Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 76510 volte)

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Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #315 il: Novembre 03, 2019, 01:48:35 am »
C'è poco da fare, la gente dell'Est non rispetta gli italiani.

Beh, parlando a titolo personale, nemmeno io rispetto loro.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #316 il: Novembre 28, 2019, 18:51:25 pm »
Dice l'italian medio:
"Solo in Italia accadono certe cose!"

Certo, come no.

https://www.eastjournal.net/archives/101054

Citazione
SERBIA: Il ministro delle Finanze ha copiato la tesi di dottorato
Marco Siragusa 24 ore fa


Un nuovo, ennesimo, scandalo travolge il governo di Ana Brnabić. Questa volta a finire sotto l’occhio del ciclone è il ministro delle Finanze, ed ex sindaco di Belgrado, Siniša Mali. Già coinvolto in diverse inchieste riguardanti evasione fiscale, proprietà immobiliari nascoste, rapporti con la criminalità organizzata, nonché lo scandalo “Savamala”, il ministro deve ora fare i conti con la decisione finale sull’accusa di plagio della sua tesi di dottorato.

Il caso

Nel 2014 il sito Peščanik pubblicò un articolo di Raša Karapandža in cui si denunciava l’allora sindaco di Belgrado ed ex assistente del ministro della privatizzazione Siniša Mali di aver plagiato la sua tesi di dottorato. L’autore, professore di finanza all’European Business School (EBS) di Wiesbaden in Germania, sosteneva di non aver “mai incontrato così tante copiature come nella tesi di dottorato di Mali”. La tesi, intitolata “Creating Value Through the Process of Restructuring and Privatization – Theoretical Concepts and Experiences of Serbia” ricopiava fedelmente un’altra tesi del 2001 di Stifanos Hailemariam dell’Università di Groningen. Quest’ultima trattava lo stesso argomento ma prendeva come caso studio un paese effettivamente molto simile alla Serbia per storia, struttura economica, vicinanza geografica: l’Eritrea!

Il caso è stato riaperto due anni dopo quando nell’aprile 2016 un membro dell’Accademia serba delle scienze e delle arti (SANU), Dušan Teodorović, riferì di esser entrato in possesso della tesi e di considerarla “un terribile plagio”. Per ben due volte, nel 2017 e nel febbraio 2019, gli esiti delle inchieste condotte da due differenti Commissioni sono stati screditati: la prima volta dal Senato Accademico per vizi formali, la seconda dal Comitato etico professionale dell’Università di Belgrado per risultati “incompleti, poco chiari e contraddittori”.

Le proteste degli studenti

Il 13 settembre un gruppo di studenti appartenenti al movimento “1 od 5 miliona” ha occupato il rettorato dell’Università di Belgrado per chiedere le dimissioni di Mali, del ministro dell’Educazione Mladen Šarčević e del ministro dell’Interno Nebojša Stefanović, anch’egli accusato di aver copiato la propria tesi di dottorato.
Durante i 12 giorni di occupazione non sono mancati momenti di tensione tra gli occupanti e i sostenitori del Partito Progressista Serbo (SNS) al governo. Il blocco si è poi concluso con la promessa da parte della rettrice Ivanka Popović di una nuova inchiesta e di una definitiva decisione sulla vicenda del dottorato di Mali entro il 4 novembre.

La decisione finale

In effetti una decisione è stata presa entro quella data ma rinviata di 15 giorni per garantire il diritto al ricorso. Il 21 novembre la svolta decisiva. Il Comitato etico ha stabilito all’unanimità che il ministro “ha letteralmente preso testi o interi passaggi dai testi di altri autori senza citarli” violando l’articolo 22 del Codice etico professionale. Mali ha commentato affermando di sapere di non aver copiato la propria tesi e che questo scandalo rappresenta solo un attacco politico nei suoi confronti.

La decisione è stata anche accompagnata da una manifestazione del movimento “1 od 5 miliona” per ribadire con forza la richiesta di dimissioni del ministro mentre il presidente Aleksandar Vučić, messo alle strette anche da altri scandali che riguardano i vertici del paese, ha dichiarato che “Mali deve pagare un prezzo politico”. Non è la prima volta che Mali si ritrova a dover “pagare”. Nel giugno 2016 il presidente Vučić, riferendosi alla demolizione illegale di due vecchi edifici avvenuta la notte tra il 24 e il 25 aprile 2017 nel quartiere Savamala, disse che dietro il caso “ci sono i più alti funzionari della città e pagheranno le conseguenze legali”. In quel momento Mali ricopriva la carica di sindaco della capitale. Due anni dopo, fu “costretto” ad abbandonare quel ruolo per essere promosso a ministro delle Finanze.

Questa storia mostra tutta l’ipocrisia di un sistema politico che si vuole presentare come credibile e soprattutto competente. Come può un ministro che ha imbrogliato sui suoi titoli essere garanzia del corretto utilizzo delle finanze statali? Qui non si vuole sostenere l’idea secondo cui solo chi possiede i “titoli” può guidare la macchina statale. Certo, sarebbe opportuno che un ministro delle Finanze fosse in grado di muoversi con disinvoltura tra bilanci, numeri, leggi finanziarie. E che soprattutto, nel caso specifico, fosse in grado di analizzare i risultati delle politiche pubbliche senza scopiazzare quelli di qualcun altro sull’Eritrea. Qui il problema è che il “titolo” viene, troppo spesso, equiparato immediatamente alla “competenza” e solo chi possiede un pezzo di carta può ambire a posizioni di comando. Poco importa se il titolo è stato acquistato o ottenuto copiando la propria tesi. In Serbia oggi, i titoli che garantiscono i posti migliori nell’apparato dello stato sono quelli di “stretto collaboratore” e “amico” del presidente-padrone, Aleksandar Vučić. E nel lungo curriculum di Siniša Mali sono presenti entrambi.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #317 il: Novembre 28, 2019, 18:59:45 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Europa/Femminicidio-in-Europa-due-anni-dopo

Citazione
Femminicidio in Europa, due anni dopo
26 novembre 2019

Nel 2017 EDJNet faceva il punto  sulla violenza di genere in Europa, ricercando e soppesando vari indicatori. Il primo ostacolo contro cui si scontrò l’analisi fu l’assenza di dati: alcuni paesi membri dell’Unione Europea non riconoscono il femminicidio come categoria di reato e, per questo, non raccolgono dati a riguardo.

Dal 2017 Cipro, Grecia e Romania hanno cominciato a fornire statistiche relative alla “uccisione intenzionale di una donna per aver trasgredito al proprio ruolo di genere”. Ma in dieci paesi membri continuano a non esserci dati disponibili.


Stando agli ultimi dati disponibili su Eurostat, sono stati commessi 751 femminicidi nel 2017 in Europa. Questo significa che, in media, una donna ogni 250mila è stata uccisa dal proprio partner o da un familiare. L’incidenza di questo reato risulta essere calata del 18% rispetto al 2015, sebbene i reati siano cresciuti in numeri assoluti. A spingere verso il basso la media europea sono, in particolare, il Montenegro (-66%), l’Italia (-60%) e il Nord Macedonia (-54%) mentre, al contrario, Lettonia e Regno Unito registrano un aumento del 50%.

Prendendo in considerazione i casi di omicidio intenzionale, si conferma quanto emerso già nella precedente analisi: l’andamento è decrescente tra gli uomini (meno quattro punti percentuali tra il 2015 e il 2017) e crescente tra le donne (più 14 punti percentuali nello stesso periodo).

La Convenzione di Istanbul  , voluta dal Consiglio d’Europa e in vigore dal 2014, è il primo strumento legale che vincola gli stati europei all’attuazione di misure preventive e punitive contro la violenza di genere, incoraggiando anche al miglioramento della raccolta di dati utili al suo monitoraggio. Sette paesi membri dell’UE non hanno ancora ratificato l’accordo: Bulgaria, Lettonia, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca e Ungheria

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network   ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #318 il: Dicembre 01, 2019, 00:28:12 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-il-regime-vuole-mettere-a-tacere-ogni-voce-critica-198226

Citazione
Serbia: il regime vuole mettere a tacere ogni voce critica

L'ennesimo caso in Serbia di gogna mediatica. Sotto il mirino dei tabloid belgradesi, legati agli appartati di governo, è finito il giornalista della Tv N1 Miodrag Sovilj. La sua "colpa"? Aver fatto domande pertinenti al presidente Vučić

29/11/2019 -  Saša Kosanović
(Originariamente pubblicato dal portale Novosti, il 24 novembre 2019)

Miodrag Sovilj, giornalista dell’emittente televisiva N1 Serbia, è recentemente finito nel mirino dei tabloid serbi dopo aver fatto una domanda al presidente Aleksandar Vučić sul presunto coinvolgimento di Branko Stefanović, padre del ministro dell’Interno Nebojša Stefanović, nel traffico illecito di armi. Lo scandalo del traffico di armi è scoppiato quando si è saputo che l’azienda privata GIM, legata a Branko Stefanović, aveva acquistato armamenti a prezzi di favore dall’azienda statale Krušik, per poi venderli agli Emirati Arabi Uniti. I tabloid serbi, ma anche alcuni rappresentanti del potere, hanno insinuato che il presidente Vučić si sia sentito male, avvertendo un improvviso dolore al petto, propria a causa della domanda rivoltagli da Sovilj. Vučić è stato poi trasferito all’ospedale dove è stato trattenuto in osservazione per qualche giorno. La gogna mediatica contro Miodrag Sovilj è parte integrante di una campagna denigratoria che ormai da anni viene condotta contro l’emittente N1, uno dei pochi media serbi che non sono controllati dal partito di governo.

Come commenta le accuse secondo cui la sua domanda sul presunto coinvolgimento del padre del ministro dell’Interno nel traffico illecito di armi avrebbe portato il presidente Aleksandar Vučić sull’orlo dell’infarto?

Questa è probabilmente l’affermazione più bizzarra che io abbia mai sentito sui media di regime, e non è cosa da poco perché il mio lavoro consiste, tra l’altro, nel leggere i tabloid serbi, e devo ammettere che ho letto davvero tante interpretazioni diverse dell’accaduto. Le accuse che mi sono state rivolte sono completamente assurde - per usare un eufemismo - e sarebbe stato più appropriato se fossero state pubblicate su un portale satirico, ma purtroppo non è uno scherzo, bensì la realtà che dovranno essere pronti ad affrontare tutti quelli che intendono porre domande di interesse pubblico al presidente. Tuttavia, la manipolazione mediatica è un fenomeno complesso e, per quanto possa rappresentare un insulto all’intelligenza, in questo specifico caso ha raggiunto il suo obiettivo iniziale: distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle domande che avevo rivolto al presidente riguardanti il sospetto coinvolgimento del padre del ministro dell’Interno nel traffico di armi.

Quanto è pericoloso occuparsi di giornalismo oggi in Serbia per quei giornalisti che sono presi di mira dal regime? Lei teme per la propria incolumità?

Non è certo una sensazione piacevole, perché ormai da giorni, dalla mattina alla sera, ovunque mi giri sento citare il mio nome nei più vari contesti. In un paese come la Serbia, la cui storia è segnata da orribili omicidi di giornalisti, la prudenza non è mai troppa. Ciò a cui assistiamo qui è un classico attacco, questo è più che evidente. Tuttavia, a prescindere dal fatto che si tratti di una mia strategia anti-stress o meno, in questo momento non sono tanto intimorito quanto stupefatto nel constatare fin dove sono disposte a spingersi “le unità speciali” del regime.

Un database sulla libertà dei media
Di giornalisti minacciati, concentrazione dei media e quadro legislativo dei principali paesi dell'Europa e dei Balcani, si occupa il Media Freedom Resource Centre, un'attività di studio e analisi di Osservatorio nell'ambito di un progetto europeo in partnership con ECPMF

Oltre a questa gogna mediatica contro di lei, ormai da anni viene portata avanti una campagna denigratoria contro l’emittente N1 e altri media critici nei confronti del governo. Secondo lei, qual è l’obiettivo principale di questa offensiva mediatica intrapresa dal Partito progressista serbo (SNS)?

La gogna mediatica contro l’emittente N1 è iniziata subito dopo la sua fondazione cinque anni fa, ed è diventata una costante. Ma ciò non significa che ci siamo abituati a questa situazione, anzi è una fonte di frustrazioni quotidiane per me e i miei colleghi. Cerchiamo solo di svolgere il nostro lavoro rispettando le regole deontologiche della professione. L’obiettivo finale degli attacchi ai media non allineati è quello di sopprimere o almeno indebolire ogni voce critica nei confronti del partito di governo. Questo progetto viene portato avanti con successo ormai da molti anni e temo che i media che si rifiutano di piegarsi saranno sottoposti a pressioni sempre più forti.

Qualche tempo fa lei ha invitato il presidente Vučić a smettere di attaccare l’emittente N1 e di smettere di bollarla come “emittente di Đilas”. Pare che la sua richiesta non abbia sortito alcun effetto…

Tecnicamente sì, perché da allora il presidente, pur con qualche eccezione, generalmente si astiene dall’usare suddetta espressione. Nella sostanza, però, non è cambiato nulla perché Aleksandar Vučić e i suoi più stretti collaboratori hanno semplicemente trovato nuove espressioni per screditare l’emittente N1. Prima eravamo un’emittente “americana”, “della CIA”, “di Đilas”, ora ci chiamano un’emittente “lussemburghese”. Sui volantini che alcune persone che indossavano mascherine chirurgiche sul viso hanno recentemente lasciato nel cortile davanti alla sede dell’emittente N1 c’erano scritte alcune frasi che alludevano proprio agli epiteti che i più alti funzionari dello stato usano per screditare la nostra emittente.

È d’accordo con l’affermazione secondo cui i tabloid serbi come Informer, Kurir, Telegraf, fungerebbero da portavoce del regime, nonché da sorta di fanteria d’assalto che la leadership al potere usa per attaccare tutti gli oppositori politici?

È difficile non essere d’accordo con questa affermazione. Le campagne denigratorie lanciate da questi tabloid sono sempre sincronizzate, con contenuti quasi identici, con interviste agli stessi interlocutori, e persino con l’identica veste grafica, e vengono condotte esclusivamente contro gli individui, le organizzazioni e i media che hanno un atteggiamento critico nei confronti del partito al governo. Ma non si tratta solo di tabloid. Dopo il recente acquisto di diverse emittenti televisive a copertura nazionale da parte di alcune persone vicine all’SNS, i telegiornali di queste emittenti sono diventati quasi identici, con la stessa organizzazione del programma, e a volte persino con gli stessi servizi firmati da diversi giornalisti. Analizzando i programmi di approfondimento informativo di queste emittenti, sembra che tutti siano creati dalla stessa persona.

La Serbia ha lo status di paese candidato all’adesione all’UE. Vi siete rivolti alle organizzazioni internazionali per chiedere aiuto? Avete ricevuto l’appoggio da qualcuno?

N1 informa costantemente le associazioni internazionali delle minacce e pressioni ricevute e tutte le maggiori organizzazioni di tutela dei giornalisti ci hanno sempre fornito il loro sostegno, compresi Reporter senza frontiere, Freedom House, il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) e molti altri. Le parole di sostegno certamente contano, ma viene da chiedersi se possano produrre alcun effetto concreto perché gli attacchi alla nostra redazione non accennano a fermarsi.

 
Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #319 il: Dicembre 03, 2019, 18:51:49 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-l-elite-al-potere-travolta-dagli-scandali-198277

Citazione
Serbia: l’élite al potere travolta dagli scandali

In quest’ultimo periodo in Serbia si affastellano scandali su scandali che vedono coinvolti ministri del governo in carica. Il potere però cerca di minimizzarne la portata e di mettere a tacere i media che non controlla

03/12/2019 -  Dragan Janjić Belgrado
La scorsa settimana, durante un dibattito in parlamento, la premier serba Ana Brnabić ha dichiarato che suggerirà ai ministri del suo governo di non rispondere alle domande sullo “scandalo Krušik”, definendolo uno scandalo “montato”, e di replicare a domande di questo tipo citando dati sui “risultati del governo”. Questa affermazione lascia intendere che la premier e il governo serbo siano disposti a fornire ai giornalisti (che sono anche rappresentanti dell’opinione pubblica) solo quelle informazioni che gettano una luce positiva sull’operato del governo, ignorando tutte le domande che potrebbero metterli in imbarazzo.

La tendenza del potere esecutivo a eludere domande scomode non è certo una novità, ed è presente anche nelle democrazie più consolidate, dove però i rappresentanti del potere non osano parlare pubblicamente della loro riluttanza a rispondere alle domande scomode. Secondo la premier serba, il ruolo dei media dovrebbe essere ridotto a quello di un semplice mezzo attraverso il quale il potere esecutivo comunica all’opinione pubblica solo ciò che vuole comunicare, e i giornalisti dovrebbero astenersi dal porre domande che potrebbero infastidire il governo. Il messaggio rivolto ai giornalisti è chiaro: chiedete pure, ma fatelo senza alzare troppo la voce ed evitando di sollevare questioni che potrebbero infastidire il potere.

Questa tendenza è, ovviamente, in netto contrasto con il ruolo che i mezzi di informazione dovrebbero rivestire nella società democratica, e potrebbe essere interpretata come un tentativo di ostacolare i media nello svolgere il loro ruolo di controllo nei confronti dell’operato del governo. Se i giornalisti dovessero stare attenti a cosa domandare ai politici il cui operato dovrebbero controllare (o se dovessero essere costretti a consultarsi con loro per concordare le domande), non sarebbero in grado di adempiere alla loro funzione di watchdog della democrazia né di servire l’interesse pubblico, e il loro unico compito sarebbe quello di esaudire i desideri e le esigenze del governo e di altri centri di potere.

Scandali
Lo scandalo Krušik – a cui la premier Brnabić ha fatto riferimento rendendo nota la sua intenzione, a dir poco insolita, di suggerire ai ministri di eludere domande scomode – è scoppiato dopo che alcuni media indipendenti hanno pubblicato una serie di documenti che dimostrano che negli ultimi anni l’azienda privata GIM che si occupa della vendita di armi, legata al padre del ministro dell’Interno Nebojša Stefanović, ha registrato un forte incremento del giro d’affari (negli ultimi tre anni il fatturato dell’azienda è aumentato di circa 3500 volte), mentre nello stesso periodo il fatturato di alcune aziende statali che operano nel settore delle armi è rimasto sostanzialmente invariato. È inoltre emerso che la fabbrica statale di armi e munizioni Krušik vendeva armamenti a prezzi di favore ad alcune aziende private, tra cui anche l’azienda GIM, consentendo loro in tal modo di generare notevoli guadagni.

Tenendo conto del fatto che il ministero dell’Interno svolge un ruolo decisivo nel rilascio delle licenze per la vendita di armi, viene da chiedersi se nella compravendita di armi tra l’azienda statale Krušik e l’azienda privata GIM si sia verificato un conflitto di interessi e se esistano canali informali attraverso i quali vengono esercitate pressioni sulle aziende statali produttrici di armi affinché vendano i loro prodotti ad alcune aziende private a prezzi di favore.

Queste domande restano per ora senza risposta. Nel frattempo, la leadership al potere ha lanciato una dura campagna mediatica, accusando tutti quelli che indagano sugli affari legati all’export di armi serbe di agire contro la Serbia, senza però fornire alcuna spiegazione concreta in merito alle informazioni contenute nei documenti sullo scandalo Krušik pubblicati dai media.

Qualche settimana fa la procura speciale per il crimine organizzato di Belgrado ha ordinato alle autorità competenti di verificare la fondatezza delle rivelazioni sugli affari sospetti dell’azienda Krušik, ma resta da vedere quanto dureranno le indagini. Vi è inoltre da chiedersi perché le autorità non abbiano reagito prima, dal momento che questa vicenda si trascina ormai da anni.

La procura ha aperto un’indagine solo dopo che le informazioni sul sospetto traffico illecito di armi hanno iniziato a trapelare in pubblico ed è diventato impossibile ignorarle. Dall’altra parte, le autorità hanno reagito con la massima prontezza quando sono venute a conoscenza del fatto che un dipendente dell’azienda Krušik, Alekasandar Obradović, ha fatto trapelare alcuni documenti sugli affari poco trasparenti dell’azienda. Obradović è stato subito arrestato con l’accusa di aver rivelato segreti commerciali, ma dopo qualche settimana, sotto la pressione dell’opinione pubblica, è stato rilasciato dal carcere e il giudice gli ha concesso gli arresti domiciliari, a cui è tuttora sottoposto.

Pressioni
Lo scandalo Krušik è solo uno dei grossi scandali che nelle ultime settimane sono stati rivelati da alcuni media serbi che non sono sotto il controllo del governo, ma anche da alcuni esponenti dell’opposizione. La recente decisione del Comitato etico dell’Università di Belgrado, che ha stabilito che il ministro delle Finanze Siniša Mali ha plagiato la sua tesi di dottorato, violando in tal modo il codice etico della professione, ha suscitato un vero e proprio terremoto politico. Siniša Mali non deve necessariamente essere in possesso di un dottorato di ricerca per ricoprire l’incarico di ministro, ma il fatto che abbia usato idee altrui senza citare la fonte lo rende meno adatto a ricoprire questa posizione.

Anche il ministro dell’Interno Nebojša Stefanović, principale protagonista dello scandalo del traffico di armi, è sottoposto a forti pressioni a causa delle accuse di aver falsificato i suoi titoli di studio. Anche Stefanović ha conseguito un dottorato di ricerca (la cui autenticità è stata messa in dubbio da numerosi accademici serbi), ma non è nemmeno chiaro se e come abbia finito la scuola superiore, né presso quale università abbia studiato. Il governo ha reagito duramente alle accuse rivolte ai due ministri, lanciando un’ampia campagna denigratoria contro tutti quelli che indagano su questi e altri scandali, attaccando persino l’Università di Belgrado.

La coalizione di governo sostiene che la decisione dell’Università di Belgrado sull’accusa di plagio della tesi di dottorato del ministro Siniša Mali sia una decisione politica, e alcuni deputati del parlamento serbo hanno persino chiesto le dimissioni della rettrice Ivanka Popović. Dal momento che circa l’80% dei cittadini serbi si informa attraverso i media mainstream – che riproducono fedelmente la narrazione imposta dal regime – , la maggioranza della popolazione ha una percezione distorta di suddetti scandali e sono in molti a credere che dietro a questi scandali si celino intenzioni malvagie dell’opposizione e di alcuni media, che vengono bollati come “mercenari al soldo degli stranieri” e accusati di voler danneggiare la Serbia e il presidente Aleksandar Vučić.

Tutto questo accade in un momento in cui l’opposizione serba è sottoposta a pressioni sempre più forti – sia da parte del governo che della comunità internazionale – affinché rinunci all’intenzione di boicottare le prossime elezioni politiche previste per la primavera 2020 e si accontenti della promessa, fatta dal governo, che le prossime elezioni si svolgeranno in condizioni eque.

L’atteggiamento della premier Brnabić e di altri rappresentanti del potere nei confronti degli scandali di cui sopra, e la loro percezione del ruolo dei media hanno sicuramente un effetto scoraggiante sulle forze di opposizione. Se gli esponenti del governo sono capaci di dichiarare pubblicamente di non essere disposti a rispondere alle domande scomode e se un’istituzione come l’Università di Belgrado può finire così facilmente nel mirino della leadership al potere, che cosa si devono aspettare l’opposizione e altri oppositori del governo durante la campagna elettorale?

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #320 il: Dicembre 07, 2019, 17:37:56 pm »
Fosse accaduto in Italia sarebbe scoppiato l'inferno mediatico e non.
Non parliamo poi di tutti quelli che avrebbero sentenziato, con tono compiaciuto, che
"certe cose accadono solo in Italia".

Certamente, senza alcun dubbio.
...

https://www.eastjournal.net/archives/101281

Citazione
Croazia: L’assurda storia dei due sportivi nigeriani espulsi dalla polizia croata
Marco Siragusa 15 minuti fa

Articolo originariamente pubblicato su Nena-News

Immaginate due atleti che arrivano in un paese europeo con tanto di passaporto e regolare visto per partecipare a un torneo internazionale. Immaginate che, dopo la fine del torneo, i due ragazzi decidano di visitare la capitale di quel paese, ma invece di prendere il volo che li riporta a casa vengano prelevati dalla polizia e respinti illegalmente in un paese non appartenente all’Unione Europea.

Se non si trattasse di una storia vera, con in gioco la dignità e la vita di due giovani ragazzi, si potrebbe pensare a una sceneggiatura degna delle peggiori commedie poliziesche. Purtroppo la vicenda che ha visto coinvolti due atleti nigeriani, Abia Uchenna Alexandro ed Eboh Kenneth Chinedu, è tutt’altro che comica e ci mostra, se ce ne fosse ancora bisogno, il razzismo istituzionale che infetta la “democratica e accogliente” Europa.

Abia ed Eboh giungono a Pula, in Croazia, lo scorso 12 novembre per partecipare alla quinta edizione del World InterUniversities Championships, un torneo internazionale di ping-pong con oltre 2mila partecipanti che si è svolto tra il 13 e il 17 novembre. Concluso l’evento, i giovani decidono di passare due giorni nella capitale Zagabria prima di ripartire per il loro paese. Abia ed Eboh, però, l’aereo di ritorno non l’hanno mai preso.

La sera prima della partenza, mentre passeggiavano per la città, i due ragazzi vengono fermati dalla polizia, evidentemente insospettita dal colore della loro pelle. Più volte i ragazzi provano a spiegare che i loro documenti si trovano nell’ostello dove soggiornano ma, invece di recarsi sul luogo e controllare, gli agenti decidono di portarli in commissariato. Da lì, Abia ed Eboh venivano caricati con altri ragazzi su un furgone e portati nei boschi al confine con la Bosnia. Secondo quanto dichiarato dai due, al rifiuto di scendere dal furgone uno degli agenti ha minacciato di sparargli, dopo ovviamente aver tolto loro i soldi a disposizione. Solo a quel punto si sono incamminati nelle innevate montagne bosniache verso il centro di accoglienza Miral di Velika Kladuša.

A distanza di oltre due settimane, i giovani, assistiti dalle organizzazioni presenti sul territorio, si trovano ancora nel centro dove nel frattempo è in corso uno sciopero della fame contro le disastrose condizioni umanitarie. La notizia è stata diffusa solo il 3 dicembre, grazie al giornale bosniaco Žurnal, e ha scatenato numerose polemiche in Croazia e Bosnia. In un’intervista rilasciata ad Al Jazeera, il ministro della Sicurezza della Bosnia-Erzegovina Dragan Mektić ha parlato di un vero e proprio “atto illegale da parte della Croazia” affermando che i due ragazzi verranno presto riportati in quel paese.

Completamente diversa la posizione espressa dalla polizia croata in una nota secondo cui nessun agente ha preso in carico Abia ed Eboh che, invece, si sono diretti autonomamente verso una destinazione sconosciuta. Pur negando qualsiasi comportamento contrario alle norme vigenti, la polizia ha tenuto a specificare, in quella che sembra una vera e propria accusa indiretta, come spesso la partecipazione a eventi sportivi venga utilizzata a pretesto per poi continuare illegalmente il proprio viaggio e far domanda per l’ottenimento dello status di rifugiato.

Nonostante il tentativo di auto-assoluzione, la polizia croata è ormai sempre più tristemente famosa per i comportamenti violenti e illegali (questi sì) nei confronti dei migranti. Come già raccontato dal nostro giornale, sono ormai migliaia le denunce di violenze esercitate dalla polizia al confine croato-bosniaco.

La vicenda di Abia ed Eboh va però ben oltre. Non si tratta infatti “solo” di violazioni delle norme contro i respingimenti e dei diritti umani basilari ma mostra con estrema brutalità il profondo clima di razzismo ormai diffuso in Croazia e nel resto d’Europa. Un razzismo ancora più grave in quanto esercitato e fomentato senza vergogna dalle istituzioni e dalle forze di polizia nell’assordante silenzio di un’Unione Europea che nelle prossime settimane dovrebbe definitivamente accogliere Zagabria nell’area Schengen.

Dal mese di gennaio, inoltre, la Croazia assumerà la presidenza di turno dell’Ue per i prossimi sei mesi. Una condanna netta per i metodi usati alle frontiere europee e un radicale cambio di prospettiva, culturale e politica, sembrano quindi tutt’altro che immediati.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #321 il: Dicembre 07, 2019, 17:41:14 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/101186

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RUSSIA: La Calmucchia in piazza contro i giochi di palazzo
Marco Limburgo 19 ore fa

Non accenna a placarsi l’onda lunga della mobilitazione popolare che da almeno tre mesi sta interessando la città di Elista, capitale della Calmucchia, soggetto federale della Russia situato in prossimità del Caucaso Settentrionale. In diverse occasioni, prima centinaia poi migliaia di manifestanti si sono riversati nella centrale Piazza della Vittoria per protestare contro quella che percepiscono come un’insostenibile intromissione di Mosca nella politica regionale. L’oggetto del contendere è la nomina a sindaco della città di Dmitrij Trapeznikov, ex leader della Repubblica separatista di Donetsk nell’est dell’Ucraina. L’endorsment per tale carica gli è dovuto al patrocino di Batu Khasikov, kickboxer di fama mondiale e governatore della Repubblica di Calmucchia.

A scatenare la frustrazione e le proteste (piuttosto insolite e partecipate in questo angolo di Russia) la promozione eterodiretta di un individuo sostanzialmente estraneo alle dinamiche politiche della repubblica abitata in prevalenza dall’omonimo gruppo etnico di fede buddista ed etnia buriata. Nativo della città russa di Krasnodar, Trapeznikov ha vissuto prevalentemente in Ucraina divenendo direttore della squadra di calcio Shakhtar Donetsk e ad interim, nel 2018, Capo di Stato della Repubblica Popolare di Donetsk in seguito all’omicidio del predecessore Aleksandr Zakharchenko. Dopo aver ricevuto la cittadinanza russa, il suo nome pare essere stato proposto per la carica di sindaco da Vladislav Surkov, ex vice primo ministro della Federazione e potente silovik dell’amministrazione Putin, finito nell’occhio del ciclone per i presunti piani di sovvertimento e destabilizzazione del governo di Kiev.  Sorpreso dalle proteste che ne hanno chiesto le dimissioni, Khasikov ha rivendicato la competenza e l’esperienza pregressa dell’aspirante sindaco in situazioni di particolari precarietà, assumendo su di sé la responsabilità della scelta.

Gli interessi di Mosca e la rabbia popolare

L’incontestato supporto del Cremlino e delle autorità locali nei confronti del contestato sindaco fanno subodorare un perverso gioco di palazzo tra i “decision maker” russi. La nomina di Trapeznikov manifesta il supporto costante e la volontà di Mosca di premiare il lealismo nei diversi teatri politici di riferimento. Posizioni governative garantite in defilati contesti provinciali in cui il potere centrale può contare sulla complicità di quadri locali fortemente allineati.

Di fronte a questo fatto compiuto, la risposta dell’opinione pubblica. Una reazione in cui confluiscono diverse matrici. Se da un lato non si può negare il contributo aggregante di un nazionalismo etnico che si nutre del risentimento calmucco nei confronti della preminenza dei quadri di etnia russa (risentimento strumentalizzato dalle autorità centrali per delegittimare la protesta), è utile considerare l’irrobustirsi nei diversi contesti politici russi dell’espressione di un dissenso sempre meno latente che attraversa la Federazione, dal centro alla negletta periferia.

Di fronte a quella che viene percepita come un’imposizione centralista di Mosca in un contesto peculiare, un frangente crescente dell’opinione pubblica si è mobilitato rivendicando l’opportunità di selezionare i propri rappresentanti in maniera democratica e in tal modo ribaltando le modalità verticali di promozione all’interno della Federazione. I calmucchi, inoltre, hanno condannato il coinvolgimento del sindaco in crimini e nefandezze nel corso del conflitto armato che ha insanguinato le regioni russofone dell’est ucraino. Da qui l’emergere di un manifesto che invoca le dimissioni non solo di Trapeznikov ma anche dell’assemblea repubblicana e di Khasikov, delegittimato nonostante la robusta vittoria ottenuta alle precedenti elezioni.

Dal Volga alla capitale

Difficile dire quanto queste proteste possano influire sul mutamento di una decisione all’apparenza incontrovertibile, ma l’emergere di una crescente disaffezione verso la disinvolta assertività delle autorità centrali dovrebbe suonare come un avvertimento, richiedendo un pragmatico cambio di passo e una minore sottovalutazione dell’espressione del dissenso nei diversi contesti regionali. Se è certamente una velleità semplicistica tracciare un filo rosso tra la protesta in Calmucchia e le massicce mobilitazioni di questa estate, è opportuno considerare come la persistenza, il radicamento e la diversificazione del dissenso costituiscano una crepa in un negletto fronte interno già ampiamente sotto stress per le difficili condizioni sociali ed economiche. Una serie di campanelli di allarme che il Cremlino non può permettersi di ignorare ulteriormente

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #322 il: Dicembre 07, 2019, 17:43:33 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/101104

Citazione
Quando la Democrazia Cristiana organizzò una mostra sull’est
Lorenzo Venuti 20 ore fa

Le elezioni politiche italiane del 1953 sono, nella memoria comune, quelle della legge truffa: il rinomato premio elettorale celebre per il turbolento iter parlamentare, e dall’aspro confronto sorto dallo stesso. Ma l’elezione del 1953 non è solo la legge truffa: attaccata su più fronti e in difficoltà dopo cinque anni di complicato governo, la DC attuò una capillare opera di propaganda incentrata sul grande tema del 1948: quello dell’anticomunismo e della scelta dicotomica tra est e ovest.

La genesi di un progetto ambizioso

Nel settembre del 1952 Giorgio Tupini, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e braccio destro di Alcide De Gasperi, scrisse a Paolo Emilio Taviani, sottosegretario al Ministero degli Esteri, chiedendo supporto per un’ambiziosa operazione di propaganda: una mostra itinerante che mostrasse in ogni angolo del paese il tenore di vita dei paesi che qualche anno prima, fra il 1948 e il 1949, erano diventati democrazie popolari. Un percorso suggestivo, pianificato in ogni dettaglio, sia sotto il punto di vista logistico, che in quello dell’allestimento scenico.

Il blocco orientale in mostra

Taviani accettò la richiesta del sottosegretario, disponendo che le varie legazioni nei paesi dell’Europa centro-orientale acquistassero beni di uso comune e poster propagandistici per circa 4 milioni di lire; gli organizzatori dell’evento – ufficialmente parte di un comitato di documentazione popolare (non governativo) – avrebbero allestito tre diverse mostre itineranti, più una quarta, fissa, a Roma. Fra il marzo e il maggio del 1953 il carrozzone propagandistico attraversò così tutto il paese, isole escluse, toccando oltre quaranta città per la maggior parte situate nel centro-nord.

Entrato nei quattro autocarri che componevano l’appuntamento, il visitatore era immerso in uno spettacolo visivo, oltre che divulgativo con altoparlanti che ripetevano in modo continuativo a basso volumi frasi come sei sempre sorvegliato, e potrebbe succedere anche in Italia. Nel frattempo lo spettatore era condotto attraverso diversi ambienti che lo scortavano nelle diverse fasi delle democrazie popolari, fra cui la presa del potere dei comunisti, gli standard di vita nel blocco socialista (attraverso l’esposizione degli oggetti) e il prezzo pagato dalla Chiesa cattolica in tutti i paesi dell’areale.

Lo scandalo

L’appuntamento romano della Mostra – ben più elaborato sotto il punto di vista dello spettacolo rispetto agli altri – era stato organizzato nei sotterranei di Roma Termini ed erano situati alcuni pannelli introduttivi sul percorso di accesso. Li, figure umane erano avvolte da filo spinato, mentre capeggiavano scritte come fra i 90 milioni di schiavi dei paesi socialisti.

Il 14 maggio 1953, qualche giorno dopo l’apertura dell’appuntamento romano, l’«Unità» uscì però con un velenoso articolo, nel quale veniva evidenziato come ben due cittadini romani si fossero riconosciuti nelle foto presenti sui pannelli introduttivi.

Lo scandalo fu enorme: costretti a ripiegare sulla difensiva, gli organizzatori non seppero ridimensionare la portata dello scandalo, nascondendosi dietro affermazioni sui numeri che la Mostra registrava a Roma grazie alla pubblicità involontaria del Partito comunista.

Conclusioni

Carrozzone propagandistico e boomerang elettorale, la Mostra dell’Aldilà consacrava agli occhi dell’elettorato italiano una nuova realtà politica, quella dell’Europa orientale. Anche la geografia del continente mostrava così il risultato della polarizzazione della Guerra Fredda, uniformando le precedenti divisioni e concettualizzazioni in uno schema bipolare.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #323 il: Dicembre 07, 2019, 17:55:11 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Balcani-sognando-un-futuro-altrove-198353

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Balcani, sognando un futuro altrove

Sono in tanti, soprattutto giovani e qualificati, a emigrare o sognare di emigrare dai Balcani verso altri paesi europei. Un fenomeno che mette a rischio interi settori dell'economia e necessita di risposte urgenti

06/12/2019 -
Majlinda Aliu,  Aleksandar Manasiev,  Aleksandra Bogdani ,  Dušan Mladjenović,  Milica Milovanović
Quasi ogni notte a Tetovo, Macedonia del Nord, pullman pieni di lavoratori migranti partono diretti in Italia, Germania e Svizzera, le principali destinazioni per i migranti macedoni.

Sui volti delle persone si legge la tristezza causata dal vuoto che le ondate migratorie stanno lasciando nella regione di Polog (Macedonia nord-occidentale). La Macedonia del Nord, tuttavia, non è un caso isolato, poiché la massiccia emigrazione delinea un futuro cupo per tutti i Balcani occidentali.

L'emigrazione di massa riguarda soprattutto i lavoratori qualificati, in particolare medici e operatori sanitari, che hanno le migliori possibilità di trovare lavoro dignitoso nei paesi dell'UE.

Insicurezza sociale, scarsa assistenza sanitaria, precarietà economica, disoccupazione e clientelismo, nonché la discriminazione nei confronti di gruppi vulnerabili come le minoranze etniche, le donne e le persone LGBT, sono le ragioni principali che spingono a lasciare i Balcani occidentali, spiega Zhivka Deleva, ricercatrice indipendente sulle migrazioni presso l'"Interkulturanstalten Westend e.V." a Berlino.

Boban Gjakov, 38 anni, è uno specialista in ginecologia e ostetricia. Nel 2011 ha lasciato Skopje e si è trasferito in Slovenia per cercare stabilità economica. "È una sensazione triste e disperata, quando sei un medico e lo stato ti butta via come spazzatura", dice.

Secondo Gjakov, trovare un lavoro dignitoso nella Macedonia del Nord richiede forti connessioni politiche. "Mi sono pagato anni di studi, e alla fine lo stipendio iniziale negli ospedali macedoni era inferiore a quello che prendevo da cameriere", racconta amaramente.

Secondo la Banca mondiale, quasi 500mila cittadini della Macedonia del Nord vivono attualmente all'estero, vale a dire il 25% della popolazione totale.

A preoccupare Dejan Nakovski, professore universitario a Skopje ed esperto di migrazioni, sono le possibili disfunzioni che l'emigrazione potrebbe portare in alcuni settori. "Questo è legato al livello di istruzione e status sociale dei migranti, ad esempio: l'emigrazione del personale medico porta a disfunzioni nell'assistenza sanitaria, l'emigrazione dei lavoratori generici porta alla carenza di manodopera nel settore industriale ecc.'', afferma Nakovski.

Emigrazione di massa anche nel vicino Kosovo
Tra il 2008 e il 2018, i paesi UE hanno rilasciato circa 245mila permessi di soggiorno per lavoro ai cittadini del Kosovo. Secondo dati EUROSTAT, quasi la metà di questi permessi è stata rilasciata dall'Italia, ma molti professionisti, in particolare nel settore sanitario, scelgono la Germania.

Vigan Roka, 32 anni, è tra i molti medici che hanno lasciato la regione. Nel 2013 è andato in Germania per la specializzazione in oftalmologia. Il motivo principale della scelta sono state le condizioni offerte dalla clinica universitaria. "Era impossibile realizzare il mio sogno di diventare un chirurgo oculista in Kosovo, quindi ho dovuto partire, con il cuore spezzato, ma molto motivato", racconta.

La tendenza è evidente: solo nella piccola città di Detmold ci sono altri sei medici che, come Roka, provengono da Gjakova, nel Kosovo occidentale.

Ancora più preoccupante è il numero di operatori sanitari e infermieri che lasciano il Kosovo. La Camera degli infermieri e professionisti sanitari del Kosovo riceve quotidianamente decine di richieste di licenze e certificati etici, documenti necessari per ottenere un visto di lavoro per l'UE.

Naser Rrustemaj, a capo della Camera degli infermieri del Kosovo, afferma che ogni giorno il sistema perde da tre a cinque professionisti. "La preoccupazione maggiore è che stiamo perdendo gli infermieri che lavorano in dipartimenti come la terapia intensiva, e la formazione per queste posizioni richiede molto tempo, oltre due anni", sottolinea.

La Germania ha bisogno di operatori sanitari, afferma Vigan Roka, che fa il medico in Germania da oltre cinque anni. "La clinica in cui lavoro fatica a trovare specialisti e infermieri, e questo innesca un costante movimento di operatori sanitari verso la Germania", spiega.

La migrazione irregolare rimarrà bassa, ma aumenterà la migrazione regolare, afferma Besnik Vasolli, esperto di integrazione UE che lavora in Kosovo. "Vediamo un aumento dei permessi di lavoro negli Stati membri UE come Germania, Croazia e Slovenia", afferma.

Le ultime elezioni in Kosovo hanno portato cambiamenti politici e qualche speranza; tuttavia, secondo Vasolli, questa avrà vita breve. "Le difficoltà economiche non scompariranno, il nuovo governo farà fatica a mantenere le promesse fatte durante la campagna elettorale e la popolazione continuerà ad avere gli stessi problemi", afferma, aggiungendo che l'emigrazione continuerà.

La Germania ha 1,6 milioni di posti vacanti nel sistema sanitario
Corina Stratulat, Senior Policy Analyst presso l'European Policy Center, un think tank con sede a Bruxelles, evidenzia i problemi con i lavoratori che ottengono la loro istruzione a casa e poi portano le loro conoscenze e competenze altrove.

"Certamente c'è domanda di lavoratori qualificati e il fatto che la Germania metta in atto politiche per attrarli è comprensibile e non c'è nulla di sbagliato in questo. Diverso è se questa diventa una strada a senso unico, in cui i lavoratori qualificati dei Balcani occidentali vengono nell'UE, ma non viceversa, senza ritorno, senza reinvestimento di risorse, competenze, tempo ed energia nei paesi che hanno lasciato. In questo caso, abbiamo un problema”, afferma.

La disperazione porta gli albanesi a sognare l'Occidente
L'Albania ha i più alti tassi di emigrazione nella regione, ma il governo di sinistra di Edi Rama riduce la questione a generica "tendenza globale". Secondo i dati dell'Istituto nazionale di statistica, negli ultimi cinque anni oltre 200mila albanesi sono emigrati nei paesi dell'UE o negli Stati Uniti
.


Essendo la Germania la destinazione principale, la domanda di apprendimento della lingua tedesca è salita alle stelle.

Alketa Kuko, direttrice dell'Istituto Goethe di Tirana, ha visto moltiplicarsi il numero di medici, paramedici, architetti o ingegneri che si iscrivono ai corsi di lingua tedesca.

"Mi serve solo un livello B2 in tedesco e tutto il resto è pronto per me in Germania", afferma Olti, 23 anni, paramedico di Tirana che spera di iniziare una nuova vita a Düsseldorf il prossimo gennaio. Ha studiato molto per imparare il tedesco negli ultimi mesi e afferma di essere tra i molti giovani albanesi che hanno scelto di iscriversi alla scuola per paramedici con l'intenzione di migrare in Germania. Il suo stipendio nell'unità di cure urgenti di Tirana è di 35.000 lek [286 Euro] al mese, mentre in Germania potrebbe guadagnare sei volte di più.

Poiché medici e paramedici sono tra i professionisti più ricercati in Germania, l'Albania, come altri paesi della regione, sta perdendo molti operatori sanitari. Secondo dati parziali dell'Ordine Medici e Paramedici di Tirana, 1.049 medici e 1.271 paramedici hanno attualmente depositato i documenti necessari per emigrare.

Nell'ottobre 2018, l'organizzazione "Together for Life" ha pubblicato i risultati di un sondaggio nazionale su 1.000 medici dell'Albania. Circa il 78% di loro ha affermato che preferirebbe emigrare se ne avesse la possibilità.

"I medici non sono soddisfatti: sono oberati di lavoro, non rispettati e stressati", afferma Eglantina Bardhi di "Together for Life". Le ragioni principali che spingono i dottori ad emigrare sono i bassi salari e le pessime condizioni di lavoro, aggiunge.

Mentre l'emigrazione è stata una caratteristica fondamentale del paese durante il periodo di transizione, gli esperti sono preoccupati dalla nuova ondata negli ultimi anni e dalla perdita di personale qualificato.

"Le persone più qualificate stanno lasciando il paese e la fuga di cervelli è un grosso problema per l'Albania", afferma Eda Gemi, esperta di politiche migratorie e integrazione. "Attualmente abbiamo un paese senza cervelli, quale futuro possiamo immaginare?", riflette.

Sebbene il paese abbia una strategia sull'emigrazione e un ministero per la Diaspora, Gemi osserva che le cause sottostanti dell'emigrazione non sono all'ordine del giorno del governo e suggerisce la necessità di costruire ponti per aiutare la diaspora a impegnarsi nel paese d'origine.

Serbia, restare è più rischioso che partire
Attualmente incapace di fermare il processo di emigrazione, il governo serbo si sta invece concentrando su misure per stimolare i tassi di natalità con il nuovo ministero per le Politiche demografiche, che fornisce sussidi per chi fa figli.

Secondo una nuova legge, una famiglia con un primo figlio nato dopo il primo luglio 2018 riceve un pagamento una tantum di 800 Euro. Per un secondo figlio, le famiglie ricevono 80 Euro al mese per due anni, mentre per un terzo il sussidio è di 100 Euro al mese per i prossimi dieci anni. Il governo ha anche aumentato gli stipendi di medici e infermieri nel tentativo di fermare l'emigrazione degli operatori sanitari.

Il Servizio tedesco per la migrazione stima che nel 2017-2018 quasi 51mila persone si siano trasferite dalla Serbia alla Germania e, grazie alle procedure agevolate per ottenere i permessi di lavoro, l'ondata migratoria dovrebbe continuare.

Mirjana Arnaut faceva la giornalista in Serbia. Ora vive in Germania, disoccupata, ma con il sostegno di suo marito, che lavora per un'azienda tedesca. Hanno deciso di far crescere il loro bambino lontano dalla Serbia. “La Serbia non è un posto dove vogliamo vivere. È triste e deprimente, promuove valori sbagliati, cattiva politica e non la vedo più come un posto per la nostra famiglia”, afferma Mirjana.

Anche Ivan Andrić, 21 anni, vuole andare all'estero. Secondo lui, invece di aprirsi, la Serbia sta diventando una società chiusa. "Se non puoi esprimere opinioni politiche diverse, se non hai le stesse possibilità di trovare lavoro delle persone che prendono la tessera del partito al potere, è probabile che ad un certo punto vorrai andartene", afferma Andrić.

Secondo l'OSCE, quasi 655mila persone hanno lasciato la Serbia dalla caduta del regime di Milošević nel 2000. Si stima che quattromila persone lascino la Serbia ogni mese, il che significa che la Serbia perde ogni anno una città media di 50mila persone. Negli ultimi due decenni, a causa dell'emigrazione, la Serbia ha perso il 10% della sua popolazione.

Secondo dati OCSE, la maggior parte degli emigranti (179mila) ha scelto la Germania. La seconda destinazione principale è l'Austria con 105mila, seguita dalla Svizzera (circa 70mila).


Due terzi dei giovani vogliono lasciare il Montenegro
Il Montenegro ha la popolazione più piccola dei Balcani occidentali, solo 625mila abitanti. Nonostante la fiorente industria turistica, si stima che circa 150mila persone abbiano lasciato il paese negli ultimi trent'anni. Secondo dati EUROSTAT, circa 17.346 montenegrini hanno ottenuto un permesso di soggiorno nell'UE tra il 2008 e il 2018. La Germania ha rilasciato circa tremila permessi di lavoro a cittadini montenegrini: più di quanti ne impieghi qualsiasi azienda locale. I dati dei sindacati dei medici mostrano che 150 medici specialisti hanno lasciato il Montenegro negli ultimi 4 anni.

Anche Nenad Todorović, specialista in oftalmologia di Podgorica, si sta preparando a partire. Come i suoi colleghi, da mesi studia il tedesco per ottenere un permesso di lavoro in Germania. Il Montenegro, come altri paesi della regione, non crea prospettive per i giovani medici.

"I nostri salari sono bassi. Ho un mutuo, e una volta pagato quello mi rimangono 300 Euro per vivere insieme alla mia famiglia, quindi sono molto depresso per la mia attuale situazione economica".

Un recente sondaggio della Fondazione per la democrazia di Westminster in Montenegro ha rilevato che circa il 70% dei giovani sta pensando di lasciare il Paese.

Tutto ciò pone i paesi balcanici in un circolo vizioso: gran parte della popolazione sta pianificando di andarsene, le ondate migratorie indeboliscono ulteriormente l'economia e la scarsa situazione economica allontana sempre più persone.

Secondo la Banca mondiale, fra le conseguenze negative degli alti livelli di emigrazione ci sono la perdita di capitale umano e una crescita economica più lenta.

Romania, emigrazione di massa dopo l'adesione all'UE
Dal 2007, quando la Romania è entrata nell'UE, i confini europei si sono aperti ai cittadini romeni, agevolando così le persone che desiderano lasciare l'economia in difficoltà del paese.

Secondo la Banca mondiale, 3,6 milioni di romeni vivono attualmente all'estero, vale a dire il 18,2% della popolazione. I lavoratori altamente qualificati rappresentano il 27% dei migranti. Secondo la Banca mondiale, dal 1990 al 2017 l'emigrazione dalla Romania è aumentata del 287%.


Questo processo ha portato a carenze di manodopera, specialmente nei settori scientifici e tecnologici.

Secondo Stefan Cibian, direttore dell'Istituto di ricerca Făgăraș, l'emigrazione è aumentata durante tutte le fasi del processo di integrazione dell'UE, in particolare dopo la liberalizzazione dei visti.

“Alle nostre istituzioni serve un approccio strategico per gestire l'emigrazione, e devono accettare la realtà. Con questo approccio, limiteranno le conseguenze negative dell'alta emigrazione, ma ne trarranno anche i benefici, perché avere una comunità così grande che vive all'estero è una risorsa immensa”, afferma Cibian.

Christian Moreh, docente di Sociologia alla York St. John University e autore del libro “Romanians of Alcalá. Migration and social differentiation”, spiega che le modalità di liberalizzazione dell'economia romena negli anni '90 hanno causato una nuova ondata migratoria, poiché i romeni erano già in grado di viaggiare liberamente verso altri paesi europei.

"Il lento sviluppo della liberalizzazione politica e della democratizzazione è ancora un problema in Romania, che impedisce alle persone di tornare e avviare le proprie attività", afferma. "La burocrazia impedisce ai migranti di tornare in Romania e porta ancora più persone ad andarsene", aggiunge Moreh.

Gli esperti non vedono soluzioni immediate, ma suggeriscono che i paesi colpiti da alti livelli di emigrazione debbano offrire a livello locale qualcosa che i paesi dell'Europa occidentale non possono offrire ai giovani, come infrastrutture tecnologiche e norme più semplici per creare aziende.

I migranti dei Balcani occidentali, sia uomini che donne, tendono ad essere giovani e ad avere livelli di istruzione relativamente alti. A lungo termine, alti livelli di emigrazione, specialmente tra i più istruiti, generano disallineamenti tra le competenze disponibili e quelle necessarie nel paese di origine.

Poiché l'emigrazione di massa dai paesi dei Balcani occidentali è in corso ancor prima che entrino nell'UE, ci si può solo chiedere quante persone rimarranno una volta raggiunta l'integrazione.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #324 il: Dicembre 15, 2019, 20:09:56 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/101364

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BALCANI: Il silenzio europeo sugli studenti “respinti” illegalmente dalla Croazia
Giulio Gipsy Crespi 2 giorni fa

Nei giorni scorsi la notizia dei due studenti nigeriani deportati illegalmente in Bosnia (ne abbiamo parlato qui) è rimbalzata sulla stampa internazionale, confermando i dubbi che aleggiano da tempo sull’integrità della polizia croata in relazione alle operazioni di controllo delle frontiere. Le numerose testimonianze di abusi e violenze, quando non derubricate a casi isolati, vengono generalmente rigettate dalle autorità di Zagabria come ricostruzioni create ad arte dai migranti per delegittimare la polizia e vedersi riconosciuto il diritto di entrare liberamente in Croazia.

Il caso dei due atleti nigeriani

Il caso paradossale degli studenti Abia Uchenna Alexandro ed Eboh Kenneth Chinedu mostra non solo come le forze dell’ordine croate siano prone ai respingimenti illegali, in aperta violazione del principio di non-refoulement, ma che, come qualcuno ha commentato, la paranoia anti-migranti nel paese giunga al punto che due cittadini stranieri, in possesso di regolare visto, vengano deportati in un paese terzo.

Ad oggi la loro vicenda resta irrisolta: gli atleti, che attualmente si trovano loro malgrado illegalmente su territorio bosniaco e che nei giorni scorsi si erano visti costretti a trovare rifugio in un campo a Velika Kladuša, sono stati temporaneamente trasferiti a Sarajevo in attesa di rimpatrio in Nigeria, mentre le autorità croate sono ancora reticenti nel fornire spiegazioni in merito all’accaduto. L’assenza di significative reazioni da parte delle istituzioni europee di fronte all’ennesimo abuso al confine tra Bosnia e Croazia riflette l’atteggiamento più generale dell’Ue – sulla carta attenta alla tutela dei diritti umani, di fatto interessata a non consentire la riapertura della rotta balcanica, costi quel che costi.

Il bastone e la carota

Questo atteggiamento riflette la strategia messa in atto tra 2015 e 2016, quando la progressiva chiusura dei confini di Austria, Ungheria e Slovenia determinò un effetto imbuto per i migranti diretti verso l’area Schengen e, successivamente, un effetto domino sui paesi dei Balcani occidentali, delegati “sotto ricatto” a farsi carico dei richiedenti asilo e a garantire la chiusura effettiva dei confini – pena la sospensione del regime di esenzione dal visto, per chi ne beneficiava, e, implicitamente, ridotte possibilità di accesso. La permanenza del principio del primo paese d’accesso, pietra angolare del regolamento di Dublino, contribuisce a creare ulteriore pressione sui paesi di confine come la Croazia e a far sì che si cerchino soluzioni “all’esterno”.

Il caso più paradossale di “esternalizzazione” delle frontiere esterne dell’Unione europea si è dunque concretizzato proprio nei Balcani occidentali, ovvero in un’“enclave” dell’Unione stessa, a causa dell’incapacità di trovare una soluzione interna ai 28 paesi membri. Le prospettive di accesso della Croazia all’area Schengen hanno sin da allora condizionato le politiche di controllo delle frontiere del paese, che, pur di dimostrare la propria idoneità, ha inasprito le misure di monitoraggio dei confini, sacrificando sull’altare dell’integrazione europea i diritti di migranti e richiedenti asilo.

L’ennesima, prevedibile emergenza

Con il duro inverno balcanico ormai alle porte e una gestione del sistema di ricezione al collasso, la Bosnia Erzegovina si trova nuovamente scarsamente preparata a gestire l’accoglienza di migranti e richiedenti asilo. Se per un verso gli appelli di chiusura del campo di Vucjak da parte di organizzazioni internazionali e Ong sembrano essere stati finalmente accolti dalle autorità bosniache – lo sgombero e i trasferimenti a Sarajevo sono iniziati lo scorso 10 dicembre – continua a mancare una strategia di lungo termine che includa lo stabilimento di strutture adeguate all’ospitalità non più temporanea di migliaia di persone.

L’Unione europea, d’altro canto, si ritrova anche quest’anno ad affrontare un’emergenza umanitaria tutt’altro che inaspettata. Sin dal 2018, la Commissione europea ha allocato un totale di 35,8 milioni di euro in assistenza di breve e medio termine, volti a fornire beni di prima necessità, assistenza medica e a migliorare le condizioni di alloggio di circa 8000 migranti e richiedenti asilo intrappolati nel cantone di Una-Sana.

Il silenzio-assenso di Bruxelles

L’impossibilità di affrontare in un’ottica razionale e nel segno della solidarietà tra paesi membri la questione migratoria continua a impedire di riformare il regolamento di Dublino – nonostante i reiterati appelli del presidente del Parlamento europeo David Sassoli e le dichiarazioni programmatiche della neo-presidente della Commissione Ursula von der Leyen – e di sollevare i paesi in fondo all’”imbuto”, inclusi la Grecia e i Balcani occidentali, da un fardello attualmente insostenibile.

In assenza di un segnale tangibile a livello di Consiglio Ue sul dossier migrazione, la Commissione conferma dunque lo status quo. È significativo che la prima missione all’estero di Margaritis Schinas, Vicepresidente per la promozione dello stile di vita europeo, e Ylva Johannson, Commissaria europea per gli affari interni, sia stata proprio in Turchia, al cospetto del suo presidente Recep Erdogan, per cercare di puntellare l’accordo bilaterale sui migranti tra Ankara e Bruxelles.

In questo quadro la Grecia da una parte e i Balcani occidentali dall’altra continuano a trovarsi in prima linea nella “protezione” dei confini esterni. Allo stesso tempo, la prassi di respingimenti illegali e di criminalizzazione dei migranti da parte delle autorità croate mettono a nudo un’Unione incapace di trovare una sintesi tra valori comunitari e interessi nazionali.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #325 il: Dicembre 15, 2019, 20:16:35 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/I-media-bosniaci-e-la-visione-distorta-sui-migranti-198480

Citazione
I media bosniaci e la visione distorta sui migranti

In Bosnia Erzegovina la crisi legata alla presenza di migranti occupa quotidianamente le pagine di cronaca. Ma come ne parlano i media bosniaci? Quali sono le reazioni dei cittadini? Un'analisi dettagliata del Media Centar di Sarajevo

13/12/2019 -  Belma Buljubašić Sarajevo
(Originariamente pubblicato dal portale del Media Centar di Sarajevo, il 5 dicembre 2019)

Uno degli argomenti più discussi sui media bosniaci nel 2018-2019 è stata la crisi di migranti e rifugiati in Bosnia Erzegovina. Negli ultimi due mesi l’attenzione mediatica intorno a questo tema è ulteriormente aumentata, per diversi motivi: la drammatica situazione nel campo di Vučjak nei pressi di Bihać; la mancata volontà e l’incapacità delle autorità bosniaco-erzegovesi di affrontare in modo adeguato la crisi dei migranti; alcune affermazioni controverse sui migranti e rifugiati pronunciate dai politici della Republika Srpska; le ripetute sollecitazioni dei funzionari dell’UE affinché il campo di Vučjak venga chiuso; l’atteggiamento di una parte dei cittadini bosniaco-erzegovesi, secondo cui i migranti e i rifugiati sarebbero colpevoli di diversi atti criminali verificatisi sul territorio della Bosnia Erzegovina.

Abbiamo analizzato una serie di articoli dedicati alla crisi dei migranti in Bosnia Erzegovina per capire come alcuni dei principali media bosniaci hanno trattato questo argomento. Per avere un quadro più completo, abbiamo analizzato anche alcuni commenti dei cittadini bosniaco-erzegovesi a diversi articoli apparsi sui media online.

Dall’analisi dei commenti è emerso che la maggior parte dei cittadini bosniaci è sprovvista delle conoscenze geografiche di base, capisce ben poco della politica internazionale e nutre sentimenti razzisti e islamofobi, spesso mascherati dalla presunta preoccupazione per la sorte della Bosnia Erzegovina. Particolarmente preoccupante è la mancanza di empatia nei confronti dei migranti dimostrata dai cittadini bosniaci, di cui molti furono costretti a cercare rifugio in altri paesi durante la guerra in Bosnia Erzegovina. Al contempo, i cittadini bosniaci non perdono l’occasione per affermare che sono tolleranti e che rispettano le diversità e per sottolineare il fatto che la Bosnia Erzegovina è un paese multiculturale.

La rappresentazione mediatica di migranti e rifugiati nel 2018: da vittime a criminali
Già nel 2018, quando sempre più migranti e rifugiati hanno cominciato ad arrivare in Bosnia Erzegovina, alcuni media locali hanno iniziato a diffondere sentimenti ostili verso i migranti e i rifugiati che si sono trovati sul territorio della Bosnia Erzegovina cercando una vita migliore.

Un altro aspetto problematico riguarda il fatto che molti media bosniaci fanno un uso eccessivo del termine “migranti”, come se volessero ulteriormente spersonalizzare i soggetti rappresentati, sminuire le loro caratteristiche personali e presentare tutte le persone in fuga provenienti da diverse parti del mondo come una massa omogenea di soggetti senza nome e cognome e senza passato. “I migranti si sono picchiati tra loro”, “I migranti hanno rubato”, “Rissa tra migranti”, sono solo alcuni dei titoli comparsi sui media bosniaci che sembrano voler privare i migranti di caratteristiche umane e dignità. Tale omogeneizzazione, che tende a rappresentare un gruppo di individui come una massa indifferenziata di persone con le stesse caratteristiche, gli stessi obiettivi, etc., è un terreno fertile per la diffusione del linguaggio d’odio e per le generalizzazioni di ogni tipo. Ricorrendo costantemente al termine migrante, usato perlopiù con una connotazione negativa o vittimizzante, alcuni media hanno cercato di rappresentare le persone che lasciano i loro paesi per cercare una vita migliore altrove come criminali o come persone da compiangere perché prive dei più elementari mezzi di sussistenza.

Nel 2018 il quotidiano Dnevni avaz  si è contraddistinto tra tutti i media bosniaci per il suo atteggiamento negativo verso i migranti e i rifugiati, accusandoli di comportamenti incivili, di fare uso di stupefacenti e di turbare la popolazione locale, causando risse e derubando i cittadini. Molti media bosniaci evitano di usare il termine rifugiato  , ignorando completamente il fatto che alcune persone sono costrette a fuggire dal loro paese a causa di violazioni dei diritti umani o perché temono per la propria vita e incolumità.

Una recente ricerca  realizzata da Rea Adilagić dell’Associazione dei giornalisti della Bosnia Erzegovina nell’ambito di un progetto intitolato “Izvještavanje o migrantima i izbjeglicama - #TačnoJeBitno” [Riportare notizie su migranti e rifugiati - L’esattezza conta], ha dimostrato che nel periodo compreso tra aprile 2018 e gennaio 2019 molti media bosniaci hanno trattato temi legati ai migranti e rifugiati in modo poco professionale, diffondendo ipotesi azzardate e informazioni non verificate. La ricerca ha preso in esame 100 articoli apparsi su 14 media bosniaci, di cui 3 media cartacei, 5 media radiotelevisivi e 6 media online. Gli articoli sono stati classificati in base all’atteggiamento espresso nei confronti di migranti e rifugiati nelle seguenti categorie: articoli che stigmatizzano i migranti e i rifugiati; articoli che accusano i migranti e i rifugiati di essere criminali; articoli in cui i migranti e i rifugiati sono rappresentati come persone pericolose; articoli in cui sono rappresentati come vittime; articoli scandalistici. In più della metà degli articoli analizzati i migranti e i rifugiati sono rappresentati come persone pericolose che costituiscono una minaccia per la sicurezza dei cittadini bosniaco-erzegovesi.

Di seguito riportiamo altri due esempi emblematici. Nel maggio 2018, in un’intervista rilasciata al portale Nezavisne novine, la procuratrice della Bosnia Erzegovina Gordana Bosiljčić ha dichiarato  di essere stata derubata da un migrante mentre si trovava in un negozio situato nel centro storico di Sarajevo. Dal momento che non ha potuto fornire alcuna prova concreta a sostegno di tale affermazione – tra l’altro perché la polizia non è mai riuscita a identificare il responsabile del reato – la procuratrice ha cercato di corroborare la sua storia affermando che l’uomo che l’ha derubata era di carnagione scura. La notizia è subito rimbalzata su altri media bosniaci.

Il secondo esempio  riguarda un articolo pubblicato nel luglio 2018 sul portale Dnevni avaz. Nell’articolo vengono riportate alcune affermazioni rilasciate da due cittadini di Bihać – che hanno scelto di rimanere anonimi – secondo cui i migranti provenienti dall’Afghanistan avrebbero trovato un nuovo “hobby” che consiste nel catturare le anatre selvatiche sul fiume Una per poi cucinarle alla griglia. L’articolo abbonda delle più orribili parole d’odio e sembra che l’autore, riportando affermazioni provenienti da fonti anonime, abbia voluto sottolineare il fatto che i cittadini di Bihać hanno talmente tanta paura dei migranti che non osano parlare liberamente, senza ricorrere all’anonimato, per timore di subire ritorsioni.

Escalation della crisi dei migranti
Nell’ottobre di quest’anno, alcuni media bosniaci hanno cominciato a usare toni allarmistici trattando temi legati alla crisi dei migranti, quali la drammatica situazione nel campo di Vučjak, i nuovi arrivi di migranti e rifugiati in Bosnia Erzegovina, la comparsa di scabbia nella città di Tuzla, la decisione delle autorità di limitare la libera circolazione di migranti e rifugiati nella regione della Krajina, l’appello del sindaco di Bihać rivolto alle istituzioni centrali affinché si adoperino più attivamente per risolvere la crisi dei migranti, diverse risse e incidenti che hanno visto coinvolti i migranti e i rifugiati, etc.

Con l’arrivo del freddo la situazione è peggiorata, perché la maggior parte dei campi per migranti e rifugiati è inadeguata per l’inverno. Qualche tempo fa sui media sono comparsi alcuni video  girati nel campo di Vučjak, dove diverse centinaia di migranti e rifugiati vivevano in condizioni disumane. Nel frattempo è stata annunciata la chiusura del campo [martedì 10 dicembre circa 350 migranti e rifugiati sono stati trasferiti dal campo di Vučjak nella caserma di Ušivak nei pressi di Sarajevo], mentre il comune di Bihać ha annunciato che avrebbe smesso di finanziare i campi per migranti situati sul territorio comunale in segno di protesta per il mancato sostegno da parte delle istituzioni centrali della Bosnia Erzegovina.

Anche il governo del cantone Una-Sana ha reso noto che avrebbe tolto il proprio sostegno finanziario ai due campi per migranti situati nel comune di Bihać, insistendo sul fatto che i migranti devono essere sistemati fuori dai centri urbani, proponendo una struttura situata a Medeno Polje, che ricade nel territorio del comune di Bosanski Petrovac. I rappresentanti delle autorità cantonali hanno inoltre fatto sapere di aver scritto alle istituzioni centrali di Sarajevo e a quelle dell’UE, chiedendo che i migranti presenti sul territorio del cantone Una-Sana venissero trasferiti in alcuni campi di accoglienza situati nei pressi di Sarajevo e Mostar che – stando alle loro parole – sarebbero semivuoti  , e che la linea ferroviaria tra Tuzla e Bihać venisse sospesa.

Dopo le ripetute sollecitazioni delle autorità e dei cittadini del cantone Una-Sana, secondo cui la situazione sanitaria e di sicurezza nel cantone sarebbe stata seriamente compromessa a causa della presenza dei migranti, il ministero dell’Interno del cantone Una-Sana ha introdotto diverse misure volte a limitare la libertà di movimento dei migranti, ai quali è stato impedito di circolare nei centri abitati e di trattenersi nei parchi. Il portavoce del ministero ha dichiarato  che le misure adottate sono necessarie per evitare che i migranti compiano atti illeciti come l’accattonaggio, il vagabondaggio e altri reati.

Nei mesi di ottobre e novembre i media bosniaci hanno parlato anche delle proteste dei cittadini contro l’apertura di nuovi centri di accoglienza per migranti. A destare particolare attenzione è stata la proposta, avanzata dal governo del cantone Una-Sana, di trasferire una parte dei migranti dai campi situati nel comune di Bihać nel villaggio di Medeno Polje [abitato dai ritornanti serbi], nei pressi di Bosanski Petrovac. Reagendo a questa proposta, Đorđe Radanović, presidente del Comitato per la protezione dei diritti dei serbi nella Federazione di Bosnia Erzegovina, ha avvertito che i serbi residenti nella Federazione BiH bloccheranno la strada tra Drvar e Bosanski Petrovac per impedire un eventuale tentativo di trasferire i migranti a Medeno Polje. Secondo Radanović, il trasferimento dei migranti nel villaggio di Medeno Polje rappresenterebbe una violazione dell’Annesso 7 degli Accordi di Dayton. Radanović ha annunciato  che inviterà tutti i rappresentanti serbi delle istituzioni centrali e quelle della Federazione BiH, ma anche gli ambasciatori accreditati a Sarajevo dei paesi garanti degli Accordi di Dayton (Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, Germania, Unione europea), a opporsi alla proposta di trasferimento dei migranti a Medeno Polje.

La proposta è stata duramente criticata anche dal membro serbo della Presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina Milorad Dodik, il quale ha dichiarato che un eventuale trasferimento dei migranti a Medeno Polje rappresenterebbe un atto politico, finalizzato a costringere i serbi ad abbandonare le terre dove vivono da secoli. Dodik ha approfittato dell'occasione  per attaccare i suoi oppositori politici, affermando che la proposta è stata ideata dai politici di Sarajevo e che una parte dell’élite politica bosgnacca è favorevole all’arrivo dei migranti in Bosnia Erzegovina, perché se dovessero rimanerci potrebbero esercitare pressioni sui cittadini di nazionalità diversa da quella bosgnacca. Dodik ha inoltre ribadito che la Republika Srpska non permetterà l’apertura di centri di accoglienza per migranti sul proprio territorio.

Le affermazioni di Dodik hanno suscitato numerose reazioni negative dei cittadini, che hanno ricordato che il villaggio di Medeno Polje si trova nel territorio della Federazione di Bosnia Erzegovina e che Dodik non ha alcun diritto di intromettersi nelle questioni interne della Federazione BiH. È curioso notare come la maggior parte dei commenti negativi non sia stata indirizzata ai migranti bensì a Milorad Dodik. Tuttavia, qualche settimana dopo, lo scorso 15 novembre, circa 300 cittadini di Bihać si sono radunati  davanti al centro di accoglienza di Bira, invitando i migranti ospitati nel centro a lasciare Bihać e a tornare nei loro paesi di origine.

I deputati croati del consiglio comunale di Tuzla e di quello di Živnice hanno reagito con veemenza all’annuncio del presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia Erzegovina Denis Zvizdić, che ha avanzato l’ipotesi di aprire un nuovo centro per migranti nel villaggio di Ljubače nei pressi di Tuzla, abitato prevalentemente da croato-bosniaci. I deputati croati hanno emesso un comunicato stampa  , affermando che i croato-bosniaci sono molto preoccupati perché non sanno come proteggersi da potenziali furti e atti vandalici da parte dei migranti illegali.

Questo comunicato stampa, basato su mere speculazioni, è paradigmatico, perché dimostra come alcuni politici diffondano un panico infondato.

La presa di posizione della Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatović che, durante la sua recente visita in Bosnia Erzegovina, ha affermato che il campo di Vučjak deve essere immediatamente chiuso, ha suscitato molti commenti dei cittadini bosniaci pieni di parole d’odio, che hanno paragonato i migranti alle bestie e invitato Dunja Mijatović a portare i migranti a casa sua.

Dopo la visita di Dunja Mijatović, sui media bosniaci sono apparsi diversi articoli incentrati sull’incapacità delle autorità di affrontare in modo adeguato la crisi dei migranti e sulla drammatica situazione nel campo di Vučjak. Molti cittadini, nei loro commenti a suddetti articoli, hanno chiesto che i migranti venissero deportati nei loro paesi di origine, senza mostrare la benché minima empatia.

Come si crea un’immagine negativa dei migranti
Ogni giorno in Bosnia Erzegovina si verificano risse, furti, incendi, rapine, e tra le notizie più lette dai cittadini bosniaci sono quelle di cronaca nera. Tuttavia, gli episodi di cronaca nera che vedono come protagonisti i cittadini bosniaci suscitano molta meno indignazione rispetto a quelli che vedono coinvolti i migranti. Si ha l’impressione che alcuni media bosniaci cerchino di sfruttare ogni episodio di cronaca nera per alimentare ulteriormente l’ostilità nei confronti di migranti e rifugiati, rappresentandoli come persone incivili, diverse, per le quali non c’è posto in Bosnia Erzegovina. Lo confermano numerosi esempi, di cui riportiamo quelli che hanno suscitato maggiore attenzione dell’opinione pubblica.

Lo scorso 12 novembre su alcuni media bosniaci è apparso un articolo che descriveva un episodio di abuso sessuale su un cane avvenuto nel cortile della casa del suo proprietario a Bihać. La notizia è trapelata dopo che il proprietario del cane ha denunciato l’episodio alla polizia ed è subito rimbalzata sui media di tutta la regione, con titoli sensazionalistici del tipo: “Contenuto disturbante, vi verrà da vomitare”, mentre alcuni titoli suggerivano che il cane sarebbe stato abusato da un migrante. Chi legge solo i titoli è rimasto all’oscuro del fatto che nessun media ha fornito alcuna prova a sostegno dell’ipotesi secondo cui il reato sarebbe stato commesso da un migrante.

L’articolo è stato originariamente pubblicato  sul portale USKinfo.ba, accompagnato da un filmato della durata di 4 minuti registrato da una videocamera di sorveglianza. L’articolo inizia con l’affermazione che in Bosnia Erzegovina si assiste all’escalation della crisi dei migranti, poi prosegue sottolineando che, mentre gli agenti della polizia bosniaca trasferiscono i migranti illegali nel campo di Vučjak, i cittadini che vivono nei pressi del centro per migranti di Bira stanno cercando in tutti i modi di proteggersi da irruzioni violente di migranti. Nell’articolo vengono riportate anche alcune affermazioni del proprietario del cane, secondo cui il cane si sarebbe comportato in modo strano, motivo per cui il proprietario e sua moglie hanno deciso di guardare il filmato della videocamera di sorveglianza, dopodiché hanno denunciato l’episodio alla polizia e hanno portato il cane all’ambulatorio veterinario di Bihać. Nonostante nel video non si veda il volto del responsabile del reato, il proprietario del cane ha dichiarato: “So che sarà inutile, ma voglio comunque denunciare quanto accaduto affinché si sappia cosa stanno facendo”.

Il proprietario del cane non li ha nominati esplicitamente, ma è chiaro che si riferiva ai migranti, riecheggiando la retorica usata da molti media bosniaci che parlano di “noi” e “loro”.

L’articolo ha suscitato grande attenzione, ottenendo quasi 10mila like. Molti commenti all’articolo contengono messaggi di odio, ma anche le accuse reciproche tra i cittadini bosniaci di diverse nazionalità. Alcuni cittadini hanno proposto varie punizioni da infliggere al responsabile dell’accaduto.

La notizia è stata ripresa da molti portali in Bosnia Erzegovina, ma anche in Croazia e in Serbia, di cui alcuni hanno affermato già nel titolo che il cane è stato abusato da un migrante (Alo, Paraf, Mondo, Novosti, Espreso, etc.), mentre altri hanno suggerito nel titolo che il reato è stato commesso da un uomo, per poi precisare che si sospetta che il responsabile del reato sia un migrante.

Il portavoce del ministero dell’Interno del cantone Una-Sana Ale Šiljededić ha dichiarato  al portale Dnevni avaz che sulla base del contenuto del filmato non si può affermare con certezza che si sia trattato di un migrante, ma che il proprietario del cane sospetta che il reato sia stato commesso da un migrante.

Ogni articolo sulla crisi dei migranti in Bosnia Erzegovina suscita numerosi commenti negativi. Ad esempio, una breve notizia  pubblicata lo scorso 20 novembre sul portale Klix sull’aggressione ad un migrante, che è stato trasportato dall’autostazione di Sarajevo al pronto soccorso, ha scatenato un’ondata di commenti ostili.

L’articolo, lungo nove righe, spiega che l’uomo è stato aggredito con un oggetto tagliente, per poi essere trasportato all’ospedale, e che la polizia sta indagando per fare chiarezza sulla vicenda, per capire se l’uomo sia stato aggredito alla stazione o se si sia recato lì dopo l’aggressione, se sia stato aggredito con un coltello o con qualche altro oggetto, etc. Alcuni lettori hanno suggerito nei loro commenti che i migranti dovrebbero essere cacciati dalla Bosnia Erzegovina, oppure arrestati e rispediti in Serbia, o ancora che dovrebbero mettere insieme i soldi sufficienti per acquistare un volo charter e tornare nei loro paesi.

Alla fine di ottobre, Dnevni avaz ha pubblicato una drammatica testimonianza  di un cittadino di Sarajevo, che sostiene di essere stato aggredito nel suo appartamento da alcuni migranti. Tuttavia, le sue affermazioni lasciano intendere che non abbia visto i volti degli aggressori. “Sotto di me, al piano terra, abita un poliziotto, un agente speciale. Lui dormiva, era appena tornato dal turno di notte. Io ero sveglio. Loro hanno forzato la porta e sono saliti per le scale nel mio appartamento. Non nel suo, ma direttamente nel mio, nonostante abbiano visto la luce accesa, la tv accesa, è questo che non capisco. Io ero a casa malato; ho avuto un infarto, anzi tre, e anche un tumore, da solo a casa. Li ho sentiti, ma pensavo che quel vicino avesse ospiti e che facessero casino. Ho abbassato il volume della tv per sentire cosa stava accadendo. All’improvviso hanno cominciato a battere sulla porta d’ingresso del mio appartamento, cercando di forzarla. A quel punto sono uscito. Dietro al vetro ho visto una silhouette, ma era buio e non ho capito chi fosse. Ho urlato e sono scappati giù per le scale. È caduta una bottiglia di birra, vedo che l’hanno lasciata giù”.

Da quanto sopra esposto emerge che i cittadini bosniaci hanno cominciato a incolpare i migranti e i rifugiati di tutti i problemi che affliggono la Bosnia Erzegovina, e di accusarli di tentativi di furto e di molti altri reati.

Tra i tanti media bosniaci che negli ultimi due anni hanno contribuito alla diffusione del linguaggio d’odio nei confronti di migranti e rifugiati spicca il portale Antimigrant.ba, che pubblica notizie false e interpreta le informazioni in modo distorto, alimentando atteggiamenti ostili verso i migranti.

Recentemente il Consiglio per la stampa della Bosnia Erzegovina ha accolto il ricorso  presentato dalla coalizione Mreža za izgradnju mira [Rete per la costruzione della pace] riguardante il contenuto di tre articoli pubblicati sul portale Antimigrant.ba tra agosto e settembre 2019. Il ricorso è stato presentato anche all’ufficio dell’ombudsman per i diritti umani, e ai responsabili del portale è stato chiesto di rimuovere i contenuti controversi e di scusarsi alle persone i cui diritti sono stati violati e a tutti i cittadini della Bosnia Erzegovina. Nella decisione del Consiglio per la stampa si afferma che il portale dovrebbe scusarsi anche per aver risvegliato, con intenzioni malevole, i traumi di guerra dei cittadini bosniaci, abusando di certi termini come genocidio, campi di concentramento, invasori, etc.

Dai contenuti analizzati emerge che molti media bosniaci parlano negativamente di migranti e rifugiati, rappresentandoli come criminali o vittimizzandoli. Sono molto rari gli articoli che presentano i migranti e i rifugiati sotto una luce positiva, come ad esempio alcune storie educative che parlano delle culture e dei paesi di provenienza dei migranti. Altri esempi positivi riguardano alcuni laboratori educativi e creativi  per migranti e diverse iniziative di socializzazione  tra i migranti e la popolazione locale, ma i media ne parlano poco.

L’analisi ha inoltre dimostrato che molti cittadini bosniaci sanno poco dei paesi di provenienza dei migranti, indicano i migranti con termini come “arabi”, “persone provenienti dal Medio Oriente”, e spesso definiscono i loro paesi come “incivili”. Una constatazione assurda, soprattutto se ricordiamo che molti migranti provengono dai paesi come Iran, Marocco, Siria. Inoltre, è evidente che i cittadini bosniaci hanno paura dell’altro, una paura che emerge soprattutto dai commenti in cui vengono descritte “le nostre” e “le loro” tradizioni, per sottolineare le presunte differenze tra noi e loro. I cittadini bosniaci nei loro commenti spesso affermano di non avere nulla contro le donne e i bambini migranti, sottolineando però che la maggior parte dei migranti sono maschi, in età militare, che avrebbero potuto combattere per i loro paesi, invece di fuggire. Tali affermazioni dimostrano che gran parte dei cittadini bosniaci non sa perché i migranti lasciano i loro paesi, né tanto meno sa che non tutti i paesi di provenienza dei migranti sono afflitti da guerre.


Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #326 il: Dicembre 15, 2019, 23:49:47 pm »
Mi pare di capire che in Bosnia c'è un sentimento tutt'altro che favorevole verso i migranti. Comunque sia, in Russia e Polonia non ho visto UN africano.
« Ultima modifica: Dicembre 16, 2019, 02:03:36 am da Vicus »
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #327 il: Dicembre 16, 2019, 01:22:45 am »
Mi pare di capire che in Bosnia c'è un sentimento tutt'latro che favorevole verso i migranti. Comunque sia, in Russia e Polonia non ho visto UN africano.

Beh, non li vedi nemmeno a Praga o a Tirana.
Viceversa di facce colorate ne vedi a iosa a Bruxelles (è un esempio fra i tanti), guarda caso un Paese dell'Europa dell'ovest.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #328 il: Dicembre 16, 2019, 02:04:08 am »
Amsterdam per esempio è una città dove i negri vano per la maggiore.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #329 il: Dicembre 16, 2019, 02:42:01 am »
Ci sono stato una volta ad Amsterdam, quando non mi interessavo ancora della QM.  :cool:
Bella, ma c'era un freddo cane.
Comunque preferisco Praga, meno pulita di Amsterdam (perlomeno quando la visitai io), ma sicuramente più bella e affascinante.
Secondo me, ovvio.