La dipartita del grande artista, dalle convizioni un po' guenoniane, ha suscitato in Blondet uno dei suoi pezzi migliori sull'universo simbolico di civiltà nettamente superiori allo squallido presente materialista e in cui gli uomini contavano ancora. Al di là dei miti, molti insegnamenti sono senza tempo e trascendono le singole culture:
Nel 1903 uscì in India “The Arctic Home in the Vedas”, in cui Bal Gangadhar Tilak, un mahratti del ceto medio, attestava che nei Veda c’è il ricordo che la prima sede (home) dell’uomo indo-europeo nel Polo Nord, allora beneficiato da clima temperato; lo provavano le indicazioni vediche delle costellazioni che splendevano su quella sede nordica. Il libro è molto citato (ma forse non altrettanto letto), tanto da diventare un luogo comune del New Age sedotto dall’Induismo. Il fatto che Tilak fosse un insegnante e d attivista politico, e avesse scritto il libro in polemica con gli occupanti inglesi (“Noi siamo più nordici di voi”), non contribuisce a rendere inattaccabile la sua tesi.
E tuttavia, il fatto che quei cacciatori di salmoni del Baltico e Mare del Nord e parlavano “l’idioma originario” con somiglianze al sanscrito, avessero un ricordo preciso di venire da un Nord assoluto, polare,
un paradiso terrestre climatico, è criticamente attestato nell’Edda, nel ciclo dal Ragnarok. Nel fatale
crepuscolo degli dèi contro il destino e il Male, Yggdrasill, l’albero cosmico, si scuote e seguono alluvioni, terremoti e catastrofi naturali. Cala un inverno della durata di tre stagioni senza l’estate in mezzo; spariranno quindi Sól (il Sole) e Máni (la Luna): i due lupi (Skǫll e Hati) che, nel corso del tempo, perennemente inseguivano i due astri finalmente li raggiungeranno, divorandoli, privando il mondo della luce naturale.
E’ irresistibile constatare che qui
si adombri l’evento di deviazione dell’asse terrestre; evento raro ma ricorrente di cui la razza umana deve essere stata testimone e coinvolta.
Innumerevoli altri racconti antichissimi coincidono in modo stupefacente col RagnaRok. Per brevità ci limiteremo a citare i testi degli arii dell’Iran, il Vendidad: dove si tratta del “mitico” re Yima, governante di quella isola polare, che fu avvertito da Ahura Mazda di “fatali inverni” opera del dio di tenebra, che avrebbero reso inabitabile il regno: “Freddo per le acque, freddo per la terra, freddo per la vegetazione. Vi furono dieci mesi d’inverno e due d’estate”: il clima artico di oggi.
I miti greci riguardanti “l’ultima Thule” divenuta gelata e nebbiosa consonano con i racconti tolte chi sulla ormai irraggiungibile Tulla nel Nord estremo: il nome allude alla Bilancia (Tula in sanscrito), costellazione in cui allora era la stella polare, perché vi avrebbe puntato a quel tempo l’asse terrestre . Poi “i cieli a settentrione scesero sempre più in baso” (Li-Tze) e furono i fatali inverni.
La cosa da ritenere per noi contemporanei è almeno questa: per quei nostri progenitori, lo sconvolgimento cosmico fu conseguenza di un disordine spirituale di quella razza umana, di un “peccatum” (originale?) che rese quella razza un tempo longeva e che “parlava con gli dei” fragile, esposta al dolore e alla concupiscenza, e alla morte precoce.
Non occorre credere che Battiato fosse chissà che “iniziato”, quando esprimeva nostalgia per le età del Cinghiale Bianco; bastano le nozioni che si apprendono nella letteratura New Age o in Guénon ed Evola; e tuttavia è un merito anche solo aver evocato quella suggestione.
Il Cinghiale, nei testi meno antichi è l’avatar di Vishnu; ma la prima versione di questa incarnazione, è nella Taittirya Sanhita, che la attribuisce a Brahman, il supremo. E’ lui che in forma di immenso cinghiale bianco solleva la terra arida dalle acque primordiali con le zanne. Nel Ramayana è detto che è Vishnu “in forma di Brahma” che compie l’atto cosmico; ciò si spiega con lo sbiadire di Brahman nella cultura indù, per il fatto che gradualmente è divenuto sempre meno oggetto di culto rituale; ed oggi non lo è affatto, come in modo analogo Indra, divinità dei cacciatori bianchi, è stato rimpiazzato da Shiva.
Ciò che conta è che
la parola cinghiale, varaha in sanscrito, equivale a “borea” in greco (dove b e v si confondono) e in latino, ed anche nelle lingue anglo-germaniche: l’
inglese moderno stesso chiama il cinghiale “boar”.
E’ il Nord che il nome richiama;
quel Nord paradisiaco (Paradesha, “contrada suprema”) divenuto Agartha (inaccessibile), nozione da cui
la mia giovinezza fu confermata nella nozione che il mondo moderno è un carcere cieco [quanti uomini oggi e soprattutto quante donne sono in grado di capire questo?].
Ed è notorio che il cinghiale fu l’animale totemico dei brahmani e ugualmente dei druidi, sacerdoti della religione celtica, rappresentanti dell’autorità spirituale prima che fosse divisa dal potere temporale; così come l’orso lo fu della casta kshatrya, la casta del potere temporale; e il nome di re Artù, principe dai cavalieri della Tavola Rotonda, echeggia Arth in brittonico ed arktos in greco antico; la nostalgia del Cinghiale Bianco è per quella restaurazione dello spirituale col temporale “secondo l’ordine di Melkisedek” – in cui consiste l’immutabile Ordine di “
Pace e Giustizia”, di Clemenza e Rigore voluto del Cielo, e
che nonostante i nostri sforzi di ometti contemporanei, tornerà.
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