A queste sconceranti (e inconcludenti) affermazioni che, vero o no, sanno di debunker del potere, rispondo col magistrale primo capitolo di Complotti (titolo ironico) di Blondet. Ecco chi difende il "rosso" bhisma:
RULE BRITANNIA
Bianco, vecchiotto ma supremamente aristocratico, lo yacht imperiale Britannia apparve in vista delle coste italiane ai primi di giugno del '92. La regina Elisabetta e il principe consorte Filippo erano a bordo per la crociera che non era di piacere: imbarcati con le Loro Maestà, infatti, viaggiavano dirigenti della banca S.G. Warburg, della Baring Co., della Bzw, la ditta di brokeraggio
del la Barclay's Bank, e altri fra i più potenti finanzieri della City. Gente per cui, letteralmente, il tempo è denaro, e che ne ha poco da perdere in navigazioni di svago.
Infatti. Il 2 giugno il Britannia attraccò al porto di Civitavecchia. Solo per qualche ora: il tempo per imbarcare una bella quantità di ospiti italiani, appartenenti a un'altra classe che non ha tempo da buttare. Chi si fosse appostato alla banchina, avrebbe potuto veder salire sul panfilo imperiale, in rigorosa "cravatta nera", Giovanni Bazoli dell' Ambroveneto, Riccardo Gallo deir iRI [sold out], Antonio Pedone del Crediop, Mario Draghi del ministero del Tesoro, ed altri esponenti della finanza nostrana: capintesta delle Assicurazioni Generali e della Banca Commerciale, rappresentanti deii'ENI [for sale soon], deii'IRI, della Società Autostrade, e Beniamino Andreatta, di lì a poco ministro degli Esteri nel governo Ciampi.
Quando tutti furono saliti, il regale battello levò le ancore discretamente, per raggiungere acque extraterritoriali. A bordo, in un tintinnio di cristalli e tra nuvole profumate di sigari Avana, erano cominciati colloqui importantissimi.
Al riparo da orecchie profane e, come è bene notare, su territorio britannico.
Fu solo per suggestione se a qualcuno parve al lora di udire, dal la bianca nave, le paro le superbe dell'inno imperiale Britannia rules the waves, Albione comanda ai mari...
Di cosa parlarono quei signori? Sappiamo solo che si parlò di privatizzazioni, ossia di come dovesse avvenire la vendita delle aziende parapubbliche di cui lo Stato italiano era sul punto, volente o nolente, di liberarsi. Gli influenti italiani ospitati - gente dura, gente arrogante in patria, come ben sappiamo - ascoltarono col cappello in mano, devotamente umili, consigli e ingiunzioni che le bocche dell'Alta Finanza britannica impartivano loro. Quali consigli? Quali ingiunzioni? A nostro parere, fu suggerito un progetto economico-politico, che la "discesa in campo" di Silvio Berlusconi ha momentaneamente disturbato, e che ora si ricompone sotto i nostri occhi con l'irresistibilità degli "eventi naturali". Ma questo tema richiederebbe un altro libro e soprattutto anni di indagini. Per ora, basti notare questo: una questione di primario interesse nazionale fu trattata non già in sedi nazionali - al ministero del Tesoro ad esempio - ma segretamente sotto una bandiera straniera, in condizioni che non si possono che definire umilianti per il nostro Paese.
L'evento, in ossequio a desideri superiori, fu taciuto dalla grande stampa italiana. Del resto, essa era distratta: proprio in quei giorni il giudice Falcone era stato trucidato dal la Mafia (o dovremmo dire: da una Mafia) che gli aveva teso un tranello esplosivo fuori Palermo. l due eventi appartenevano, per così dire, alla stessa classe: entrambi provavano la condizione di "sovranità limitata" in cui versa il nostro Paese. Ma la bomba di Palermo era ben altrimenti vistosa rispetto a ciò che avveniva nei felpati salotti del Britannia.
Così, dei colloqui nella nave di Elisabetta si parlò solo mesi dopo: nel gennaio '93, un bollettino di intelligence che fa capo a Lyndon LaRouche (uno strano americano assai critico verso i poteri forti che dominano in USA, e perciò incarcerato da anni per "evasione fiscale"), mise a fuoco la faccenda. Il caso fu ripreso da un settimanale uscito da poco, L'Italia di Marcello Veneziani. Ne nacquero interrogazioni parlamentari: deputati come Antonio Parlato (MSI), come Raffaele Tiscar (DC), e la senatrice Edda Fagni (Rifondazione Comunista) chiesero di sapere dal governo Amato cosa s'erano detti, i finanzieri italiani e quelli inglesi, sul Britannia. L'unico a sentire il dovere di rispondere fu Mario Draghi, l'altissimo funzionario del Ministero del Tesoro che era salito sullo yacht quel 2 giugno: e ammise d'aver provato tale imbarazzo per l'umiliante convocazione sul panfilo inglese, da chiedere di leggere il suo discorsetto quando il panfilo era ancora attraccato a Civitavecchia, per poter scenderne subito, evitando di rimanere intrappolato su suolo britannico al largo.
Gli altri ospiti importanti della Regina non si degnarono di rispondere. A meno che non fosse una risposta l'articolo che apparve il 10 marzo seguente sul Corriere della Sera: cinque vaste colonne che il più importante giornale italiano dedicava a polemizzare con lo sconosciuto settimanale L'Italia, ridicolizzandone l'ipotesi che il caso del Britannia avesse rivelato il raro emergere - per usare le parole che Nicola Tranfaglia ha scritto in un altro contesto - di «una sorta di oligarchico governo invisibile, assai più forte ed efficace di quello che il Paese elegge di volta in volta con il metodo democratico». Il Corriere non negava i fatti, né ne offriva una sua interpretazione; si limitava a contestarne l'interpretazione "complottistica"; e più in generale bollava ogni passata e futura "teoria del complotto" come un vizio da impotenti, una fantasia di menti malate o malintenzionate, senza alcun fondamento nella realtà. Con molta, troppa foga e bile.
Va infatti notato: basta evocare la possibilità di un complotto, specialmente in questi tempi in cui in Italia accadono strane cose, per suscitare in certe zone dell'opinione pubblica, in certi giornali e giornalisti, reazioni spropositate e travasi di bile. Reazioni in cui non sospetteremo significati occulti: forse, semplicemente, esiste un tipo antropologico che non vuole esercitare la facoltà del sospetto, che spontaneamente si rifiuta di vedere il lato nascosto degli eventi; che ne difende la presunta trasparenza con tanta più foga, quanto più sospetta che ciò possa renderlo gradito ai poteri costituiti, o a chi gli paga lo stipendio. Ci troviamo qui di fronte al fenomeno plurimo del servilismo spontaneo, istintuale: atteggiamento umano diffusissimo.
Vogliamo forse dire che noi, invece, crediamo al "Complotto Universale"? Non è tanto semplice, purtroppo. Sappiamo - e lo mostreremo in queste pagi-ne - che ciò che chiamiamo "Complotto" faute de mieux, prendendo a prestito l'espressione usata per screditare il fenomeno che scandagliamo, è - prima che un "Progetto" - una "Cultura", una visione del mondo. Che si è formata negli ultimi tre secoli, si è nutrita di filosofie oligarchiche e messianismi iniziatici. Una mentalità condivisa in precisi centri del potere internazionali, che conduce al segreto meno per deliberato proposito, che per disprezzo aristocratico della "'massa": lorsignori, chiunque siano, non hanno bisogno di esporre i loro progetti al consenso del pubblico, e meno ancora al voto democratico. Sappiamo - e lo vedremo - che quei centri di potere si riuniscono anche in vere società segrete, in consessi da cui è esclusa la stampa; ma il segreto del Disegno, del "Nuovo Ordine Mondiale" che viene filato in quelle officine, è soprattutto protetto dalla sua stessa complicazione; dalle sue ramificazioni; dalla sua paurosa estensione nello spazio e nel tempo. Per la sua pluriforme vastità, la storia non può essere raccontata per intero da un uomo solo.
Il solo modo di affrontare questo tema illimitato è quello che adottiamo in questo libro: estrarre dei fatti d'attualità dal rumore di fondo della cronaca, mostrare singoli rizomi della proliferazione sotterranea del "Complotto", descriverli come fatti-campione, mostrandone i filamenti e le radicole, talora lunghissime, che li intrecciano inestricabilmente ad altri fatti spesso lontanissimi nello spazio e nel tempo, ma della stessa natura. Il metodo non è inedito; al contrario, è quello usato dagli oscuri eroi dei Servizi detti, non a caso, di intelligence: collezionare tàtti apparentemente lontani, mostrandone le relazioni e i collegamenti invisibili.
Abbiamo cercato dunque di sistemare alcune tessere su un mosaico che non saremo mai in grado di ricostruire completamente; ma quelle tessere bastano a !asciarne intravedere il disegno. Se ci si chiederà cosa ci ha spinti a questo, risponderemo che - oltre alla sciagurata disposizione a rendersi scomoda la vita - ci spinge un istinto di cacciatori e di archeologi e filologi: la voglia irresistibi le di inseguire una preda che tà di tutto per celarsi, e l'esercizio supremo dell'intelligenza, che consiste nel ricostruire da un filo la veste, dal dente l'anatomia dell'animale cui è appartenuto, da una parola un intero costume, una storia. L'ambizione più alta è di fare della complotti stica un 'arte congetturale, della "'Teoria del Complotto" un genere letterario; contaminazione di informazione e sospetto, di giornalismo e illazione. In cui si esercita la difficile arte dell'allusione per descrivere una realtà inafferrabile.