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Nella fissazione delle remunerazioni, il genere poteva costituire un elemento, ma non era certo il fattore determinante.
Perciò anche le donne erano pagate di più in quella attività in cui rendevano di più o che potevano svolgere meglio, e viceversa retribuite
meno quando le loro capacità risultavano inferiori a quelle maschili. Ad Avignone, alla fine del Trecento, le donne che rivestivano di stoffa l'interno delle armature percepivano compensi nettamente superiori a quelli dei loro colleghi meno abili in questa attività, così come a Venezia, alla fine del Cinquecento, le ragazze che fabbricavano passamanerie dorate erano retribuite molto più dei ragazzi. Viceversa, nei cantieri trecenteschi di Siena o nei pressi di Pavia a fine del Quattrocento, dove un gran numero di donne erano state
reclutate per lo scavo di una roggia, il loro rendimento necessariamente inferiore faceva sì che percepissero retribuzioni di un terzo inferiori a quelle degli uomini, mentre i bambini prendevano la metà. Quando poi la resa era la stessa, lavoratore e lavoratrice venivano
pagati nello stesso modo.
[...]
Lavoro a cottimo.
Nel 1841 il contadino maschio che viveva in casa del datore di lavoro poteva contare in Renania su un guadagno annuo oscillante tra i 60 e i 180 marchi l'anno, e per una donna si andava dai 54 ai 108 marchi, mentre nella Prussia orientale le cifre erano rispettivamente di 45-60 marchi e 30-36 marchi. Normalmente si era pagati a seconda del tempo lavorato oppure a cottimo. Era opinione generale che il lavoro a cottimo fruttasse guadagni settimanali più alti rispetto a quello pagato ad orario. (L'uomo romantico, p. 78).
Nel 1779, il Conte del Carpio spiegò:
"Ci sono molte occupazioni nelle quali è un peccato usare la forza di lavoro maschile, nelle quali donne e bambini possono eccellere:
pizzi, bottoni, merletti, ricami e altri manufatti di questa specie, sono più adatte per le mani di una donna e di un bambino.
(Historia de las mujeres en Espana y América Latina - II, pp. 253-254).
Italia fascista.
I contratti [agricoli] valutavano generalmente il lavoro femminile al 60 per cento di quello maschile, secondo le indicazioni formulate nel 1926 da Arrigo Serpieri, il maggior esperto di agricoltura tra gli statisti del regime.
(Le donne nel regime fascista, p. 250).