico e utilizzata dall’inchiesta di ArmsWatch

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #306 il: Ottobre 29, 2019, 19:14:56 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-nel-paese-dei-villaggi-fantasma-197450

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Bosnia Erzegovina: nel paese dei villaggi fantasma
È una catastrofe demografica inedita quella che sta colpendo la Bosnia Erzegovina. Il paese si sta svuotando ed in alcune zone manca la manodopera. E le autorità guardano in silenzio

29/10/2019 -  Tatjana Čalić
(Pubblicato originariamente da Buka il 28 ottobre 2019, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans  e OBCT)

La Bosnia Erzegovina si sta svuotando a grande velocità. In particolare nel cantone Una-Sana, nel nord-ovest del paese, al confine con la Croazia. La città di Sanski Most ha perso quasi 8000 abitanti. Investitori tedeschi vi hanno aperto tre aziende ma non riescono a trovare manodopera. Non va meglio a Bosanski Petrovac, nel cantone 10, dove una nuova fabbrica si trova a corto di operai. Ne parla Mirhunisa Zukić, presidentessa dell'associazione Unione per il ritorno sostenibile e l'integrazione della Bosnia Erzegovina.

È a causa di stipendi troppo bassi che gli operai non rispondono a queste offerte di lavoro?

Non è una questione di salari, il problema è che non ci sono più persone. La gente se ne è andata. È la prima volta che in Bosnia Erzegovina questo problema si manifesta in modo così forte. Basti vedere il numero di scuole che hanno chiuso i battenti. A Bosansko Grahovo, nel Cantone 10, la situazione è catastrofica: i liceali sono costretti ad andare a Drvar perché non sono numerosi a sufficienza per formare una classe nel loro comune di residenza. Non va meglio a Bihać. In Posavina, nel nord-est della Bosnia, si sono svuotati interi villaggi e la notte è un paesaggio terribile.

Quali i comuni della Republika Srpska che registrano le partenze più rilevanti?

Foča, Han Pjesak, Čajniče, Teslić, Rudo, Rogatica, Ribnik, la stessa Prijedor e Trebinje... Basti citare l'esempio del piccolo villaggio di Kopači, vicino a Goražde, che ha visto andarsene la quasi totalità dei suoi 227 abitanti.

Per quali ragioni partono i bosniaci? E dove vanno?

Il posto di lavoro ha smesso da tempo di essere l'unico motivo. I nostri concittadini se ne vanno a causa del destino incerto dell'intera regione. Sempre più spesso decidono di trasferirsi in un paese europeo, soprattutto Germania o Francia. Interessante notare come la popolazione della Bosnia nord-orientale – nello specifico delle regioni di Zvornik, Bratunac e Srebrenica – si sposti in particolare in Francia. Ma oltre a questi due paesi si trasferiscono anche in Austria, Norvegia e in Svezia.

Numerose donne si trasferiscono in Germania, in particolare infermiere ed addette alla cura delle persone. Una volta stabilite, ottengono il ricongiungimento familiare. Il problema maggiore e proprio la partenza di intere famiglie. Da metà 2013 a metà 2019 se ne sono andate più di 210.000 persone, vale a dire il 5% della popolazione bosniaca.

Perché le autorità non affrontano il problema?

Abbiamo insistito a più riprese affinché le autorità reagiscano ma ogni volta ci si chiedeva solo come avessimo avuto questi dati... Dopo che Eurostat ha confermato che il numero di partenze era arrivato a 234.000 le autorità non hanno detto più nulla. Nessuna parola su questi dati, nessuna soluzione proposta.

Come vi spiegate questa mancanza di reazioni?

Basti guardare anche gli espatriati che ritornano nel paese per poi andarsene nuovamente perché la vita dignitosa che era stata loro promessa non è stata garantita. Esistono ancora, a 25 anni dalla fine della guerra, in centri d'accoglienza collettivi, lo stato crolla sotto i suoi debiti e tutto accade così lentamente che sono stupita del fatto che i creditori internazionali non penalizzino più di quanto già avvenga la Bosnia Erzegovina.

I cittadini vogliono vivere una vita normale, vogliono avere la possibilità di vivere del loro lavoro... Ci dicono spesso che una parte rilevante del problema sta nel clima generale che regna da molto tempo in Bosnia Erzegovina. Dà loro fastidio che le leggi rimangano inapplicate, che gli atti illegali non vengano sanzionati, che qualcuno riceva salari per funzioni che non svolgono in modo adeguato... La gente è stufa di nepotismo ed ingiustizia, vuole sentirsi protetta, in sicurezza.


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Citazione
I cittadini vogliono vivere una vita normale, vogliono avere la possibilità di vivere del loro lavoro... Ci dicono spesso che una parte rilevante del problema sta nel clima generale che regna da molto tempo in Bosnia Erzegovina. Dà loro fastidio che le leggi rimangano inapplicate, che gli atti illegali non vengano sanzionati, che qualcuno riceva salari per funzioni che non svolgono in modo adeguato... La gente è stufa di nepotismo ed ingiustizia, vuole sentirsi protetta, in sicurezza.

Com'è che dice l' italiano medio ?
Ah, già:
"Certe cose accadono solo in Italia!"

Sì, infatti.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #307 il: Ottobre 30, 2019, 21:19:32 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Dalla-cronaca-alla-piazza-violenza-di-genere-in-Croazia-197322

Citazione
Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa
Dalla cronaca alla piazza: violenza di genere in Croazia

Una recente protesta di piazza contro la decisione del tribunale di Zara di liberare dalla custodia cautelare cinque giovani accusati di aver violentato e ricattato una ragazzina di 15 anni ha riacceso l'attenzione sulle violenze di genere in Croazia

24/10/2019 -  Giovanni Vale
"In meno di un anno, il tema della violenza di genere ha conquistato per ben tre volte le piazze e lo spazio mediatico in Croazia", commenta Ivan Blažević, dell’associazione Solidarna, che dal 2015 aiuta economicamente chi non ha accesso ad alcuni diritti fondamentali. Già a fine 2018, infatti, la società croata è stata scossa dalla campagna #PrekinimoŠutnju (Rompiamo il silenzio), iniziata quando una deputata ha raccontato la sua terribile esperienza - rivelatasi poi comune ad altre donne - di un raschiamento operato senza anestesia.

A marzo 2019, è toccato al movimento #Spasime (Salvami), una protesta nata contro la violenza domestica e organizzatasi dopo un grave fatto di cronaca nera (a Pago, un uomo aveva lanciato i quattro figli dal balcone). Infine, questo fine settimana, c’è stata la mobilitazione #PravdaZaDjevojčice (Giustizia per le ragazze), ancora una volta a seguito di un terribile fatto di cronaca. "Sembra che la società croata si sia risvegliata su questi temi", aggiunge Blažević.

«Giustizia per le ragazze»
Ultima in ordine di data, la manifestazione che si è tenuta sabato 19 ottobre a Zagabria e nelle principali città della Croazia ha raccolto la partecipazione di migliaia di persone (7mila solo nella capitale, secondo gli organizzatori). All’origine della mobilitazione, vi è la decisione del tribunale di Zara di liberare dalla custodia cautelare cinque giovani (tra i 17 e i 19 anni) accusati di aver violentato e ricattato per oltre un anno una ragazzina di 15 anni.

Stando a quanto riportato dalla stampa locale, la vittima avrebbe finito per confessare la vicenda allo psicologo della scuola, dopo che tra l’agosto 2018 e il luglio 2019 i cinque - coadiuvati da altri due giovani - le avevano inflitto percosse e stupri di gruppo e l’avevano minacciata di pubblicare sui social media i video delle violenze. Tra i sospettati ci sarebbe anche l’ex ragazzo della vittima, lui stesso accusato di violenze.

La decisione del giudice ha scatenato un’ondata di proteste e di commenti, con l’intervento anche della presidente Kolinda Grabar-Kitarović e di diversi ministri, «stupiti» dal caso e decisi a «condannare ogni forma di violenza». Nel giro di pochi giorni, si sono organizzati sit-in e proteste, ponendo al centro della critica il sistema giudiziario croato. A Zara, intanto, il tribunale ha ricevuto il ricorso del procuratore e ribaltato la decisione del giudice (i cinque ora sono di nuovo in carcere).

La critica espressa sabato in diverse città va dunque oltre il caso specifico e guarda più in generale alla situazione nel paese. In Croazia, lo stupro è punibile con una pena che va fino a 10 anni di prigione, ma il codice penale prevede anche il reato di «rapporto sessuale senza consenso», con pene che vanno dai 6 mesi ai 5 anni. Secondo Amnesty International, il 90% dei casi di stupro finisce proprio in questa seconda categoria, con condanne di un anno o meno.

«Le condizioni per le donne stanno peggiorando»
"Negli ultimi cinque anni, più di 90 donne sono state uccise in Croazia dai loro mariti, partner, ex o altri uomini a loro vicini. Ogni 15 minuti, una donna è vittima di abusi e il 58% delle giovani tra i 16 e i 26 anni ha fatto esperienza di un comportamento abusivo da parte del proprio partner", analizza Svjetlana Knežević dell’associazione «B.a.B.e. - Budi aktivna. Budi emancipiran» (letteralmente: sii attiva, sii emancipato), creata nel 1994 per promuovere l’uguaglianza di genere.

Stando all’ultimo rapporto dell’Ombudsman croata per l’uguaglianza di genere, Višnja Ljubičić, nei primi otto mesi del 2019 sono stati segnalati 639 casi di violenza domestica nei confronti delle donne, contro 535 casi in tutto il 2018. Se quindi da un lato la recente reazione della società croata è certamente positiva, dall’altro le motivazioni che l’hanno scatenata - per ben tre volte in dodici mesi - non fanno ben sperare.

"Le condizioni per le donne stanno peggiorando a livello globale e la Croazia fa certamente parte di questo trend", prosegue Knežević, che si chiede: "Questo coinvolgimento del pubblico (croato, ndr.) evolverà in una richiesta di cambiamento strutturale o evaporerà facilmente?". Il problema, infatti, è più ampio dei singoli fatti di cronaca che peraltro raccontano solo una parte delle violenze. "Solo una donna su 15 o su 20 denuncia uno stupro subito", precisa Svjetlana Knežević.

A fare da corollario alla cronaca nera, c’è infatti non solo la questione della disuguaglianza di genere (salari più bassi, scarsa rappresentanza in parlamento - 12,5% dei seggi - scarsa presenza nei comuni - 9% dei sindaci), ma anche una persistente mentalità patriarcale e maschilista che fa da concime ai comportamenti violenti. Ne è un esempio l’ultima puntata della trasmissione “Nedjeljom u 2” sulla tv pubblica croata, che trattava proprio il tema della violenza sulle donne.

Maschilismo in tv e nella società
Domenica 20 ottobre, alla trasmissione presentata da Aleksandar Stanković era invitata l’attrice e attivista croata Jelena Veljača, organizzatrice della protesta #Spasime del marzo 2019 e tra le promotrici del movimento #PravdaZaDjevojčice. L’intervista, che partiva dal terribile caso di cronaca di Zara, si è rapidamente concentrata sul comportamento delle vittime di violenza sessuale piuttosto che su quello degli aggressori e sulle cause del fenomeno, dimostrando quanta confusione e incomprensione ci sia ancora sul tema.

Commentando il movimento #MeToo, Stanković ha ad esempio insistito su come l’attrice Salma Hayek abbia potuto tacere per 14 anni sulla violenza subita da parte di Harvey Weinstein. "Hayek era ricca e famosa all’epoca, perché si è piegata alla violenza? Io non lo avrei fatto", ha detto Stanković, concludendo (di fronte ad una scandalizzata Jelena Veljača): "Non dico che non ci sia stato stupro, ma la versione di Salma Hayek mi pare poco credibile".

Immediata la reazione delle associazioni di difesa delle donne. Ženska soba (La stanza delle donne), che da 17 anni lavora con le vittime di violenza sessuale, ha condannato queste affermazioni definendole "preoccupanti" e "pericolose per le vittime di violenza sessuale che hanno guardato la puntata, in quanto le espone ad un ulteriore trauma". "Ripetiamo ancora una volta che l'unica persona responsabile della violenza sessuale è l'autore della violenza", si legge nel comunicato di Ženska soba.

Sia l’associazione che il presentatore televisivo hanno ricevuto negli ultimi giorni delle minacce, segno - come ha commentato ancora Ženska soba - dello stato di "una società in cui anche la lotta alla violenza sessuale provoca nuove reazioni violente". "Stando all’ultimo censimento, l’86% dei croati è di fede cattolica. La Chiesa, in questo senso, potrebbe utilizzare di più la sua influenza per promuovere l’uguaglianza di genere", afferma Ivan Blažević di Solidarna.

Ženska soba va ancora più in là definendo la Chiesa cattolica "un partito ombra" in Croazia e ricordando come quest’ultima si sia espressa "apertamente contro la Convenzione di Istanbul", il documento del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza di genere e alla violenza domestica. L’estate scorsa, il governo ha finito per ratificare tra le proteste il documento, mentre la Chiesa e i gruppi più conservatori manifestavano contro.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #308 il: Ottobre 30, 2019, 21:23:15 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Kosovo-Occorre-depoliticizzare-l-universita-197355

Citazione
Kosovo: “Occorre depoliticizzare l'università”

Per formare le nuove generazioni che assicureranno poi il futuro del Kosovo occorre riformare profondamente le università del paese. È questo che ripete in continuazione il professor Arben Hajrullahu. Un'intervista

30/10/2019 -  Arian Lumezi
(Prodotto e pubblicato originariamente da Kosovo 2.0. È stato qui tradotto e pubblicato su loro permesso)

Nel sud-est Europa le università devono tutte affrontare sfide simili: qualità non eccellente degli insegnamenti, fuga di cervelli e influenza del mondo politico. Per contribuire a “rifondare” gli studi superiori nei Balcani, Kosovo 2.0 ha intervistato alcuni tra gli intellettuali più influenti della regione, tra cui Arben Hajrullahu, professore presso il dipartimento di Scienze politiche dell'Università di Pristina (UP), dove insegna dal 2006. Titolare di un dottorato presso l'Università di Vienna, Arben Hajrullahu è uno delle prime persone del Kosovo ad essere stato definito un “whistleblower”. Ma lui non si considera tale, ma piuttosto come “un professore che tenta di adempiere ai suoi obblighi universitari”. Nel 2017 aveva denunciato che la sua mancata promozione in seno all'Università di Pristina era conseguenza delle critiche da lui mosse sul funzionamento dell'università stessa.

Quali sono le sue impressioni sul mondo universitario del Kosovo?

Sono numerosi gli scandali che mi hanno inseguito da quando lavoro in questa università. Senza parlare di chi era alla base di questi scandali, la cosa preoccupante è la mancanza di volontà tra i professori di contestare questi atti tutt'altro che irreprensibili. Alcune nomine in seno all'università sono semplicemente scandalose. Sulle mille persone di cui è composto il personale dell'Università di Pristina solo qualcuno ha il coraggio di dar seguito ai propri obblighi intellettuali e ad esprimersi in pubblico. Quindi il problema non sono solo coloro i quali frodano, ma anche quelli che preferiscono rimanere in silenzio. Il sistema funziona in modo tale che se si risponde ai propri obblighi intellettuali e professionali e ci si esprime a favore dell'interesse pubblico su questioni relative all'università o al sistema educativo, si rischiano guai seri.


Negli anni seguiti al 1999 in seno all'università è cresciuto un sistema clientelare ad alta tossicità, come del resto si è sviluppato nel mondo della politica. In questo sistema vi sono legioni pronte a manipolare ed il silenzio viene pagato con promozioni o denaro. Ogni avanzamento di carriera è legato all'essere membro di un partito. Ed è molto difficile rompere questo circolo vizioso unicamente con forze interne all'università. I ricercatori dovrebbero farsi forza del proprio senso critico piuttosto di flirtare con la politica. Siamo in trappola e dobbiamo mobilitare la società nel suo complesso, le persone con capacità intellettuali e buona volontà. Dobbiamo mobilitare i decisori politici per "liberare" il sistema universitario e l'intero sistema educativo.


Nel novembre 2015 l'istituto Democracy for Development (D4D)  ha pubblicato un rapporto che sottolineava come l'Università di Pristina dovesse rispondere a nove grandi sfide tra cui la mancanza di personale qualificato, la politicizzazione delle organizzazioni studentesche, promozioni immeritate, ecc. Dove siamo quattro anni dopo questa pubblicazione?

Temo che potrebbero passarne quattro, otto o quaranta anni prima di fare qualche passo significativo se non vi è il desiderio di cambiare le cose. Non possiamo sperare in un miracolo e dobbiamo iniziare dalle basi. Tutti i professori di tutti i dipartimenti dell'Università dovrebbero essere supervisionati. E non solo a Pristina, ma anche nelle università pubbliche di tutto il Kosovo e in tutte le facoltà private. Dobbiamo determinare se vi sono conflitti di interesse nell'etica e nell'integrità accademica e, in tal caso, determinare la gravità di queste violazioni.

Alcuni insegnanti sono colpevoli di plagio. Alcuni addirittura hanno ottenuto così dei dottorati e successivamente hanno ottenuto posizioni importanti. Dobbiamo studiare il background di tutti gli insegnanti attuali e possibilmente chiudere alcuni dipartimenti universitari, se non funzionano. È meglio farne a meno e concentrarsi sul formare studenti di qualità.

Gli studenti arrivano all'età di 25 o 30 anni rendendosi conto di non avere competenze e si trovano ad affrontare il mercato del lavoro. Dopo sei o otto anni di studio, non sono più disponibili a fare lavori che richiedono bassi livelli di qualifica. È come se una spina fosse piantata nel cuore della nostra società. E gli insegnanti che fanno superare gli esami agli studenti senza valutarli adeguatamente sono responsabili di questo disastro e delle sue conseguenze, come l'esodo nel 2015 di decine di migliaia di cittadini del Kosovo.

Si è spesso detto che l'apertura di università a Prizren, Pëja o Mitrovica rappresentava un tentativo di "comprare" la pace sociale. Oggi, che tre di queste università hanno visto le proprie licenze sospese per il periodo di un anno, come spiega la loro creazione?

Non si possono aprire università durante le campagne elettorali. Ma ora dobbiamo vedere cosa possiamo fare. È troppo facile dire che queste strutture vanno chiuse. Al contrario a mio avviso dobbiamo guardare a come migliorare il loro livello. Queste sospensioni sono un duro colpo per il sistema universitario del Kosovo, ma sono il risultato di politiche a breve termine, politiche che creano università senza finanziarle. Se i politici rispettassero le promesse delle loro campagne elettorali aumenterebbero le capacità delle strutture esistenti e il numero di insegnanti. Sarebbe stato necessario combinare l'istruzione accademica e la formazione professionale. Non è un'idea rivoluzionaria, molti paesi occidentali l'hanno fatto prima di noi.

Non sto dicendo che i professori non possano essere coinvolti in politica, ma abbiamo casi in cui alcuni hanno sospeso la loro carriera accademica per quindici anni per fare qualcos'altro. Negli Stati Uniti, se un insegnante decide di seguire un percorso diverso dall'insegnamento, mantiene la sua posizione per quattro o sei anni, ma deve poi decidere. Anche il nostro paese soffre di fuga di cervelli. E i principali colpevoli della bancarotta nel mondo universitario sono quelli che mandano i propri figli a studiare all'estero.

Alcune università private sono diventate attori importanti del sistema educativo del Kosovo. Come valutate il loro livello?

Nei paesi sviluppati gli istituti privati che chiedono rette ingenti garantiscono solitamente un insegnamento di qualità superiore alle università pubbliche. Non è il caso del Kosovo. È un indicatore del fatto che abbiano venduto lauree senza alcun criterio. In Occidente alcune istituzioni private sono gestite come fondazioni e lo scopo non è quello di fare soldi. Qui siamo molto distanti da questo modello. Nel nostro paese funzionano come un chiosco che vende kebab: se avete soldi ottenete tutto quello che volete. Anche i professori di queste università dovrebbero essere valutati.

Durante l'ultima campagna elettorale alcuni politici hanno spiegato che il problema principale delle università del Kosovo è la mancanza di professori adeguatamente qualificati. Anche lei ha sollevato quest'aspetto. Quali le soluzioni possibili?

Abbiamo le risorse sufficienti perlomeno per avviare questo processo. Il primo passo è un'ispezione generale. La seconda tappa invece implica avere più tempo, e riguarda la formazione di nuovi professori e l'avvio di ciò che si definisce “la circolazione dei cervelli”. A Pristina ho avuto studenti che poi sono diventati professori presso alcune università europee. Alcuni vorrebbero collaborare con le istituzioni del Kosovo. Da noi si pensa che chi ha studiato all'estero non desidera certo rientrare e che chi rientra è chi ha fallito all'estero. Non dico che chi ha studiato fuori sia più competente di chi ha studiato qui in Kosovo, ma che qui siamo in pochi e che non possiamo permetterci il lusso di agire in modo irresponsabile nei confronti di chi ha studiato in università europee.

La guerra è finita da vent'anni e il Kosovo potrebbe entrare nella fase storica in cui, a seguito dei negoziati con la Serbia, si trova un accordo finale. Quale il ruolo del mondo accademico in questo processo?

Vent'anni, può darsi che i grandi cambiamenti arrivano in questo paese ogni dieci anni. La repressione degli anni '90, la presenza internazionale negli anni 2000, poi un decennio di ruberie dei beni pubblici... Ma forse le cose possono cambiare? L'università potrebbe contribuire con competenze in determinati campi, per esempio nell'ambito giuridico. Ma per farlo vi è bisogno della volontà politica perché occorre essere in due per danzare. L'università può fornire consulenze, ma su basi scientifiche, non per fare dei piaceri al politico di turno.

Lavorate da anni all'università di Pristina. Avete individuato alcuni miglioramenti?

Vi sono sicuramente molti sviluppi positivi e sarebbe in effetti ingiusto non sottolinearli. Dopo la sua completa distruzione l'Università di Pristina si è presto rimessa in piedi. Sono stati ristrutturati gli edifici e le condizioni materiali vanno sempre meglio. Io sono arrivato all'Università di Pristina nel 2004 e sono rimasto. Oggi la qualità degli insegnanti è migliore che in passato, senza ombra di dubbio. L'adozione di un sistema digitale di voto ha limitato le possibili manipolazioni. Io ho vissuto in prima persona ad esempio il caso di una mia studentessa che aveva falsificato alcuni suoi voti, ma alcuni professori la lasciavano fare perché aveva dei legami politici.

Occorre che l'Università di Pristina raggiunga il livello delle università europee, ma per far questo serve più trasparenza nella gestione del budget e dobbiamo modernizzare i nostri metodi di insegnamento.

Vi è anche poca ricerca. Negli anni '70 le pubblicazioni scientifiche erano molto più numerose. Questo ha però anche un aspetto positivo: obbliga i nostri studenti a pubblicare all'estero, quindi basandosi esclusivamente sul merito personale, senza ottenere sostegno dall'università di origine. La situazione, di sicuro, non è mai tutta nera o tutta bianca.

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #309 il: Ottobre 30, 2019, 23:50:15 pm »
Ho già detto delle quote rosa nell'università italiana: alle donne chiedevano la targa di Bologna e davano 30 e lode, agli uomini la teoria simmetrica del positrone!
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #310 il: Ottobre 31, 2019, 01:40:26 am »
Ecco un tipico esame all'università (cambiano le parole ma il resto è uguale):

Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #311 il: Novembre 03, 2019, 01:11:53 am »
https://www.eastjournal.net/archives/100353

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90 A EST: L’Albania e la nave Vlora, simbolo della fine del comunismo
Pietro Aleotti 2 giorni fa

Una delle fotografie che meglio racconta l’Albania del primo scorcio degli anni ’90 non è stata scattata in Albania.

Ma in Italia, a Bari per la precisione, un braccio di mare più in là dalla costa albanese: da Durazzo fanno sette ore di navigazione, il tragitto più breve, un requisito non secondario quando quello che si sta per intraprendere non è esattamente un viaggio di piacere, né una crociera.

La foto è quella della nave Vlora, un mercantile battente bandiera albanese, un portarinfuse per la precisione, fatta per trasportare container e pallets. Solo che, al posto di merce, questa volta la nave è riempita all’inverosimile di persone: quelle che l’hanno presa d’assalto mentre, a Durazzo, sta sbarcando il suo carico di canna da zucchero, proveniente da Cuba. Sono ventimila in tutto, stipate in ogni dove, da prua a poppa e persino sulle gru di bordo. E’ l’8 agosto del 1991 e quello della Vlora è, ancora adesso, il più grande sbarco di migranti mai verificatosi in Italia su una sola imbarcazione.

Ma come si è arrivati a scattare quella fotografia e che cos’era successo? Era successo che il muro di Berlino era caduto anche a Tirana, un paio d’anni prima, tirandosi dietro, come negli altri paesi in orbita sovietica, gli ultimi brandelli del regime comunista. Quello albanese si era insediato nel 1944 con la cacciata delle truppe d’occupazione naziste e, da allora, era stato guidato da colui che sarebbe stato, per quarant’anni, il padre-padrone albanese, Enver Hoxha, segretario del Partito del Lavoro Albanese (PLA). Non è su di lui, però, che cadono le macerie del muro perché nel 1985, alla sua morte, a succedergli è il suo più fidato delfino, Ramiz Alia. Sebbene avesse introdotto qualche vaga apertura diplomatica verso occidente, Alia aveva comunque mantenuto l’Albania in uno stato di isolamento tale che, nel paese, non tutti seppero subito che il muro di Berlino non c’era più.

I primi scricchiolii del regime si avvertono nel gennaio del 1990 con le proteste che infiammarono Scutari, una delle città più popolose, nel nord dell’Albania: è qui che centinaia di persone si riversano in piazza per protestare contro la mancanza di cibo e nel tentativo di abbattere una statua di Stalin, un atto simbolico ripetuto decine di volte in più parti del mondo, quasi un must di ogni rivoluzione che si rispetti. Da Scutari, che comunque rimarrà uno dei centri nevralgici di tutti i moti di ribellione al potere di Alia, la protesta si allarga a macchia d’olio.

Alia è costretto a qualche timida concessione ma deve anche guardarsi le spalle dall’anima ultraconservatrice del partito, capeggiata dalla vedova di Hoxha: a maggio il Comitato Centrale del PLA accorda ai cittadini la possibilità di espatriare e di possedere un passaporto. Non basta: le proteste che comunque non si placano, unite alle fortissime pressioni internazionali (Stati Uniti su tutti) in richiesta del superamento del “modello hoxhista” facendo leva sulla disastrosa condizione economica del paese, inducono Alia ad ulteriori e ancor più significative aperture. A dicembre 1990 i partiti politici vengono legalizzati, e Sali Berisha, emanazione egli stesso del PLA, si impone come leader del neonato Partito Democratico (PD): è il gennaio del 1991 e quello che nei piani di Alia doveva essere un cavallo di troia messo a bella posta in campo “avverso” diventerà, al contrario, il protagonista assoluto degli anni a venire.

Sono addirittura indette libere elezioni per la fine di marzo, sono solo le terze nell’intera storia albanese, ma il paese ci arriva in un clima di fuggi fuggi generale e in uno stato di caos totale: moti di piazza, scioperi della fame (famoso quello degli studenti universitari di Tirana) e, ancora, statue che saltano come birilli; a farne le spese, questa volta, sono le effigi dello stesso Hoxha. La vittoria di misura del PLA serve ad Alia per diventare il primo presidente della Repubblica albanese ma non a dare un governo stabile alla nazione. Il PD decide addirittura di rimanere fuori dall’Assemblea Popolare, il governo di Fatos Nano dura meno di un mese, sostituito da quello di Ylli Bufi, membro del neonato Partito Socialista (PS), sorto dalle ceneri del defunto PLA.

Ad agosto si rinvigoriscono le tensioni mai veramente sopite che attraversano l’intera nazione in ragione di una situazione economica sempre più ingestibile e di un’inflazione al 270%. La disoccupazione è al 70%, la gente non ha futuro e, soprattutto, non ha di che mangiare: riprendono le “fughe”.

E così che si arriva ad agosto ed è così che il Vlora arriva in Italia. Di lì a poco in Albania inizierà una nuova era, quella del PD al governo (che stravincerà le elezioni anticipate dell’aprile del 1992), quella di Sali Berisha (che subentrerà ad Alia, dimissionario) e, soprattutto, quella del primo governo senza comunisti. Ma questa è un’altra storia ed è una storia tutt’altro che priva di colpi di scena e di spigoli.

Nell’Italia agostana di quei giorni si cercherà di gestire quella marea umana inaspettata, nell’assenza delle istituzioni di primo livello; non c’è traccia, ad esempio, del ministro degli interni e del capo della protezione civile, entrambi in vacanza. Diventa famosissimo, per questa ragione, il j’accuse di Don Tonino Bello che dalle colonne dell’Avvenire parlerà di “persone trattate come bestie allo zoo” e di un paese che “non sa ancora dare quelle accoglienze che hanno sapore di umanità”. Parole che, a distanza di trent’anni, suonano ancora terribilmente attuali.

Intanto sulle spiagge italiane in quei giorni impazza il Cocciante del melenso “Se stiamo insieme”, quasi beffardo pensando ad un popolo, quello albanese, che contemporaneamente aveva iniziato a sparpagliarsi per ogni dove e che, da allora, non avrebbe più smesso.


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Ad agosto si rinvigoriscono le tensioni mai veramente sopite che attraversano l’intera nazione in ragione di una situazione economica sempre più ingestibile e di un’inflazione al 270%. La disoccupazione è al 70%, la gente non ha futuro e, soprattutto, non ha di che mangiare: riprendono le “fughe”.

Questo è il motivo principale per cui ho più volte scritto in questo forum che tanta gente dell' Europa dell'est (ma non solo) che sputa nel piatto in cui mangia, fingendo di non ricordare da quale merda provengono - e soprattutto provenivano -, l'avrei rispedita (e la rispedirei) nei rispettivi paesi d' origine.
Ma, purtroppo, non ho questo potere, altrimenti ci sarebbe stato da ridere.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #312 il: Novembre 03, 2019, 01:20:14 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-come-la-mafia-dei-boschi-devasta-la-Bucovina-197501

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Romania: come la mafia dei boschi devasta la Bucovina

La Romania ospita metà delle foreste vergini d'Europa. Ora minacciate. Recorder si è recato in Bucovina sulle tracce della mafia del legname, tracce che portano ad un sistema corruttivo legato al Partito nazional-liberale

31/10/2019 -  Alex Nedea,  David Muntean
(Pubblicato originariamente da Recorder, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e Obct)


È da trent'anni, a prescindere da chi stia governando il paese, che sia una fase in crescita o recessione, che i boschi della Romania vengono sistematicamente saccheggiati. In questi tre decenni si stima siano stati tagliati illegalmente 270 milioni di metri cubi di legname. 2 milioni all'anno. Ogni due alberi tagliati legalmente, uno lo è illegalmente.

In questi ultimi anni, a seguito di modifiche normative, volte a porre termine al fenomeno e alla messa in pratica di progetti di ispezione forestale, si sarebbe potuto credere che finalmente si iniziasse a proteggere le foreste romene. In teoria lo stato traccia tutti i camion che trasportano legname e i cittadini possono verificare in tempo reale sul loro cellulare se un camion che incrociano ha o meno l'autorizzazione per trasportare legname. In realtà la situazione rimane drammatica: si continua a disboscare illegalmente con la complicità passiva o attiva della autorità forestali, dalla base sino ai più alti livelli dello stato.

Il metodo dell'addizione
A fine agosto ci siamo recati nel villaggio di Moldovița, sede di una delle foreste secolari della Bucovina. Avevamo ricevuto informazione che in quest'area si facessero attività di deforestazione illegale. In quel periodo dell'anno non possono essere tagliati che alberi già a terra, sradicati, malati o secchi, quelli insomma “incidentati”. La vendita di tale legname avviene attraverso specifici bandi e il loro prelievo deve seguire regole ferree. Innanzitutto le autorità forestali pubblicano un inventario dei lotti di alberi messi in vendita, le guardie forestali marcano poi questi alberi con un martello speciale, con una numerazione identificativa univoca. Teoricamente le guardie forestali dovrebbero segnare solo gli alberi incidentati prima dell'avvio del bando. In realtà non segnano che una parte degli alberi e poi attendono di sapere chi ha vinto il bando. Si mettono poi d'accordo con l'azienda che ha ottenuto il lotto e, per gli alberi rimasti da segnare, non ne individuano di incidentati ma di sani, dal valore più alto sul mercato. Questo metodo viene chiamato “dell'addizione”. Il suo funzionamento ci è stato descritto sia dalle guardie forestali che da alcune aziende che lo praticano.

Un sabato pomeriggio, lungo una strada forestale di Moldovița, incontriamo Vasile Florescu, titolare dell’azienda Turculeț SRL. Ha appena finito di caricare un camion con 35 metri cubi di legname fresco, perfettamente integro, in una zona dove è permesso esclusivamente tagliare legname incidentato. “Non mi fate domande, tutto è a posto”, dice lui.

- Cos’è che non va con questo legname? Nessuno di questi alberi sembra danneggiato...

- Anche il legname fresco può essere danneggiato. È legname che ho acquistato.

- È segnato? Ce lo potete mostrare?

- Sì, sì è segnato, ma non ho tempo per mostrarvelo.

Qualche giorno più tardi: “Guardate che disastro hanno lasciato dietro di loro”. Gheorghe Oblezniuc è uno degli abitanti di Moldovița ed un ex guardia forestale che, in passato, è stato anche lui accusato di taglio illegale. Conosce tutti i metodi utilizzati dai ladri di legname. È attualmente in conflitto aperto con la cosiddetta “mafia del legname” e ci mostra alcuni alberi tagliati recentemente secondo il “Metodo dell’addizione”. Punta il dito verso un albero spezzato in due: “Questo sarebbe stato da tagliare, sicuramente era inserito nell’inventario. E guardate invece cosa hanno preso al suo posto”. Due metri più in là un ceppo. “Un albero perfettamente sano, segnato di recente. Un albero così fa tre metri cubi di legname, vale 250 euro”. Un po’ sotto è stato tagliato recentemente un altro albero. “Era in piena forma. Guardate come piange per essere stato tagliato”, dice Gheorghe mostrando la resina che traspira da ciò che rimane del tronco. “Il cuore è bianco, quest’albero era in buona salute”.

Visti i ceppi che all’evidenza corrispondono ad alberi che erano in piena salute ed il legname verde visto sul camion di Vasile Florescu chiamiamo il 112, servizio nazionale di emergenza. Forniamo la targa di immatricolazione del camion ed il funzionario al telefono ci assicura che tutto è in regola e che il trasporto era registrato. Il metodo dell’addizione permette a determinati trasportatori di saccheggiare il bosco sotto la copertura della legalità. Al telefono insistiamo, sottolineando che il legname non pareva essere schiantato. Il funzionario trasferisce la chiamata alla polizia. “Siete andati sul posto per verificare?”, chiede il poliziotto esasperato. Rispieghiamo tutto. “Mio Dio… allora verificheremo. Se non è vero ne subirete le conseguenze”. Questo modo di reagire ad una segnalazione di cittadini, che la polizia dovrebbe tutelare, ha l’apparenza di una intimidazione.

Il sistema nazionale di verifica dei trasporti di legname mostra così tutti i suoi limiti. I ladri hanno metodi così raffinati che i semplici cittadini non possono fare niente. Grazie al metodo dell’addizione il trasporto di Vasile Florescu e della sua azienda Turculeț SRL risulta nei registri legali quando tutte le prove suggeriscono invece che ha tagliato alberi che non dovevano essere tagliati.

Il giorno dopo ritorniamo in zona con due guardie forestali. Effettuano dei prelievi sul legno di uno degli alberi tagliati e apparentemente sani, per analisi in laboratorio. Ma l’indagine non preoccupa Vasile Florescu. In una registrazione audio realizzata a sua insaputa in un bar da un abitante di Moldovița, sembra convinto del fatto che l’indagine non porterà a nulla e che la collaborazione con le guardie forestali continuerà come prima: “Pago per ricevere il legname […] Sono loro che ne pagheranno le conseguenze, non io”. Vasile Florescu conversa assieme ad un’altra persona coinvolta nel taglio e quest’ultimo replica a Vasile Florescu: “Hanno preso dei campioni, li invieranno a Bucarest, ma le autorità non indagheranno, sanno che ne nascerebbero troppi problemi”.

Un capo forestale incardinato nel PNL
Questo dà un’idea della dimensione reale del sistema, che non è semplicemente questione di una complicità locale tra un imprenditore ed una guardia forestale ma piuttosto un sistema piramidale nel quale i ladri sono protetti dalle più alte sfere dello stato. Alla base della piramide vi è una guardia forestale che non può segnare il legname senza il via libera del proprio superiore, il responsabile del distretto forestale della regione, che conserva i martelli per la marcatura sottochiave, nel proprio ufficio. Per il distretto forestale di Moldovița, uno dei più ricchi della Bucovina, a ricoprire il ruolo è Georgel Zlei. Era infastidito del fatto che abbiamo chiamato il 112 e gli ispettori forestali, invece di chiedere direttamente di lui.

Due settimane dopo, è esattamente quello che abbiamo fatto. L’abbiamo avvisato dopo aver trovato delle prove che un’area era stata saccheggiata secondo il metodo dell’addizione. Vi siamo recati insieme a lui. Ha giustificato il taglio di alberi apparentemente sani per “fattori naturali destabilizzanti” come il vento e la neve. Abbiamo condiviso con lui informazioni che arrivavano direttamente da guardie forestali coinvolte nei tagli illegali. Le ha definite “accuse tendenziose e non provate”.

Georgel Zlei non è uno qualunque. Il suo passato è macchiato di accuse di furto di legname in tutte le foreste che ha amministrato. Numerose di queste accuse sono documentate anche dalla stampa nazionale. Nel 2001 Georgel Zlei è stato obbligato alle dimissioni da responsabile del distretto forestale di Tomnatic, nei pressi di Moldovița, dopo che centiania di alberi erano stati saccheggiati dai boschi che doveva proteggere. Al posto di essere avviata un’inchiesta, è stato promosso: quattro anni più tardi è stato nominato a capo del distretto forestale di Cârlibaba, una foresta ancora più ricca, sempre in Bucovina. Ed è stato un record: sono stati saccheggiati 50.000 m³ di legname, equivalenti a 30.000 alberi. Se ne è poi andato per essere nominato a capo del distretto forestale di Moldovița, che dirige ormai da dieci anni. Quando gli si ricorda di queste accuse replica: “I giornalisti, sapete come sono... La storia deve essere spettacolare per il pubblico”.

Georgel Zlei ha sempre mantenuto il posto nonostante le accuse di saccheggio. Chi conosce le dinamiche del sistema forestale della contea di Suceava sostiene che è avvenuto grazie alle sue connessioni politiche. Georgel Zlei è membro del Partito nazional-liberale (PNL, a cui appartiene il presidente romeno Klaus Iohannis e Ludovic Orban, che si prepara a diventare primo ministro). È stato a scuola e all’università assieme a Gheorghe Flutur, presidente del consiglio generale di Suceava e vice-presidente del PNL.

Questo metodo dell’addizione, grazie alla sua apparente legalità, è praticato in tutta la Bucovina, anche da aziende che appartengono direttamente a politici locali. Per esempio il sindaco di Moldovița, Traian Ilie, detiene un’azienda registrata a nome della moglie e del figlio. Dall’anno scorso quest’azienda è stata indagata per il furto di 500 m³ di legname.

Un cittadino contro il sistema
Tiberiu Boșutar dirige una piccola associazione civica, Asociația Moldovița, il cui scopo è proteggere le foreste della regione. Tiberiu ha ideato una tecnica ingegnosa per verificare i saccheggi: ha installato alla finestra di casa sua delle telecamere di sorveglianza. “Da tre anni osservo da casa mia i trasportatori di legname che entrano ed escono dal comune e tento di identificarli. All’inizio la situazione era drammatica. I primi mesi erano centinaia i camion che trasportavano legname sano uscendo da Moldovița e senza essere registrati o autorizzati”. Dal 2016 ad oggi ha segnato su un foglio di calcolo più di 8000 trasporti. Tra loro anche i camion del sindaco Traian Ilie. “Il sindaco mi ha denunciato, sono stato oggetto di indagine penale per installazione illegale di materiale di videosorveglianza”.

La denuncia non ha portato a nulla e il sindaco non è riuscito ad obbligare Tiberiu a disinstallare la sua attrezzatura. È grazie a lui che abbiamo ora tutte le immagini dei trasporti di legname che escono da Moldovița. Tiberiu verifica poi se i trasporti corrispondono alle autorizzazioni. Ha inoltre evidenziato le tecniche utilizzate dai trasportatori per far uscire molteplici trasporti di legname pur avendo un’unica autorizzazione. Ma lo stato romeno non vuole utilizzare la stessa tecnica di Tiberiu per verificare la legalità dei trasporti, anche se tecniche radar vengono utilizzate su grande scala per monitorare infrazioni stradali. “La polizia mi ha chiesto una cinquantina di volte le registrazioni per indagini in loro inchieste. In quel caso i video erano prove utilizzabili. Ma, apparentemente, non per il furto di legname… “, denuncia.

Un giorno Tiberiu Boșutar ha tentato un esperimento. Ha acquistato 100 m³ di legname fresco seguendo la via legale (90 euro al metro cubo per un totale di 9000 euro). Di questi 100 m³ ha ricavato 55 m³ di tavolato, venduto poi a 150 euro al m³ (8250 euro in tutto). “Non c’è bisogno di essere geni in matematica per capire che, anche con economie di scala, ma tenendo conto del costo dei dipendenti, degli affitti, dell’elettricità, se si seguono le vie legali è un’attività a perdere. Ai giorni nostri, a Moldovița, non è possibile lavorare legalmente”.

È per questo che gli imprenditori si ritrovano a dover acquistare ufficialmente legname danneggiato e poi, tramite mazzette, ad acquistare anche legname fresco a 45 euro il m³, cioè la metà del prezzo di mercato. Un circolo vizioso confermato dal titolare di una delle aziende che sfruttano il bosco a Moldovița: “Se si fanno le cose in modo legale non si ha alcuna possibilità di sopravvivere, occorre chiudere l'azienda”. La diffusione di questo sistema parallelo ha infatti condizionato il prezzo del legname fresco sul mercato ufficiale. Il prezzo di mercato non è quindi un prezzo “reale”, economicamente sostenibile per gli attori coinvolti, ma un prezzo influenzato dal mercato parallelo delle mazzette. Due anni fa Tiberiu Boșutar ha riunito tutti coloro che si occupano di risorse boschive della regione per tentare di convincerli a rompere insieme questo circolo vizioso. Senza successo. I titolari di queste aziende non intendevano o non potevano uscire dal sistema della corruzione ed hanno continuato ad acquistare legno illegalmente.

Quando un estraneo entra nel bosco, tutti i suoi movimenti vengono controllati. Durante la nostra inchiesta siamo stati sorvegliati. Un giorno, l'intimidazione è arrivata diretta. Un 4x4 ha tamponato intenzionalmente la nostra macchina. Un uomo è uscito chiedendo: “Perché filmate il bosco?”, “Siamo giornalisti, siamo in un luogo pubblico, abbiamo il diritto di filmare”. Gli abbiamo chiesto il nome, non ci ha risposto. Abbiamo poi indagato. Si trattava di Simion Chiruț. È il titolare di un'azienda forestale e noi stavamo filmando un suo deposito. Ma è anche consigliere comunale nel municipio di Frumosu, confinante con Moldovița, e membro del PNL.

Anche a Frumosu sono in atto deforestazioni illegali e chi prova ad allertare le autorità riceve minacce. “Lui [Simion Chiruț] è arrivato qui con alcuni uomini e ha detto che stavamo terrorizzando Suceava con i nostri controlli, le nostre denunce e le foto che facevamo nel bosco... e ci hanno presi a bastonate”. I fratelli Dumitru e Ilie Bucșă sono stati aggrediti nel bosco dopo aver denunciato l'inquinamento di un fiume della zona causato dalla deforestazione illegale.

[...]

Quando si tratta però del business del legname il colore politico sembra contare poco e la competizione tra partiti appare sospesa. A livello locale, è però il PNL che domina il paesaggio politico in Transilvania dove si trovano la maggior parte dei boschi in Romania.

Molti sindaci dei comuni della zona possiedono, tramite l'intermediazione di un membro della loro famiglia, un'azienda coinvolta nello sfruttamento del legname. Oltre al sindaco di Moldovița, Traian Ilie, è il caso ad esempio dei sindaci di Vatra Moldoviței (Virgil Saghin, PNL) e di Sadova (Mihai Constantinescu, PNL).

In questa regione sono i “forestali” a tenere alta la bandiera del partito. Gheorghe Flutur, presidente del Consiglio generale di Suceava e vice-presidente del PNL ha cominciato la sua carriera politica mentre dirigeva il distretto forestale di Suceava. Non è certo una coincidenza. Nei comuni che hanno sui loro territori ricche foreste i “forestali” vivono ascese politiche molto rapide. La loro influenza non è però utilizzata per la protezione del patrimonio naturale comune ma nell'arricchimento in affari privati che iniettano denaro anche nelle casse dei partiti politici. “E questi soldi non vanno certo alla gente dei villaggi”, assicurano dei boscaioli, a condizione di anonimato.

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Dopo l'inchiesta: dimissioni, un omicidio e pestaggi

La pubblicazione dell'inchiesta ha avuto varie conseguenze. Georgel Zlei ha dato le dimissioni. Romsilva e il suo direttore Gheorghe Mihăilescu, si sono impegnati per bloccare il “metodo dell'addizione”. La guardia forestale di Suceava ha annunciato controlli nei magazzini delle aziende nominate dall'inchiesta di Recorder.

Il ministero dell'Acqua e delle Foreste ha aperto una propria inchiesta. L'Asociația Moldovița di Tiberiu Boșutar ha ricevuto l’autorizzazione d'installare camere di videosorveglianza lungo i sentieri forestali. Per quanto riguarda l'aggressione e le minacce di morte alla guardia forestale Răzvan Cenușă quest'ultimo l'ha così spiegato: “Sono stato picchiato perché è a causa mia che Georgel Zlei se ne è dovuto andare e ora vi sono controlli nei boschi”. Tiberiu Boșutar analizza: “La partenza di Georgel Zlei non va giù al clan del comune e vi sono dunque ripercussioni. Perché chiunque apre la bocca subisce delle conseguenze a Moldovița”.


Le 16 ottobre scorso, dopo la pubblicazione di questa inchiesta di Recorder, Liviu Pop, una guardia forestale del Maramureș, è stato ucciso a colpi di fucile da caccia essendo intervenuto durante un taglio illegale di legname. È la seconda guardia forestale uccisa nel mese di ottobre. Il giorno dopo dell'omicidio è toccato a Răzvan Cenușă, guardia forestale che viene nominata nell'inchiesta di Recorder, essere picchiato e minacciato di morte da una famiglia che sfrutta il bosco a Moldovița.


https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-la-corsa-all-oro-verde-26214

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #313 il: Novembre 03, 2019, 01:27:00 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-Russia-esercitazioni-militari-e-dilemmi-politici-197663

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Serbia-Russia, esercitazioni militari e dilemmi politici

Una recente esercitazione militare tra Belgrado e Mosca ha portato in Serbia il sistema missilistico russo S-400, una mossa che ha destato una certa preoccupazione nei paesi della regione. Che intenzioni ha il presidente Vučić?

31/10/2019 -  Dragan Janjić Belgrado
La scorsa settimana la Russia ha inviato il suo sistema missilistico S-400 in Serbia ed è stata la prima volta che questo sistema è stato impiegato in un’esercitazione militare all’estero. Il sistema è stato trasferito in Serbia per partecipare ad un’esercitazione militare congiunta russo-serba intitolata “Slavic Shield 2019”. All’esercitazione ha partecipato anche il sistema missilistico Pantsir S-1, che la Serbia ha già acquistato dalla Russia, ma questo sistema non ha attirato particolare attenzione perché ha un raggio d’azione inferiore rispetto a quello del sistema S-400. L’arrivo del sistema S-400 in Serbia ha destato preoccupazione nell’intera regione, nonostante in questo momento sia poco probabile che la Serbia acquisti questo sistema.

Un battaglione di S-400 costa circa 600 milioni di euro, cifra che corrisponde all’intera somma che negli ultimi anni la Serbia ha speso per l’acquisto di armamenti di produzione nazionale ed estera. Anche se la Russia decidesse di regalare alla Serbia il sistema S-400, è difficilmente immaginabile che l’Occidente permetta che questo sistema venga definitivamente trasferito in Serbia. Il sistema S-400 ha un raggio d’azione di circa 400 chilometri, quindi se dovesse essere dispiegato in Serbia potrebbe penetrare profondamente nello spazio aereo dei paesi vicini, e la NATO sicuramente non resterebbe indifferente di fronte a una sfida di questo tipo.

La divisione del sistema S-400 che è stata trasferita in Serbia per le esercitazioni verrà riportata in Russia, ma la preoccupazione e gli interrogativi che questa operazione ha suscitato nella regione resteranno. L’esercitazione russo-serba si è svolta alcuni giorni dopo che il Consiglio europeo ha deciso di rinviare ancora una volta l’avvio dei negoziati di adesione con la Macedonia del Nord e l’Albania, una decisione che ha suscitato preoccupazione anche nei paesi dei Balcani occidentali che ormai da tempo hanno aperto i negoziati con l’UE. In tale atmosfera si specula con sempre maggiore insistenza su un possibile rafforzamento dei rapporti tra Belgrado e Mosca, ovvero sulla possibilità che la Russia aumenti la sua influenza nella regione.

Dilemmi
Secondo alcuni analisti, il presidente serbo Aleksandar Vučić si trova di fronte ad un dilemma: proseguire sulla strada dell’integrazione europea o cercare un’altra via? La prima alternativa sarebbe sicuramente quella di rafforzare i rapporti con Mosca, soprattutto tenendo conto del fatto che molti cittadini serbi provano affetto per la Russia e che l’80% di loro è contrario all’ingresso della Serbia nella NATO. Quindi, ci sono i presupposti per un’eventuale virata di Belgrado verso Mosca che sarebbe appoggiata da una parte dell’elettorato serbo.

Nell’ottica della NATO, la summenzionata esercitazione militare durante la quale è stato usato il sistema S-400 è finora la più chiara dimostrazione della volontà di Belgrado di avvicinarsi ulteriormente a Mosca, dopo vent’anni di insistenza sulla neutralità militare e su una politica di equidistanza tra l’Occidente e la Russia. Se in passato la comunità internazionale aveva creduto che la Serbia perseguisse davvero una politica di neutralità militare, ora sarà difficile per la Serbia dare prova di questa neutralità. Tuttavia non vi è alcun chiaro indizio che Vučić sia davvero disposto a compiere una virata verso Mosca e a rinunciare all’obiettivo dichiarato di proseguire sulla strada dell’integrazione europea.

Nella peggiore delle ipotesi, Vučić potrebbe cercare di sfruttare la recente esercitazione militare russo-serba per inviare un messaggio alle potenze occidentali e per dimostrare di essere disposto a cambiare la sua politica nel caso in cui l’Occidente dovesse continuare a fare pressione sulla Serbia in merito alla risoluzione della questione del Kosovo. In realtà, l’economia serba, compresa l’industria delle armi, dipende in larga parte dall’UE e da altri paesi occidentali, per cui un’eventuale rottura dei rapporti tra la Serbia e l’Occidente provocherebbe forti turbolenze nel paese, sia economiche che politiche.

Se questo scenario dovesse verificarsi, la Russia sarebbe costretta a impiegare ingenti risorse per garantire la stabilità della Serbia, che Mosca considera come il suo principale alleato nei Balcani. La maggior parte degli analisti di Belgrado ritiene che Mosca non sia disposta ad assumersi un tale impegno, soprattutto se dovesse prolungarsi nel tempo, e che le autorità di Belgrado ne siano perfettamente consapevoli. Quindi, Vučić e la coalizione di governo devono fare molta attenzione a non compiere mosse rischiose che potrebbero mettere a repentaglio l’attuale equilibrio di potere nella regione. In parole povere, l’arrivo del sistema S-400 in Serbia è stato ben sfruttato dalla leadership al potere per i propri interessi politici, ma potrebbe inficiare la posizione della Serbia a livello internazionale.

Conquista dei consensi
Tutto sommato, le principali motivazioni alla base della decisione di Vučić di organizzare la summenzionata esercitazione militare sono di carattere politico, ma non riguardano la politica estera della Serbia, bensì quella interna. Vučić sta cercando di accattivarsi le simpatie di quella parte dell’elettorato serbo (e dell’opinione pubblica in generale) che nutre forti sentimenti filorussi e che ha interpretato la recente esercitazione militare russo-serba come un tentativo da parte di Mosca di rimediare al mancato appoggio e aiuto militare che la Serbia si aspettava di ottenere dalla Russia durante i bombardamenti della NATO del 1999. Si cerca di fare credere all’opinione pubblica serba che oggi la posizione della Serbia a livello internazionale sia molto migliore rispetto a vent’anni fa e che Vučić sia in grado di mantenere buoni rapporti sia con l’Occidente che con la Russia e di tenere sotto controllo la situazione nel paese.

Sta di fatto che la coalizione di governo, guidata da Vučić e dal suo Partito progressista serbo (SNS), conta sull’appoggio di quella parte della popolazione che nutre tradizionalmente sentimenti filorussi e non vede di buon occhio l’Occidente, soprattutto dopo i bombardamenti del 1999. La leadership al potere alimenta in continuazione questi sentimenti attraverso una campagna mediatica in cui si insiste sul fatto che alcune potenze occidentali vogliono rovesciare Vučić o che persino stanno organizzando il suo omicidio, mentre Mosca e il presidente russo Vladimir Putin sarebbero pronti a difendere la Serbia. Anche l’arrivo del sistema S-400 in Serbia è stato sfruttato ai fini di questa campagna mediatica, non solo da parte dei tabloid, ma anche da parte di molti esponenti della coalizione al governo.

Vučić ha bisogno di campagne mediatiche di questo tipo perché rappresentano un potente strumento per mantenere il consenso degli elettori di orientamento nazionalista in un momento in cui si parla con sempre maggiore insistenza delle imminenti concessioni che Belgrado dovrà fare nei confronti di Pristina, compreso un eventuale riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo. L’obiettivo della leadership al potere è quello di convincere l’elettorato di orientamento nazionalista che non cederà alle pressioni dell’Occidente e ai suoi tentativi di “sottrarre il Kosovo” alla Serbia. Questa strategia del governo di Belgrado va a vantaggio di Mosca perché le consente di aumentare la propria influenza in Serbia, senza dover impiegare grandi risorse finanziarie né di altro tipo.

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #314 il: Novembre 03, 2019, 01:40:52 am »
C'è poco da fare, la gente dell'Est non rispetta gli italiani.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.