Schopenhauer sulla sola verità metafisica dei libri sacri (Il Peccato originale)
L'esistenza umana ha certo come suo ultimo scopo il dolore: ove così non fosse, dovremmo dire che le manca la ragione d'essere al mondo.
Tutto quello che ci riesce spiacevole o doloroso lo avvertiamo all'istante e con perfetta chiarezza.
Basta la lieve sofferenza causataci da una scarpa troppo stretta a farci dimenticare lo stato di florida salute in cui ci troviamo.
Noi avvertiamo il dolore, ma non l'assenza di dolore.
Le ore volano più rapide per quanto più piacevoli; d'altrettanto appaiono eterne quelle piene di tristezza.
La nozione del tempo è la noia che ce la offre, la felicità ce la toglie.
Questo prova che la nostra esistenza è tanto più felice quanto meno si fa sentire.
Eppure, se bastasse formulare un desiderio per vederlo esaudito, di che sarebbe fatta la vita, a che sarebbe impiegato il tempo?
Mettete l'umanità nel paese della cuccagna, dove tutto germinasse spontaneamente, dove le allodole se ne volassero belle e arrostite in bocca a chi ne avesse appetito, dove ogni uomo trovasse al primo angolo di via la donna dei suoi desideri e la potesse avere subito a disposizione, ebbene, vedreste gli uomini morirvi di noia, o impiccarsi per la disperazione, mentre altri cercherebbero motivi di contesa, si scannerebbero, si assassinerebbero, insomma si procurerebbero ben più tristi amarezze di quante attualmente non ne prodighi loro madre natura.
La necessità di assicurarsi l'esistenza è la gran molla che spinge ogni vivente all'azione, e che ne mantiene desta l'operosità.
Ma dopo quello, non si sa più che fare.
E allora l'uomo rivolge ogni suo sforzo ad alleggerire il peso della vita, a renderlo sempre meno opprimente, ad ammazzare il tempo, che è quanto dire, a sfuggire alla noia.
Ed eccolo, fuori dalle preoccupazioni delle immediate esigenze fisiche o morali, liberate le spalle da ogni altro fardello, riuscir di peso a sé stesso: La noia non è già piccolo malanno, qual senso di disperazione riesce a dipingere sul viso!
Il crudele sistema penitenziario di Filadelfia, basato sulla segregazione e l'inoperosità, fa della noia un tale supplizio che molti condannati preferiscono sottrarvisi col suicidio.
Lo Stato, considerandola come una calamità pubblica, con saggia prudenza si adopera per tenerla lontana. Ed infatti è tale flagello che, non meno del suo estremo opposto, la fame, saprebbe trascinare gli uomini a qualunque eccesso: il popolo vuole panem et circenses.
La vita è un compito che bisogna laboriosamente adempiere: sotto questo aspetto, il vocabolo de-functus è una bella parola.
Pensate per un momento che la funzione procreativa non risponda ad un bisogno, né includa alcuna voluttà, e non sia nulla più di un atto di riflessione e di ragionamento: forse che l'umanità continuerebbe a vivere sulla faccia della terra?
O piuttosto ogni vivente non sarebbe stato penetrato di tanta pietà per la generazione ventura da risparmiarle il peso dell'esistenza, o per lo meno non sarebbe dubbioso prima di addossarglielo a sangue freddo?
Ma è un inferno questo mondo, ed in esso gli uomini si differenziano in anime tormentate e in demoni tormentatori.
L'inferno del mondo è più triste dell'inferno di Dante, perché in questo ognuno è costretto ad essere demonio al proprio vicino: sopra di tutti vi è un arcidiavolo, il conquistatore, che allinea centinaia di migliaia d'uomini gli uni di fronte agli altri e gli grida: "Il vostro destino è quello di soffrire, è quello di morire: suvvia ! fucilatevi ! cannoneggiatevi!"
Ed essi lo fanno!
La vita non ci vien già più offerta come un dono, di cui non abbiamo che a rallegrarci; anzi, essa è un dovere, un compito che occorre adempiere a prezzo di molto lavoro; ne proviene uno stato di universale miseria, una fatica senza posa, una concorrenza spietata, una lotta che non conosce tregua, una sempre vigile attività che richiede il massimo sforzo di ogni energia fisica ed intellettuale.
Milioni di uomini uniti in nazioni concorrono a costituire il bene pubblico, ma coloro che soccombono vittime del benessere sociale si contano a migliaia.
Quando per folli pregiudizi, quando per tenebrose mene politiche, si suscitano guerre fra le genti, occorre che il sudore e il sangue del popolo scorrano a rivi per dar corpo alle fantasticherie di pochi o per pagare il peso delle loro colpe.
Mi si dirà che la mia è una filosofia sconsolata - e questo non per altro se non perché io dico la verità …
La tradizione del peccato originale mi riconcilia con l'Antico Testamento, poiché quella, per quanto presentata sotto il velo dell'allegoria, a me appare come la sola verità metafisica dei libri sacri.
Ed infatti, la vita nostra sembra proprio l'effetto immediato di una grave colpa e di un peccaminoso desiderio....
Abituatevi a considerare la terra come un luogo di penitenza, come un reclusorio, a penal colony, come già l'avevano chiamata i più antichi filosofi e alcuni fra i padri della Chiesa.
In ogni tempo la filosofia, il Brahmanesimo come il Buddismo, Empedocle come Pitagora, si sono confermati nell'identico concetto; Cicerone ricorda che gli antichi sapienti nell'iniziazione ai misteri insegnavano: nos ob aliqua scelera suscepta in vita superiore, poenarum luendarum causa natos esse
[siamo nati per scontare pene contratte per qualche delitto commesso in una vita precedente]
Vanini - quel Vanini il quale han trovato più comodo condannare al rogo che confutare - esprime la medesima idea in una forma assai recisa quando dice: Tot, tantisque homo repletur miseriis ut, si christianae religioni non repugnaret, licere auderem: si daemones dantur, ipsi in hominem corpora transmigrantes, sceleris poenas luunt.
Che più?
Anche nel Cristianesimo, a volerlo comprendere bene, la vita è considerata come la conseguenza di un fallo, di una caduta.
Ove ci si renda famigliare questa persuasione, non vorremo aspettarci dalla vita se non quanto essa può dare, e invece di giudicare come accidenti imprevisti ed eccezionali le sue contrarietà, le sofferenze, i guai, gli affanni grandi o piccini, penseremo che così deve essere, ben sapendo che quaggiù ognuno ha la sua croce da portare, ed ognuno la porta a modo suo.
In mezzo ai tormenti del reclusorio, uno dei più atroci è certo cagionato dalla società che vi si trova.
Avviene lo stesso nella società degli uomini, e per me lo dica chi ne meriterebbe una migliore.
Un'anima superiore, un genio, spesso si trovano commossi dal medesimo sentimento che proverebbe un nobile prigioniero di Stato nel ritrovarsi in carcere circondato da delinquenti volgari, che come lui cercano di isolarsi.
Io, per me, arrivo persino a pensare che noi non ci dovremmo chiamare nelle reciproche relazioni: Signore, Eccellenza, o similmente, ma piuttosto: compagno d'affanni, soci malorum, fratello in duolo, my fellow-sofferer.
Per quanto possa sembrare stravagante quest'espressione, in realtà è la più adatta, poiché farebbe apparire qual'é veramente il prossimo nostro …
A. Schopenhauer