Autore Topic: Da Battiato a miti di antiche civiltà, quando gli uomini non erano omuncoli  (Letto 620 volte)

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Offline Vicus

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La dipartita del grande artista, dalle convizioni un po' guenoniane, ha suscitato in Blondet uno dei suoi pezzi migliori sull'universo simbolico di civiltà nettamente superiori allo squallido presente materialista e in cui gli uomini contavano ancora. Al di là dei miti, molti insegnamenti sono senza tempo e trascendono le singole culture:

Nel 1903 uscì in India “The Arctic Home in the Vedas”,  in cui  Bal Gangadhar Tilak,  un mahratti  del ceto medio,  attestava che nei Veda c’è  il ricordo   che la prima  sede  (home)  dell’uomo indo-europeo nel Polo Nord, allora  beneficiato da  clima temperato; lo  provavano le indicazioni vediche delle costellazioni che   splendevano su quella   sede nordica.  Il libro è  molto citato (ma forse non altrettanto letto), tanto da diventare un luogo comune del New Age  sedotto dall’Induismo. Il fatto che Tilak fosse un insegnante e d attivista politico, e avesse scritto il libro   in polemica con  gli occupanti inglesi  (“Noi siamo più nordici di voi”), non contribuisce a rendere inattaccabile la sua tesi.

E tuttavia, il fatto che quei cacciatori di salmoni   del Baltico e  Mare del Nord e parlavano “l’idioma originario” con somiglianze al sanscrito, avessero   un ricordo  preciso di  venire da un  Nord assoluto, polare,  un paradiso terrestre climatico,  è  criticamente attestato nell’Edda, nel ciclo dal Ragnarok. Nel fatale crepuscolo degli dèi  contro  il destino e il Male,  Yggdrasill, l’albero cosmico, si scuote e seguono alluvioni, terremoti e catastrofi naturali. Cala un  inverno della durata di tre stagioni senza l’estate in mezzo; spariranno quindi Sól (il Sole) e Máni (la Luna): i due lupi (Skǫll e Hati) che, nel corso del tempo, perennemente inseguivano i due astri finalmente li raggiungeranno, divorandoli, privando il mondo della luce naturale.

E’ irresistibile constatare che qui si adombri l’evento di deviazione dell’asse terrestre; evento raro ma ricorrente di  cui la razza umana deve essere stata testimone e  coinvolta. Innumerevoli altri racconti   antichissimi  coincidono in modo stupefacente col RagnaRok.  Per brevità ci limiteremo a citare i testi degli arii dell’Iran, il Vendidad: dove si tratta del “mitico”  re Yima,  governante di quella isola polare, che fu avvertito da Ahura Mazda di “fatali inverni” opera del dio di tenebra,  che avrebbero reso inabitabile il regno: “Freddo per le  acque, freddo per la terra, freddo per  la vegetazione. Vi furono dieci  mesi d’inverno e due d’estate”: il clima artico di oggi.

I miti greci riguardanti “l’ultima Thule” divenuta gelata e nebbiosa consonano con i racconti  tolte chi sulla ormai irraggiungibile Tulla  nel Nord estremo: il nome allude alla Bilancia  (Tula in sanscrito), costellazione in cui allora era la  stella polare,  perché  vi avrebbe puntato a quel tempo l’asse terrestre . Poi “i cieli a settentrione scesero sempre più  in baso” (Li-Tze) e furono i fatali inverni.

La cosa da ritenere per  noi contemporanei è almeno questa: per  quei nostri progenitori, lo sconvolgimento cosmico fu  conseguenza di  un disordine spirituale di quella razza umana, di un “peccatum” (originale?)  che rese  quella razza un tempo longeva e che “parlava con gli dei” fragile, esposta al dolore  e  alla concupiscenza,  e alla morte precoce.

Non occorre  credere che Battiato fosse  chissà che “iniziato”, quando esprimeva nostalgia per le età del Cinghiale Bianco; bastano le nozioni che si apprendono nella letteratura  New Age o in Guénon ed Evola; e tuttavia  è un merito  anche solo aver evocato quella suggestione.

Il Cinghiale,  nei testi meno antichi è l’avatar di Vishnu; ma la prima versione di questa incarnazione,  è nella Taittirya Sanhita, che la  attribuisce  a Brahman,  il supremo.   E’  lui che in forma di immenso cinghiale bianco solleva la terra arida dalle acque primordiali con le  zanne. Nel Ramayana  è detto  che è Vishnu “in forma di Brahma”  che compie  l’atto cosmico; ciò si spiega con lo sbiadire di Brahman nella cultura indù, per il fatto che   gradualmente  è divenuto sempre meno  oggetto  di culto rituale; ed oggi non lo è affatto, come in modo analogo Indra, divinità dei cacciatori bianchi, è stato rimpiazzato da Shiva.

Ciò  che conta è che la parola cinghiale,   varaha in sanscrito, equivale a  “borea”   in greco (dove b e v si confondono) e in latino, ed anche nelle lingue anglo-germaniche:  l’inglese moderno stesso chiama il cinghiale “boar”. 

E’  il Nord che il nome  richiama;  quel Nord paradisiaco (Paradesha, “contrada suprema”) divenuto Agartha (inaccessibile), nozione da cui la mia giovinezza fu confermata nella nozione che il mondo moderno è un carcere  cieco [quanti uomini oggi e soprattutto quante donne sono in grado di capire questo?].

Ed è notorio che il cinghiale fu l’animale totemico dei brahmani e ugualmente dei druidi, sacerdoti della  religione celtica, rappresentanti dell’autorità spirituale prima  che fosse divisa dal  potere temporale; così come  l’orso  lo fu della casta  kshatrya,  la casta del  potere temporale; e il nome di  re Artù, principe dai cavalieri della Tavola Rotonda, echeggia   Arth  in brittonico ed  arktos in greco antico;  la nostalgia del Cinghiale Bianco  è  per quella restaurazione dello spirituale col temporale “secondo l’ordine di Melkisedek”  –   in cui consiste l’immutabile Ordine di “Pace e Giustizia”, di Clemenza e Rigore  voluto del Cielo,  e che nonostante i nostri sforzi  di ometti contemporanei, tornerà.

https://www.maurizioblondet.it/sperare-in-agartha/
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.