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Sempre più studi mostrano che gli uomini rappresentano un’ampia percentuale del totale delle vittime di violenza domestica; alcuni di essi riferiscono addirittura percentuali che variano dal 40 al 50%, inclusa la violenza fisica grave (Hines & Douglas, 2016). Simili risultati sono stati rilevati (nell’arco di circa 40 anni) all’interno di numerosi sondaggi sia nazionali che internazionali svolti in diversi paesi (Straus, 2010).Questi numeri però non si riflettono nelle percentuali degli arresti e delle incarcerazioni a causa del cosiddetto “sessismo giuridico”. Diverse ricerche hanno rilevato infatti come, a parità di reato commesso e di circostanze, gli uomini, rispetto alle donne, abbiano il doppio delle possibilità di essere incarcerati (quando colpevoli) e ricevano pene detentive il 63% più lunghe (Starr, 2012).Ulteriori fattori che portano a minimizzare la reale portata del fenomeno sono:– il maggiore under-reporting nelle denunce da parte degli uomini vittime di violenza;– la minore percentuale di donne sospettate (e arrestate) da parte delle forze dell’ordine;– i bias di polizia, servizi sociali, psicologi e psichiatri interni al sistema di giustizia criminale rispetto alle donne fisicamente e/o sessualmente abusanti (anche verso bambini).Ad esempio, Skeem e colleghi (2005) hanno preso un campione di 147 professionisti della salute mentale chiamandoli a esprimersi sul rischio di agiti aggressivi in 680 pazienti psichiatrici afferenti a un servizio di urgenza: la ricerca ha rilevato che i professionisti fossero particolarmente limitati nella loro capacità di valutare il rischio di futura violenza dei pazienti di sesso femminile e tendevano a sottostimarlo. Questo effetto è ancora più evidente per la violenza sessuale: Denov (2001) ha infatti utilizzato interviste semi-strutturata con un campione di poliziotti e psichiatri. Addirittura anche con i bambini vittime di stupro, questi professionisti continuavano a vedere, a parità di gravità, le sospettate donne come meno pericolose e meno nocive dei sospettati uomini. Denov si riferisce a questo concetto come “cultura della negazione”, in cui i professionisti implicati nel sistema di giustizia criminale minimizzano l’offending e distorcono la realtà della violenza femminile compiendo sforzi, coscientemente o incoscientemente, per trasformare l’autore e il suo reato, riallineandoli con nozioni più culturalmente accettabili del comportamento femminile e quindi, in ultima analisi, alla negazione del problema. Tutto questo porta inevitabilmente a minori sospetti, minori arresti, minori incarcerazioni e pene più lievi per le donne abusanti, che dunque non verranno contate nei “numeri ufficiali”.Inoltre è molto utilizzata, da parte delle abusanti, la giustificazione della “legittima difesa”: sebbene sia maschi che femmine abbiano la stessa probabilità di sferrare il primo colpo in caso di violenza domestica (Hines & Saudino, 2002), quasi sempre la violenza domestica femminile viene scartata come “autodifesa”, soprattutto nei casi in cui la vittima è morta e quindi non può replicare. A taleproposito, Weiss & Young (1996) hanno riportato diversi casi di donne che affermavano di aver agito per “difendersi” è che hanno portato comunque ad assoluzione o a pene irrisorie, come una donna che aveva sparato al marito sei volte dietro la nuca affermando che lui l’avrebbe minacciata con una sedia (caso statunitense archiviato dal tribunale), o un’altra a Brooklyn che sparò nello stomaco a suo marito con una .357 magnum mentre dormiva, dopo aver trovato una sua foto con un’altra donna: da tentato omicidio (l’uomo sopravvisse ma perse parte del suo stomaco, fegato e intestino superiore) il reato venne declassato ad aggressione di secondo grado, producendo una condanna a un solo giorno di prigione e 5 anni di domiciliari.Purtroppo ancora oggi esistono pochissimi servizi antiviolenza per le vittime maschili. La stragrande maggioranza dei centri antiviolenza addirittura non accetta uomini, nemmeno figli maschi di età maggiore ai 12 anni, i quali anche in caso di violenza uomo-su-donna si ritrovano costretti a vivere con il padre violento. Eppure i centri antiviolenza sono importantissimi, sia in quanto punti di riferimento per vittime che altrimenti resterebbero in silenzio, sia come rifugi per sfuggire dalla partner abusante, sia infine per i loro servizi di assistenza via telefono e consulenza legale, medica e psicologica gratuita.Nonostante questo, le richieste per ottenere fondi pubblici sono disponibili specificamente ed esclusivamente per centri e servizi che accolgono donne, escludendo quindi le vittime maschili, che a questo punto diventano anche economicamente inappetibili da parte dei centri, visto che accogliendole non si ottengono finanziamenti.Vi sono persino maggiori fondi per i maltrattanti uomini, inclusi programmi che puntano alla riconciliazione, (dopo una riabilitazione dell’abusante spesso inadeguata), tra donna vittima e uomo violento, che possono portare a esiti potenzialmente tragici. Paradossalmente, i maltrattanti uomini hanno più diritti e servizi dei maltrattati: hai più diritti se picchi una donna che se da lei vieni picchiato.È evidente quindi come sia di vitale importanza cambiare tutto ciò, ed estendere i servizi, i centri e i rifugi antiviolenza alle vittime maschili (sia etero che LGBT, anch’esse ignorate dalla narrazione corrente). Non basta però ammettere “eccezioni”, poiché difficilmente gli uomini si rivolgeranno a un servizio che vedranno come “indirizzato solo alle donne”. È, invece, necessario specificare esplicitamente che il centro accolga anche agli uomini (ad esempio mettendolo come titolo o sottotitolo del nome della struttura, come: “Centro Antiviolenza per Uomini e Donne”); esplicitarlo anche in targhette e cartelloni; parlare al 50% degli uomini vittime nei propri dépliant informativi e sul proprio sito; evitare di utilizzare colori considerati solo femminili; creare sezioni apposite del sito indirizzate alla violenza sugli uomini; impiegare sempre un linguaggio neutro per il genere; preferire il termine “violenza domestica” a quello di “violenza di genere” (o alternativamente parlare anche di “violenza di genere contro gli uomini”); dedicare la metà delle proprie campagne e dei propri cartelloni alla sensibilizzazione verso la violenza sugli uomini, e l’altra metà alla violenza sulle donne.Per evitare che una simile estensione crei problemi alle donne che accedono ai centri (a causa di potenziali trigger), è possibile utilizzare sale di attesa diverse per uomini e donne, o spostare gli appuntamenti dei primi colloqui in momenti diversi della stessa giornata o in giornate diverse a seconda del genere, e soprattutto mantenere sempre la regola di chiudere le porte a inizio seduta. Assecondare l’evitamento del trigger ovviamente ha senso se riguarda soltanto l’ambito di esposizione privata, mentre giustificazioni all’esclusione degli uomini dai centri in generale non hanno motivo di esistere, visto che anche la vittima più protetta dai trigger incontrerà sicuramente un uomo nella strada che la conduce al centro, e perciò anche dover intravedere in lontananza una figura maschile dall’altra parte del centro non può essere motivo di estesa ansia più di quanto non lo sia intravedere un uomo sull’autobus che l’ha trasportata fin lì. Ancora più importante, non escluderemmo mai, a parti invertite, le donne negando loro assistenza perché, forse, chissà come e chissà quando, ciò potrebbe incidere sugli uomini in spazi (come le sale di attesa) in cui comunque non devono parlare del loro trauma (bensì in colloquio individuale). Alberto Infante