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Fabrizio Marchi sulla guerra alla maschilità, una "voce nel deserto"

(1/1)

Vicus:
Piaccia o no, Fabrizio Marchi finora è praticamente l'unico a evidenziare la deriva antimaschile dell'ideologia LGBT, la cui pericolosità viene ignorata se non addirittura negata dagli altri spazi maschili.
E' paradossale come persino movimenti di estrema destra come Casapound, cui non appartengo come non appartengo all'area politica di Marchi, siano favorevoli all'agenda politica LGBT. Chi critica Marchi perché non si riconosce nelle sue idee politiche dovrebbe quantomeno non fare di peggio su queste tematiche.
Questo articolo in particolare, evidenzia per la prima volta la distopia sottesa all'ideologia arcobaleno suscettibile di innescare (come già ora avviene) una vera deriva autoritaria.
Se Marx parlava dell'alienazione di un mondo disumano, il neoliberismo di oggi non ha più bisogno di braccia e va oltre,  diventa apertamente antiumano, con programmi di drastica riduzione della popolazione (Attali auspica apertamente di pandemie) di cui la sterilità LGBT è solo un tassello.
Il "comunismo queer" di cui parla Salvatore non è un malinteso, è il programma fabiano del Mondo Nuovo di Aldous Huxley in cui l'abolizione della genitorialità si fonde col consumismo più narcisista, in una diabolica fusione tra collettivismo spinto all'estremo (niente famiglie, educazione di Stato: ricordate Bibbiano?) e mercantilismo globale.
Cito i passi salienti dell'articolo di Salvatore Bravo (ospitato da Marchi), che malgrado le differenze ideologiche coincidono perfettamente con quanto vado dicendo da anni:

Condivido nella sostanza l’impianto teorico di questo articolo di Salvatore A. Bravo. Non c’è dubbio che l’attacco alle identità sessuali e in particolare, ovviamente, all’eterosessualità maschile (che è il vero bersaglio), sia ideologicamente funzionale alla “fluidità” e alla “liquidità” dell’attuale sistema capitalista.
[...] è altrettanto folle e discriminante teorizzare il superamento o l’“obsolescenza” dell’eterosessualità e criminalizzare contestualmente quella maschile, ridotta ormai a mera espressione di violenza, sopraffazione e dominio.
(Fabrizio Marchi)

“Comunismo” queer

Si potrebbe dire che l’eterosessualità, nell’ottica queer, è la verità/totalità del capitalismo, il punto archimedico che regge il capitale. La soluzione per realizzare il comunismo è liberare ogni forma di differenza dall’asservimento all’eterosessualità, dalla comparazione con essa produttrice di classificazione ed incasellamento in un ordine, la cui razionalità è solo potere.

Pregiudizi queer

La globalizzazione ed il capitalismo assoluto non patteggiano per le identità stabili, ma sono schierati con le identità fluide, cangianti, tutto è lecito, tutto è ammesso, purché si consumi. L’identità instabile insegna la precarietà, l’individualizzazione e la frammentazione atomistica delle identità, non è affatto rivoluzionaria, non a caso trova i suoi cantori ed aedi in ogni mezzo mediatico ed accademia [e pure su spazi maschili]. Ogni differenza, anche la più parossistica, trova ospitalità in ogni trasmissione televisiva, è proibito manifestare argomentata contrarietà dinanzi alle scelte “più inusuali”.  Si incoraggia a sperimentare, poiché, se il soggetto vive per il suo narcisistico piacere, è politicamente disimpegnato, e quindi, è innalzato a modello da imitare. Ogni appello alla comunità ed alla condivisione è interpretato come un attentato alla libertà di consumare identità. Ogni potenziale comunità è, così, resa nulla dall’attacco frontale all’affettività stabile [della serie: quando chi dovrebbe parlare tace parlano le pietre], in quanto cela tra le sue pieghe la progettualità.  Le omelie queer dagli altari atei e laicisti del nuovo clero orante innalzano il diritto all’identità multipla ed evanescente, all’intersessualità, si scoraggia ogni nucleo comunitario in nome del diritto individuale alla trasformazione. Il nichilismo senza confini e limiti diviene il fine della liberazione dai vincoli dell’eterosessualità, la metafisica è la catena da cui liberarsi per librarsi tra le identità  e perdersi tra di esse.

Ipertrofia queer

L’umanità è al plurale, le affettività sono diversamente declinate, ma se il tutto è ridotto alla sola pulsione liberata da ogni limite  e metafisica il discorso è pericoloso e distruttivo. La sessualità è polimorfa, ha aspetti anche distruttivi e sadici, la liberazione queer rischia di legittimare ogni genere di pulsione, tranne l’eterosessuale, in quanto figura del katechon, del padre che dà la misura  al piacere ed al consumo.  L’ipertrofia dell’io è sostenuta dalla spinta mediatica ad appoggiare la cultura queer e le sue filiazioni, dato che legittimano la globalizzazione liberale. In primis insegnano che ogni identità fluida va vissuta e non pensata concettualmente. Se ogni desiderio è legittimo, anche l’illimitato appetito indotto dal capitale ha la sua ragion d’essere: il desiderio senza confini è la struttura del capitale, l’ideale su cui il sistema si regge, è l’orizzonte di possibilità verso cui tutto si orienta e converge. Il comunismo queer è sostenuto dal femminismo radicale e dai gruppi LGBT. Le loro rivendicazioni non sono rivoluzionarie, ovunque si assiste alla trasgressione veicolata dall’economicismo.

La vera trasgressione nella contemporaneità è la chiarezza dell’identità all’interno di relazioni stabili che fecondano la psiche con la creatività del pensiero e della condivisione.

Pregiudizio queer

Il modello eterosessuale padre di ogni male è trattato in modo preconcetto, anche in questo, niente di nuovo sotto il sole, continuamente siamo informati dei crimini eterosessuali maschili, in tal modo, si occultano gli innumerevoli crimini del capitale e le sue vittime. Il fine è distogliere l’attenzione dai crimini finanziari per demonizzare l’eterosessuale quale simbolo, del limite, della famiglia, della comunità. Non vi è comunità senza la consapevolezza del limite.
La censura agisce sui dubbi, neutralizza la dialettica, poiché ogni affermazione critica sulla teoria queer è interpretata come aggressione ai diritti individuali.
Più ampio è il numero delle persone e delle istituzioni coinvolte nella pubblica discussione, maggiore sarà la qualità della condivisione. Nel regno del “politicamente corretto”, dell’adesione calcolata agli ideali della globalizzazione finanziaria, ciò è quasi impossibile. Si tratta di congedarsi dalle esemplificazioni e dalla ricerca del facile applauso, per riportare al centro la razionalità oggettiva e confrontarsi con le innumerevoli difficoltà e contraddizioni che essa comporta, e specialmente si tratta di abbandonare i dogmi del politicamente corretto, oggi tragicamente trasversale in ogni compagine politica ed accademica. L’eterosessualità quale forma assoluta del male che precede il capitalismo, secondo il comunismo queer, e rischia di sopravvivergli, sembra piuttosto un nuovo archetipo organico all’economicismo del turbo capitalismo. L’eterosessualità maschile ha assunto tante forme in tante culture, è oggi giudicata mediante uno schema unidirezionale: eterosessualità maschile è equiparata alla violenza. Nei propugnatori di tale “visione” dovrebbe emergere il dubbio, la consapevolezza che stanno ricostruendo la storia dell’oppressione mediante un pregiudizio che rende semplice e manichea la lettura della stessa. L’eterosessualità è, in tale interpretazione, espressione della proprietà privata, della chiusura all’alterità, è il vaso di Pandora da cui si originano tutti i mali, pertanto attaccandola frontalmente si pongono le premesse per la comunione dei corpi, degli spazi, si trascende ogni recinto che coincide, sempre e solo, con l’eterosessualità (maschile) [qui abbiamo un socialista che, ad oggi unico nel panorama maschile avverte: l'ideologia LGBT attacca non solo l'identità maschile, ma instaura una distopia comunista][1]:

“In questo senso, una politica queer anticapitalista in grado di aprire alla costituzione di un nuovo blocco storico potrebbe focalizzarsi sulla messa a valore delle esperienze del «comune», delle forme di affettività non privatizzate e non diadiche, delle forme di contestazione e di ridefinizione dello spazio pubblico, delle strade, delle piazze, dei luoghi di battuage, come anche degli spazi politici occupati e autogestiti, e tutto ciò al fine di sottrarre spazio all’eterosessualità. Non si tratta solo di rivendicare una maggiore visibilità. Si tratta, piuttosto, di costruire fermi punti d’appoggio contro la privatizzazione neoliberale, agendo in autonomia, ma in modi che possano entrare in risonanza e convergere puntualmente con le lotte dei migranti [meno male che non sono l'unico a dirlo], ad esempio, contro il razzismo strutturale di Stato, fondato anch’esso sulla creazione di spazi d’apartheid razziale, e spalleggiato dalle forze di polizia”.

Non è chiaro il destino degli eterosessuali e di coloro che rifuggono dalla transumanza identitaria, in nome della stabilità affettiva, se saranno rieducati, e in che modo. L’eteronormatività diviene il nemico da abbattere con gran pace degli apparati finanziari, che siamo certi, appoggeranno la rivoluzione arcobaleno queer[2]:

La sostituzione del maschile e del femminile con l’androgino indeterminato dai mille colori e sfumature, è parte dell’operazione economica e culturale di distruzione di ogni ricerca e non solo, del fondamento naturale della comunità con annessa verità. L’androgino senza natura, senza identità è il trionfo dell’artificiale, della grande manipolazione in atto finalizzata a sradicare ogni limite e resistenza all’economicismo che avanza. L’emancipazione deve avvenire all’interno di un fondazione metafisica, in caso contrario non vi può che essere la violenza dell’illimitato dipinto di arcobaleno ad avanzare ed annichilire la libertà. Senza sovranità etica non vi è libertà, ma solo il regno dell’assoluta peccaminosità[1]:

“Il modello androgino esalta ovviamente la centralità simbolica del gay maschile e femminile, che viene imposta mediaticamente come la figura sessuale centrale  e più significativa della società contemporanea. In un mondo  in cui non esiste più naturalità, sostituita dall’artificialità integrale della società capitalistica, è del tutto ovvio che anche il “genere” (gender) si scelga, ed uno nasce più maschio o femmina, ma “sceglie” di diventare maschio o femmina”.

http://www.linterferenza.info/contributi/comunismo-ipertrofia-pregiudizi-queer/?fbclid=IwAR0ses_yiVyHu01Wciktu1jqNZaKcMo9Qu7b7_TBB_b4CCFTkphhbmeeJ8g

Ryu:
Non è l'eterosessualità maschile a creare le divisioni gerarchi, è l'ipergamia.

Se si è gay, è facile. Butti tutti in una dark room e ogni sera si scopano senza distinzioni. Non è che ci voglia molto.

Molti uomini sarebbero meno coscienziosi e molto più collettivisti se le donne fosse ipogame. Vivremmo tutti brutalmente, come ogni singolo fa, e passeremmo il tempo tra sesso, ozio e intrattenimento. Senza classi sociali.

Ma non te lo puoi permettere, perché se fai così al massimo ti scopi la busta da 3 (se ti dice culo), allora ti fai il proverbiale mazzo con l'idea di arrivare al 9, ma è già tanto se becchi il 6 che non ti faccia crescere un figlio altrui.

Se i gay diventassero etero improvvisamente sarebbero molto più individualisti, dall'oggi al domani.

Vicus:
L'utopia queer che ci sembra così "nuova" e progressiva, è la riedizione di vecchie eresie (i dolciniani, i marcioniti, i carpocraziani ecc.) secondo cui bisognava mettere in comune i beni quanto i corpi. Questo collettivismo orgiastico, radicale, avrebbe fatto nascere come per magia "l'uomo nuovo". Conoscendo queste dottrine si capisce quanto preconizza Maurizio Blondet che afferma che in futuro, potrebbe essere illegale rifiutare un rapporto con un LGBT perché come scrive Aldous Huxley nel suo distopico Mondo Nuovo, "ciascuno appartiene a tutti gli altri".
E' il Paese dei Balocchi di Collodi, ma anche la Maga Circe di Omero, che conducono invariabilmente all'asinificazione e alla porcificazione umane.
La guerra al maschile di una siffatta ideologia è inevitabile, l'unica scelta possibile per noi è difenderci o subirla inconsapevoli, in nome di una falsa "tolleranza" imposta solo a noi.

L'ideologia queer non ha nulla di nuovo come si potrebbe credere ma è la riedizione di vecchie utopie ed eresie che, anche se inattuabili, instaurerebbero l'Inferno sulla Terra.
Apparentemente permissiva, si basa in realtà su ferree leggi non scritte di cancellazione della civiltà e di ogni umanità nelle relazioni, in un voluto abbrutimento il cui scopo sostanziale è quello di soggiogare le masse per meglio perseguire gli interessi delle élite.
Per capirla, partiamo proprio da queste ultime, con l’improvvisa conversione di George Soros al solidarismo e a un social-capitalismo di tipo fabiano (la Fabian Society voleva realizzare un ibrido agghiacciante tra socialismo e consumismo).
Volete vedere il modello della società che ci si prospetta? Basta passare una settimana al Club Méditerranée. Se ne ricava l’impressione che il Club Méditerranée sia l’incarnazione di un’idea, di un desiderio immemoriale, attestato nella letteratura. Il Paese dei Balocchi, per esempio. La trasformazione dell’uomo in bestia in un contesto non dissimile si ritrova in un testo assai più antico e augusto: nell’Odissea, là dove parla della reggia di Circe la maga. Essa sorge “in luogo aprico d’ogni parte”. In quel luogo così fascinoso, potremmo dire così turisticamente privilegiato, la maga attrae i compagni d’Ulisse, apparecchiando loro “le carni infinite e il dolce vino”.
Non ho dubbi che qui, con una chiaroveggenza che parrà inverosimile solo a chi misconosce le facoltà profetiche dei poeti, si alluda proprio al Club Méditerranée. Omero offre un’indicazione inequivocabile: l’abbondanza del buffet, e il vino gratis a volontà, che sono due delle più note e reclamizzate attrattive del Club. Ma entrambi i testi ne denunciano, concordi, il risultato finale della sua frequentazione: l’asinificazione, o la porcificazione umana. Esagero? No. Pur con tutta la sua dozzinalità, il Club Méditerranée è  - vuol essere - l’incarnazione nella società dei consumi di un sogno antico, anzi di una visione connaturata all’uomo: il Giardino delle Delizie.
Hyeronimus Bosch ha dipinto questo giardino immaginario, il Paradisus Voluptatis, accanto al Paradiso celeste e al Paradiso terrestre, come un terzo “luogo” distinto dagli altri due: è il luogo del vizio felice, dove si trasgredisce senza portarne pena. Il Giardino di Bosch è abitato da uomini e donne nudi e ammaliati. Due amanti nudi sono racchiusi in una bolla diafana, altri si bagnano in acque perlacee, o navigano su foglie e fiori, volano sul dorso di pettirossi o aggrappati a spore trasparenti, in mezzo a una natura stregata che sembra piegarsi a mille metamorfosi solo per compiacere i sensi e i desideri.
Le regole del Paradisus Voluptatis sono state dettate una volta per tutte dagli gnostici libertini del secondo secolo, specie da Carpocrate ed Epifane, anche se Fourier le ha perfezionate a metà del ‘700. Il Giardino delle Delizie, per costoro, è la società futura: da costruire attraverso la trasgressione volontaria delle leggi umane. Sono infatti le leggi e le morali, secondo gli gnostici, ad aver introdotto artificialmente nella società l’ineguaglianza, il “mio” e il “tuo”, il duro dovere; trasgredendole, si ricostituisce la perfetta indistinzione dello stato originario. Per gli illuminati di tutti i tempi infatti “l’uomo nasce buono”   buono in tutte le sue tendenze, che non occorre temperare - “ma la società (la legge) lo corrompe”. Perciò nel Paradisus Voluptatis vige il comunismo: non corre moneta, tutto appartiene a tutti e soprattutto le donne, che sono in comune; il sesso non è limitato da alcuna norma. L’uomo, finalmente “liberato”, ritrova la sua “felicità naturale” nel seno di una natura ecologicamente pura ma complice fino alla ruffianeria: Fourier giunge a sostenere che, quando il Nuovo Mondo Amoroso sarà finalmente restaurato, le amare acque del mare si muteranno in bibita al lampone. Le leggi umane inducono, con la proprietà privata, la penuria: cancellare quelle leggi comporterà dunque, logicamente, il ritorno dell’abbondanza. Ognuno avrà “secondo i suoi bisogni”, fossero pure infiniti. Scorreranno fiumi di vino e di latte.
Se ora scendiamo di livello (bisogna scendere i ripidi gradini che separano l’utopia dalla realtà) constateremo che quel che il Club Méditerranée si sforza di offrire, dietro pagamento di cospicua tariffa settimanale, è proprio l’esperienza del paradiso gnostico.
“L’ambizione del Club è quella d’essere un’utopia concreta”: così disse monsieur Gilbert Trigano, in una memorabile intervista sul mensile Successo. Gilbert Trigano: “capelli neri, occhiali spessi sul naso forte, un entusiasmo comunicativo”, ha scritto di lui Epoca: “È l’inventore, il presidente, il direttore generale della più originale fabbrica di vacanze del mondo: il Club Méditerranée. Governa cento villaggi turistici, cento “chiese” aperte ai credenti d’ogni razza: 75 mila letti vegliati da un calcolatore elettronico e profumati, ogni mattina, da due milioni di croissant. 600 mila adepti l’anno”. La descrizione può essere aggiornata aggiungendo che Trigano, oggi ritiratosi dagli affari con un capitale miliardario, si definisce un ex comunista; ma per il resto va bene. È il ritratto dell’Omino di Burro adatto al nostro tempo tecnologico e finanziario.
L’assenza di serrature nelle capanne in cui gli ospiti dormono ha una necessità ideologica profonda: è anche, e soprattutto, l’invito a “mettere in comune” i corpi. È questo principalmente ad attrarre legioni di uomini massa nei villaggi vacanza: l’incredibile facilità di rapporti sessuali “liberi e senza problemi”. Tutta quanta l’organizzazione del Club sembra fatta per condurre a quel fine: tutti in fondo sono lì per questo.
Così fin dal principio l’umanità ospite del Club diventa quel che devono essere le creature del paradiso gnostico: “veri adulti”, usciti di minorità, per cui non valgono più le costrizioni etiche che reggono la società normale; ma nello stesso tempo questi adulti, regrediti allo stadio dell’irresponsabilità infantile, pargoleggiano. Il Club dei Balocchi pullula di “divertimenti organizzati” a tutte le ore del giorno e della sera: dattilografe e ragionieri, carampane e giovanottini, vi partecipano ridendo, battendo le mani, ruzzando come bambinelli. Come dice Trigano, “Questo fa nascere il massimo senso di libertà”. Ma naturalmente questa “libertà” è tutta iscritta nella schiavitù del collettivo, delle leggi non scritte che reggono la mistica della società delle vacanze. Il divertimento, per così dire, è coatto, anche se la coazione è desiderata dagli ospiti. Quel che viene distrutto e reso impossibile è infatti qualcosa di prezioso, che però le anime volgari sfuggono e temono: la vacanza come solitudine meditativa, come agio di pensare a se stessi e alla propria vita, come pausa da riempire di introspezione.
Ha perfettamente ragione, Trigano, quando si vanta di essere riuscito “a rimanere visionario e socialista, sul piano delle idee, pur facendo il capitalista sul piano dell’impresa”. Quella che le sue parole hanno descritto è la società dei consumi quale aspira ad essere: totalitaria, sintesi suprema di capitalismo e collettivismo, una macchina sociale da cui siano stati espunti tutti quei “fattori di disturbo” che fanno degli uomini qualcosa di più e diverso da semplici consumatori. È l’utopia post capitalista, elaborata nei laboratori dove si sviluppa l’ideologia tecnocratica funzionale al grande capitale. La proprietà privata, di cui Trigano propugna l’abolizione con le sue conseguenze (l’abolizione del diritto di successione) è un ostacolo anche per i detentori del potere finanziario: perché ha valenze extra economiche (affettive, ad esempio); perché comporta il senso della continuità familiare; perché può essere lasciata “improduttiva”, ossia sottratta al giro fruttuoso della speculazione; e peggio, perché la sua formazione implica il risparmio, l’immobilizzo di capitali. I grandi capitalisti sanno che non occorre essere proprietari di un’impresa o di un patrimonio; conta averne il controllo, il più possibile anonimo. La proprietà è un “bisogno dell’anima”, ha scritto Simone Weil, perché essa “è un prolungamento della persona”. Ma qui è proprio la “persona” che va distrutta, perché l’uomo possa esser ridotto a mero consumatore.
Il Club Méditerranée è dunque in vitro il modello della società post capitalista che sogna il capitalismo più avanzato”. Una società dove nessuno dovrà più pensare a sé, perché il Collettivo (e coloro che lo controllano) penserà per lui e, nell’abbondanza del superfluo, ciascuno lavorerà nel Collettivo per avere il diritto di disporre dei beni collettivi; dove nessuno “avrà” qualcosa, mentre il Collettivo “avrà” tutti. È la società sognata da Marcuse, dove si può svolgere “un’esistenza piena di tempo libero sulla base dei bisogni vitali soddisfatti” . Nello stesso tempo è la società super capitalista che assicura l’”uso razionale delle risorse finanziarie” (escludendo la proprietà privata, residuo di un passato oscurantista) e in cui, attraverso una rivoluzione tecnologica, “allargando il regno della tecnica, saranno rimessi al loro posto come tecnici anche i problemi relativi alla finalità, considerati a torto problemi etici e a volte religiosi”.
Probabilmente per questo il Club Méditerranée ha influentissimi padrini. Nel 1957 l’impresa di Trigano rischiò il fallimento; per salvarla, si mobilitò un alto settore della finanza internazionale. Tutti nomi e sigle rappresentati nella Commissione Trilaterale, dove appunto si progettano instancabilmente ingegnerie sociali nella convinzione che gli uomini e le società stesse non siano che epifenomeni del processo economico. Questi potentati finanziari, salvando il mercante-filosofo Trigano, hanno assicurato la prosecuzione di un esperimento sociale dal loro punto di vista di grande interesse. Per ora, limitato al tempo libero. Un giorno chissà.

Stemma della Fabian Society:

Ryu:
Concordo al 100%.

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