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L'università uccide la curiosità e la voglia di conoscenza

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Vicus:
Da Blondet.

Ricevo questa mail:

“Sono Costantina V.

Le scrivo perchè sono rimasta molto colpita dall’articolo che ha pubblicato sull’architettura di Roma e, se non è troppo disturbo, vorrei farle una piccola richiesta: potrebbe consigliarmi qualche libro interessante in questo senso?

Anche a me piacerebbe avere questa cultura!

Ma come si fa?

Temo che iscrivendomi all’Università finirei col perdere ogni interesse: infatti sono già laureata in giurisprudenza, ma ho trovato l’esperienza universitaria terribilmente deludente.

Invece se mi aiuta lei, di sicuro riuscirò a tener viva la curiosità per questi argomenti.

Forse le sembrerò molto ingenua, e probabilmente lo sono davvero.

Ma da qualche parte devo cominciare, ho atteso fin troppo”.

Costantina ama l’architettura e l’arte, è disposta a studiare.

Ma teme che, all’università, le ucciderebbero la voglia, la curiosità di sapere.

Anzi lo sa già, perché ha una laurea.

Questa è l’università in Italia: un parcheggio dove si ammazza ogni voglia di conoscenza.

Chi mi accusa di violenza verbale verso la Casta, forse qui avrà la spiegazione: altro che violenza verbale, urge la violenza fisica [questo lo scrive Blondet, non io] per liberare l’università dai parassiti che ne affollano le cattedre, risultati di una lunga selezione di leccaculo, mediocrità che uccidono la gioventù, spiritualmente e intellettualmente.

Vorrei tranquillizzare chi si può sentire scoraggiato: la “cultura di Blondet” è inarrivabile, ho perso troppo tempo… la cultura di Blondet è quella del buon liceo classico Parini di Milano, che ho frequentato negli anni in cui era ancora il liceo di Giovanni Gentile, già edulcorato e facilitato, ma non stravolto.

Il fatto che una cultura liceale sembri oggi superiore, non accusa gli studenti; accusa il livello a cui è scesa la scuola, il sistema d’istruzione.

Un proverbio americano dice: insegnare non significa riempire un sacco, significa accendere un fuoco.

In quel liceo accendevano ancora qualche fuoco.

Non ci evitavano le difficoltà, non ci facilitavano: anche questo era un modo di accendere il fuoco, le nozioni facili spengono.

Non ero un bravo studente (un sacco di 4 in latino, greco, algebra) ma ho imparato come imparare per tutta la vita.

Come studiare senza capire tutto dall’inizio.

Un esempio.

A Costantina ho consigliato “Perdita del Centro” di Hans Sedlmayr: libro capitale, che spiega l’arte contemporanea come sintomo della malattia spirituale dell’Occidente.

Ma poi mi sono pentito: è un libro difficile.

Sono quasi appunti delle lezioni di quel grande critico d’arte viennese – sarebbe stato bello sentirle a voce, quelle lezioni; e per di più Sedlmayr trae esempi dal mondo della cultura tedesca, cita architetti e artisti che ci sono ignoti (è vero che c’è qualche illustrazione).

E’ un libro che uno deve rassegnarsi a capire a sprazzi, per frasi illuminanti: ma questi sprazzi da soli valgono la fatica e la lettura; si viene cambiati da questo libro.

Tuttavia, richiede concentrazione.

Sono stati resi capaci, i giovani, di concentrazione?

Di leggere con sforzo e non abbandonare una lettura che non capiscono del tutto, così «frustrante»?

La frustrazione viene vinta dalla curiosità, dal fuoco di sapere.

Ma questa voglia deve essere creata.

Come?

Creando l’habitus mentale dell’avventuriero, dell’esploratore.

Infatti la cultura è un’esplorazione, più rischiosa che ficcarsi nelle foreste del Mato Grosso alla ricerca dell’arca perduta.

Non è cosa per cattedratici ed eruditi, ma da Indiana Jones.

Richiede coraggio, tenacia, apertura a sconvolgenti verità che ti renderanno per sempre diverso da quello che sei; devi esser pronto a perdere la fede in Dio o trovarla, dannare la tua anima o salvarla per sempre, essere divorato da draghi e superare prove iniziatiche.

Richiede lo spirito del cercatore di smeraldi che setaccia tonnellate di detriti per cercare una gemma, l’anima del pirata che ruba tesori da galeoni altrui.

La cultura è avventura, rischio e piacere: se non lo è, se annoia, non è cultura… ma bisogna imparare a distinguere la noia erudita, accademica, dallo smeraldo grezzo che vale lo sforzo.

E anche questo s’impara con la cultura.

L’habitus del pirata va creato «prima» della scuola.

Se ci sono mamme in ascolto, un suggerimento: ai loro bambini ancora analfabeti leggano le favole.

Ma non le fiabe moderne, inventate da pedagogisti, che parlano di ragionieri e di contabili.

Le fiabe che servono sono quelle antiche.

Quelle raccolte dai fratelli Grimm possono andare.

Esse sono parte di un repertorio invariabile che risale all’età della pietra, trasmesso fino ai giorni nostri.

Quelle fiabe, un tempo, erano miti di fondazione, e riti terribili: bambini mandati a perdere nel bosco, cappuccetti rossi divorati da lupi-totem, streghe con case di marzapane che bollono i bambini, principesse avvelenate dal fuso che le punge, orchi che li sentono all’odore e li cercano… storie da far paura.

Mamme, lasciate che i bambini abbiano paura delle fiabe che li affascinano.

La voce con cui li leggerete, la voce della mamma, basta a tranquillizzarli, non c’è pericolo.

Ma leggete loro queste fiabe da libri illustrati con illustrazioni antiche: niente pupazzetti disneyani, ma il Gatto con gli Stivali così inquietante, la strega bollitrice che sembra vera.

Soprattutto, non cercate di spiegare loro i simboli sottostanti, di «razionalizzare».

Un bambino di cinque anni non ha bisogno di «ragioni», ma di esempi affascinanti e incitanti.

Di sapere che nei libri ci sono cose tremende e misteriose, quasi incomprensibili, ma che rapiscono e danno voglia di entrare con Pollicino nella foresta spaventosa, di salire sul fagiolo che arriva fino al cielo… e che tutto questo è davvero possibile.

Anzi, che bisogna farlo.

Così faceva la pedagogia antica: raccontava di Romolo e Remo che succhiavano il sangue della lupa (la stessa lupa-totem di Cappuccetto Rosso? O un’altra lupa più atroce e misteriosa, che allevava guerrieri-lupo?), la guerra di Troia per amore di una donna [OK lasciamo perrdere, è Omero], con guerrieri che si sbudellano – e Omero descrive il sangue nero versato del morente, vi pare lettura da bambini?

E Muzio Scevola che si brucia una mano per spaventare il nemico, e i Curiazi e gli Orazi.

Le vite degli uomini illustri, vere o no (o più vere del vero), le vite degli eroi: modelli da imitare, esempi che accendono il fuoco a cose nobili ed alte, al rischio, al mistero che non si capisce.

Quand’ero bambino io, al Corriere dei Piccoli doveva esserci qualcuno che la pensava ancora così, perché il Corrierino cominciò a raccontare a puntate la storia di Sigurd.

E’ la storia più barbarica e atroce che esista, l’Oro dei Nibelunghi, la saga germanica.

Sigurd, avrei appreso più tardi, è noto come Sigfrido.

La storia era a fumetti, ben illustrata.

Ricordo il giovinetto biondo che misteriosamente fu addormentato dal mago, e si svegliò adulto; della spada spezzata, che a lui e non altri era destinata, e che fu ricomposta da nani metallurgici. Ricordo il guerriero che uccide il drago Fafnir, e si bagna nel lago del sangue di drago per divenire così invulnerabile; ricordo la foglia che si posò sulla sua spalla, e lo rese in quel solo punto mortale (Sigurd è l’Achille tedesco col suo calcagno vulnerabile), ricordo Brunilde dormiente fra mura di fuoco, e la sposa che segna con un ricamo il punto mortale di Sigfrido, e la sua morte, e gli Unni… Nulla veniva risparmiato, della sanguinosa storia di un’immortalità fisica quasi raggiunta ma tradita, eppure quasi quasi possibile.

Mia mamma mi lesse anche un libro illustrato con figure di guerrieri achei, nudi e con l’elmo crinito e la spada corta, credo si chiamasse «Le più antiche storie del mondo»: non mi fu risparmiata la storia degli Atridi, Clitennestra che col suo amante dà in pasto i suoi figli al marito Agamennone,

la catena di vendette.

Non mi fu risparmiato Edipo, la Sfinge e la sua profezia, il parricidio, l’incesto con la madre.

Dite voi, erano letture per bambini?

Non lo erano.

Uno può dire che la mamma ha fatto di me uno spostato asociale.

Infatti non ho finito l’università, non sono andato alla Bocconi, non ho fatto carriera, e dall’ultimo giornale per cui ho lavorato sono stato licenziato: un fallito.

Ma non mi lamento, anzi sono grato alla mamma.

Ho imparato che nel mondo e nei libri accadono cose tremende e incomprensibili, che la vita è un percorso di cui Sigurd è un modello, che vale la pena di volere l’immortalità; ho imparato che esiste il Fato imperscrutabile, e che quel che conta è combattere nobilmente, non vivere.

Non dico che vivo nobilmente: ma almeno ho quello come modello.

Favole, favole: per i bambini che non hanno ancora una mente, ma hanno già un cuore infiammabile – anzi il cuore come solo organo di comprensione; è il solo modo di impartire insegnamenti.

Si chiama, o si chiamava, «educazione dei sentimenti».

La scuola fa il contrario, oggi.

Essenzialmente, perchè è seguace di una pedagogia di stampo radicale, illuminista, di un illuminismo per di più residuale, fatto di dogmi minimi, che gli (o le) insegnanti accettano senza ripensarlo (salvo eccezioni).

Il dogma fondamentale di questa pseudo-pedagogia è quello di Rousseau: “L’uomo nasce buono e la società lo corrompe».

La realtà è evidentemente l’opposto: il bambino nasce non solo selvaggio, da civilizzare, ma anche «inclinato al male».

Come per ogni uomo, fare il male riesce più facile che fare il bene.

Il bambino va addestrato allo sforzo necessario, perchè non s’aspetti che quel che farà spontaneamente nella vita sarà «buono».

Tutto ciò che è buono è il risultato di sforzo, fatica e studio.

Il bambino nasce anche privo di quel che Freud chiamava «principio di realtà»: pensa che l’intero mondo sia al suo servizio, docile al suo imperio di piccolo megalomane barbaro, a tutti i suoi desideri.

Una pedagogia concreta, non ideologica, lo deve disilludere al più presto, facendogli «provare» che la realtà non è ai suoi ordini, e resiste ai suoi desideri e impulsi.

La pseudo-pedagogia ideologica commette un altro errore ridicolo: ritiene che ogni scolaro abbia, per diritto democratico, un «io».

E lo tratta di conseguenza come un piccolo adulto, come un cittadino di bassa statura.

Se fa il bullo, ricorrono alla «educazione alla legalità».

L’illuminismo di risulta ritiene che basta insegnare «Educazione civica» per far sorgere sentimenti d’onestà.

La lettura della Costituzione è ritenuta lo strumento educativo primario.

Ovviamente, il ragazzino capisce subito una cosa: che i «grandi» sono i primi a violare la Costituzione e a non praticare la «legalità», anzitutto i politici e il governo, la magistratura e il parlamento: e ne conclude che la «legalità» non è altro che ipocrisia e falsità.

Non a caso i ragazzi d’oggi sono allo stesso tempo cinici, disinformati e attratti (come rivelano i sondaggi) da modelli dittatoriali e autoritari.

Che almeno «funzionano» e sono meno ipocriti.

La pedagogia democratica ottiene il risultato opposto a quello che si prefigge: come spesso è accaduto ad ogni illuminismo progressista.

Si chiama «eterogenesi dei fini».

Un «io» non esiste come dotazione naturale.

L’«io», la personalità, si forma con l’educazione, lo scontro con la realtà e le esperienze dolorose.

E chi non sia accecato dall’ideologia vede che l’«io» si forma «dall’esterno verso l’interno».

Al principio, il ragazzino vuole, sente e pensa ciò che sente, vuole e pensa il gruppo, la banda dei coetanei; non ha desideri propri, ma i desideri «di tutti gli altri della mia età»: vuole gli stessi abiti, gli stessi segni di prestigio e riconoscimento che «hanno gli altri».

Privo di personalità, il ragazzino – specie adolescente – è dolorosamente conformista.

E’ anche falso, sempre perchè non ha un io.

La brava ragazzina in famiglia diventa la cubista dodicenne in discoteca.

Il ragazzino «normale» diventa uno del branco e commette gli atti odiosi o autodistruttivi del branco, quando si trova nel branco.

Dunque ha almeno due «io», entrambi posticci e provvisori.

Una pedagogia seria deve «unificare» gli io falsi e molteplici dal ragazzino.

In altre parole, aiutarlo a diventare «autentico».

Capace di chiedersi, ad un certo punto: cosa voglio veramente «io»?

Davvero voglio «come tutti»?

E’ la scoperta della solitudine radicale, solitudine feconda, da cui tutto può partire: per diventare un Leonardo da Vinci o un metalmeccanico orgoglioso del suo mestiere.

Anche per questo la scuola, prima della pedagogia ideologica, obbligava a indossare il grembiule: per nascondere i segni della diversa ricchezza, della diversità sociale.

Era più educativo dell’educazione civica, era l’educazione civica nei fatti: sotto il potere pubblico, tutti sono uguali.

Strano che questa pratica elementare di democrazia sia stata rigettata dai «democratici».

Poichè non ha un «io», il bambino è impermeabile ai concetti.

Non li capisce.

La comprensione del concetto, ossia del pensiero, è una conquista relativamente tarda (personalmente ne divenni cosciente verso i 16 anni, quando uno studente universitario che mi faceva il doposcuola mi avviò alla lettura di Thomas Mann, romanziere filosofico primario), e per molti non arriva mai.

La pseudo-pedagogia scolastica vuole impartire concetti, e si rende ridicola.

Una mamma mi racconta che la sua bambina, 9 anni, torna da scuola e pronuncia parole come «autotrofo» ed «eterotrofo».

Cosa vuol dire?, le chiede la mamma.

Lei: «Sono le alghe blu….».

Difatti, le alghe blu sono «autotrofe», nel senso che non ricavano il loro alimento da altri esseri viventi, ma dalla fotosintesi.

Ma la bambina non sa cosa farsi di quelle nozioni, premature, che le restano appiccicate insieme con la falsa idea di aver «imparato», di «sapere».

La stessa bambina torna da scuola e chiede: «Mamma, noi siamo ricchi? Me l’hanno chiesto i compagni».

Oppure torna da catechismo e chiede: «Mamma, io sono vergine?»

Voglio sperare, pensa spaventata la mamma.

Ma è solo che il prete ha raccontato di Maria Vergine, senza ben spiegare – come spiegare poi? – la verginità.

Ai bambini non bisogna impartire concetti.

Bisogna educare loro non il cervello (che non hanno ancora) ma il cuore.

Coi grandi esempi.

Per questo tutta la pedagogia classica consisteva nell’imparare il greco leggendo l’Iliade e le storie degli eroi, nel dividere la classi tra Achei e Troiani.

I testi di insegnamento si chiamavano «Vite degli uomini illustri» e «Vite parallele»: esempi di abnegazione, di coraggio eroico per lo Stato.

Nel Medio Evo, a tenere questo compito furono i racconti cavallereschi: educavano alla nobiltà d’animo, alla magnanimità, con l’esempio.

Esempi «belli», anzitutto: prima estetici che etici (l’etica è burocratica o moralistica, e i ragazzi del moralismo si fanno beffe, non a torto, se chi impartisce la lezione poi si comporta altrimenti…).

Infine, la scuola d’oggi facilita troppo.

Anche per colpa dei genitori: la scuola pubblica, che nacque per unificare un Paese dai cento dialetti e fornire le nozioni primarie per la sopravvivenza in una civiltà già alquanto avanzata, ora viene vissuta – dai genitori anzitutto – come un parcheggio degli insopportabili piccoli dittatori che loro stessi hanno creato a forza di merendine, telefonini a scarpine griffate.

Cinque o sette ore di quiete.

Il compito della scuola va ripensato: e anzitutto, le va ridata autorità.

L’insegnante è anzitutto un pubblico ufficiale: il genitore che lo malmena se dà i brutti voti al suo bulletto, commette vilipendio di pubblico ufficiale.

Certo, dovrebbe trattenersi dal malmenare o deridere il docente per altri motivi: anzitutto, per vergogna.

Ma siccome i genitori già non hanno conosciuto la Cavalleria, nè Sigfrido e le vite degli uomini illustri, non ci si può aspettare che abbiano sviluppato il nobile, estetico senso della vergogna.

Per loro, è «vergogna» non dare lo zainetto firmato e il telefonino ultimo modello.

I loro modelli sono i vari furbetti del quartierino, i divetti da quattro soldi della TV, gli «esempi» del fare soldi senza sforzo, nè cultura, nè studio.

Smetto per non essere troppo lungo.

Ma siccome c’è chi mi accusa di «non dare speranza» con le mie diagnosi spietate, replico: come vedete, posso dare delle ricette per una pedagogia migliore di quella imperante.

In questo campo non c’è niente da inventare.

L’ostacolo viene da altrove, ossia dalla società.

Provate a proporre un ripristino dell’autorità, del grembiule nero, della pedagogia basata sugli esempi eroici, e due italiani su tre, e tre insegnanti su quattro, grideranno: questo è «fascismo», reazione cattolica, irregimentazione autoritaria.

In Italia ogni riforma è impossibile perchè la società è troppo fratturata.

Non riesce ad accordarsi nemmeno su terapie elementari e chiarissime, nemmeno di fronte a fenomeni tragicamente evidenti.

Qualunque cosa si proponga, ci sono sempre potenti minoranze, o la maggioranza, che si oppongono con successo, in nome del «progresso» che non sanno più trasmettere, e che nasconde per lo più alcuni interessi costituiti.

E allora teniamoci le cubiste dodicenni, e i ventenni che ammazzano le fidanzate e nemmeno si vergognano.

Lasciamo che i nostri figli siano «educati» dai pubblicitari, dalla famiglia Costanzo e dai gestori di discoteche.

Non vorrei lasciare «senza speranza» le mamme riflessive allarmate, che capiscono il problema.

Si può fare ancora qualcosa, nonostante questa scuola?

In USA, 600 mila famiglie hanno ritirato i bambini dalle scuole, per sottrarli alla pseudo-pedagogia, e gli impartiscono l’insegnamento a casa.

Si chiama «homeschooling».

Il fenomeno è cominciato da gruppi molto coesi e solidali (dagli Amish), ma si è diffuso abbastanza.

Ovviamente, l’ «homeschooling» non è facile, se non si è Amish, ossia in famiglie allargate e concordi, che si aiutano a reggere il peso dei bambini.

Eppure, ci sono famiglie americane nucleari che fanno «homeschooling», affrontando i sacrifici inevitabili, fra cui quello di riprendere in mano i libri, e ripensare da capo, alla radice, «come» educare.

La difficoltà è facilitata però, in USA, da un interessante fenomeno: basta mettere «homeschooling» su internet e si scopre che ci sono insegnanti che offrono «pacchetti educativi», danno consigli, e mamme o papà che si scambiano le esperienze.

Ne cito solo alcune.

La prima: le mamme hanno scoperto che, dopo le elementari, bisogna insegnare il latino.

Lo hanno scoperto da sè: la lingua morta, fortemente strutturata, insegna il pensiero logico, così necessario per la modernità tecnico-scientifica.

Le mamme dell’ «homeschooling» hanno scoperto che l’insegnamento elementare deve essere «inattuale».

Non il computer, ma Shakespeare e i Greci.

Le basi perenni della civiltà, insomma.

Proprio in USA sanno che, senza queste basi, essenzialmente mitiche, letterarie e linguistiche,

si formano mostri magari bravi in una tecnica, ma incivili nel resto.

Sanno anche che un adulto di Wall Street non rileggerà più Shakespeare (o da noi Dante), e che la scuola è per molti la sola occasione di prendere contatto con i pilastri della cultura, su cui la civiltà occidentale si fonda.

C’è un altro consiglio che le mamme si scambiano tra loro: trovate dai rigattieri di libri usati le enciclopedie per ragazzi «degli anni ‘70».

Vecchie, cioè.

Come mai?

Perchè le enciclopedie più recenti o sono ultra-facilitate, con quiz e test con le risposte

pre-confezionate, dove si tratta di scegliere fra a), b) e c).

O sono enciclopedie piene di «autotrofi», di «archaepterix» e di illustrazioni naturalistiche, ma pochissima storia e scienze umane.

Le migliori fra esse sono enciclopedie da consultare, come un vocabolario, o come la Treccani: ma bisogna essere adulti e già colti, per consultare un’enciclopedia.

Le enciclopedie dei ragazzi anni ‘70 invece sono «storie» e «racconti».

Se parlano di scienza, lo fanno raccontando la vita di Pasteur, di Mendeleyev e di Madame Curie: gli «uomini illustri» su cui ci fondiamo.

Sono enciclopedie narrative, che affascinano con storie umane e insegnano a parlare e scrivere in modo articolato.

I quiz con le risposte a) b) e c) non sono in grado di insegnare il linguaggio, sicchè i bambini non sono capaci di riflettere e di comunicare.

Lo dicono le mamme americane.

Anch’io, ora che ci penso, devo molto all’Enciclopedia dei Ragazzi Mondadori, devo quella «cultura» che a molti sembra enorme, benchè siano stati all’università (e ne siano stati giustamente disgustati)…

Enciclopedia dei Ragazzi anni ‘60.

Bisogna ritrovarla, ci devono ancora essere nei magazzini di libri usati.

Paol:
Io mi perdevo per ore a leggere "Conoscere" e "La Scala d'oro" (fiabe).

Vicus:
Io appena terminata la lettura degli sproloqui dei baroni universitari (contenenti frasi come "fumisterie esoteriche" e "contemplazione del muro bianco della coazione a ripetere") per sopravvivere mi davo ad H. A. Innis e Siegfried Giedion

serligni88:
Provate a proporre un ripristino dell’autorità, del grembiule nero, della pedagogia basata sugli esempi eroici, e due italiani su tre, e tre insegnanti su quattro, grideranno: questo è «fascismo».

Purtroppo è così. Eppure sarebbe giusto rispolverare, tra le tante idee inattuali, l’adozione scolastica di una divisa, come nelle public schools britanniche. Sono le scuole dove i ceti dirigenti cercano di riprodurre nella generazione successiva la propria superiorità quelle che hanno più consapevolezza delle virtù della divisa.
Invece le scuole delle periferie degradate di tutto il mondo sono il regno della cosiddetta ‘libertà d’espressione’: tipo l'Italia, per dire.
La divisa limiterebbe o eviterebbe competizioni stupide tra narcisismi e ridurrebbe i motivi di distrazione. Sarebbe una soluzione semplice, economica.
Ed è per questo che rimarrà lettera morta.

Vicus:
Se ne discute spesso, ma nessuno coglie l'aspetto egualitario di un grembiule, scambiandolo con l'uniforme del Carabiniere.
Però a mio avviso non funzionerebbe: i figli di papà oggi vanno a scuola in jeans e maglietta, ma certe discutibili gerarchie permangono 

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