Il problema non sono i tempi, ma che i dannati si perdono per sempre e non dirlo alla gente significa metterli in pericolo.
Altra cosa è il Purgatorio per chi muore in grazia di Dio, può essere "lunghissimo" ma la salvezza è certa. Solo che bisogna appunto pentirsi, non pensare che ci si salvi sempre e comunque. Altrimenti si rischia quanto descritto fa Joyce, così genialmente che provocò delle conversioni (anziché l'opposto come certa "catechesi" di oggi):
«Ed ora cerchiamo per un momento di renderci conto, per quanto ciò è consentito, della natura di quella dimora dei dannati. L’inferno è una prigione angusta, tenebrosa, maleodorante, una dimora di demoni e d’anime perdute, colma di fiamme e di fumo. Le stretture di questa prigione furono volutamente escogitate da Dio per punire coloro che si rifiutavano di essere vincolati dalle Sue leggi. Nelle carceri di questa terra, il misero prigioniero ha per lo meno qualche possibilità di movimento, non foss’altro che tra le quattro pareti della cella o nel lugubre cortile della prigione. All’inferno non è così. Là, a causa del gran numero di dannati, i prigionieri vengono ammonticchiati insieme nel carcere spaventoso, le cui mura si dice abbiano uno spessore di seimilacinquecento chilometri: e i dannati sono legati in modo tale e talmente immobilizzati che, come un santo benedetto, sant’Anselmo, scrive nel suo libro sulle similitudini, non possono neppure togliersi dall’occhio un verme che lo roda.
«Giacciono immersi nelle tenebre. Poiché, ricordatevene, le fiamme dell’inferno non emettono alcuna luce. Come, per ordine di Dio, il fuoco della fornace di Babilonia perdette il calore, ma non la luce, così, al comando divino, il fuoco dell’inferno, pur conservando l’intensità del proprio calore, arde in eterno nelle tenebre. È una incessante bufera di tenebre, di scure fiamme e di scuro fumo che s’alza dallo zolfo ardente, e in essa i corpi vengono accatastati l’uno sull’altro senza neppure un filo d’aria. Di tutte le piaghe dalle quali fu colpita la terra dei Faraoni, una sola piaga, quella delle tenebre, venne definita orribile. E come dovremo definire, allora, le tenebre dell’inferno destinate a durare non già per tre giorni soltanto, ma per tutta l’eternità?
«L’orrore di questa angusta e buia prigione è intensificato dal suo puzzo spaventoso. Tutte le sozzure del mondo, tutti i rifiuti e le fecce del mondo, è detto, scorreranno laggiù come in una sconfinata, fetida fogna, quando l’incendio terribile del giorno del giudizio avrà purgato il mondo. E inoltre lo zolfo, che vi arde in così prodigiosa quantità, colma l’inferno tutto con il suo fetore intollerabile; e i corpi degli stessi dannati esalano un puzzo così pestilenziale che, come dice san Bonaventura, uno solo di essi basterebbe a infettare il mondo intero. L’aria stessa di questo mondo, un così puro elemento, diviene infetta e irrespirabile quando rimane chiusa a lungo. Pensate allora quale dovrà essere il fetore dell’atmosfera infernale. Immaginate qualche immondo e putrido cadavere rimasto a marcire e a decomporsi nella tomba, una massa gelatinosa di guasto liquame; immaginate questo cadavere gettato in preda alle fiamme, divorato dal fuoco dello zolfo rovente, sì da emanare i vapori densi e soffocanti d’una nauseabonda e schifosa decomposizione. E poi immaginate questo puzzo sconvolgente moltiplicato un milione di volte e un milione di volte ancora dai milioni e milioni di fetide carcasse ammonticchiate nelle tenebre puzzolenti, un enorme e marcescente fungo umano. Immaginate tutto ciò e potrete farvi una vaga idea dell’orribile fetore infernale.
«Ma questo fetore non costituisce, per quanto orrendo possa essere, la maggiore tortura fisica alla quale vengono sottoposti i dannati. Il tormento del fuoco è il più grande dei tormenti ai quali il tiranno abbia mai sottoposto i suoi simili. Ponete un momento il dito sulla fiamma d’una candela e sentirete il dolore del fuoco; ma il fuoco terreno è stato creato da Dio a beneficio dell’uomo, per mantener viva in lui la scintilla della vita e per giovargli nelle utili arti, mentre il fuoco dell’inferno ha ben altra essenza ed è stato creato da Dio per torturare e punire il peccatore che non ha voluto pentirsi. Il fuoco terreno, inoltre, consuma più o meno rapidamente a seconda che l’oggetto da esso aggredito sia più o meno combustibile, tanto che l’ingegnosità umana è riuscita addirittura a inventare preparati chimici per rallentarne o frustrarne l’azione. Ma la roccia sulfurea che arde nell’inferno ha una struttura tale da ardere per sempre, in eterno, e con indicibile violenza. Per di più il fuoco terreno distrugge nel momento stesso in cui brucia, per cui, quanto più esso è intenso, tanto più breve ne è la durata; ma il fuoco infernale ha questa proprietà, conserva ciò che brucia, e per quanto infurî con intensità incredibile, devasta in eterno.
«Il fuoco terreno, inoltre, per quanto impetuoso o diffuso possa essere, ha sempre un’estensione limitata; ma il lago di fuoco all’inferno è senza limiti, senza rive e senza fondo. Risulta che il demonio stesso, interrogato da un certo soldato, fu costretto a confessare che se un’intera montagna venisse gettata nell’oceano ardente dell’inferno, brucerebbe in un attimo come un pezzo di pece. E questo fuoco terribile non affligge i corpi dei dannati soltanto dall’esterno, ma ogni anima perduta è un inferno entro di sé, in quanto il fuoco che non ha limiti infuria nelle sue stesse viscere. Oh, quanto è tremendo il destino di quei miseri esseri! Il sangue fermenta e ribolle nelle vene, il cervello bolle nel cranio, il cuore nel petto si arroventa e scoppia, le budella sono una massa incandescente di polpa bruciante, i molli occhi fiammeggiano come globi fusi.
«Eppure, ciò che io ho detto per quanto concerne la forza, l’essenza, la vastità senza limiti di questo fuoco, non è nulla se lo si paragona alla sua intensità, un’intensità che esso possiede in quanto strumento prescelto dal divino volere per il castigo sia dell’anima sia del corpo. È un fuoco che deriva direttamente dall’ira di Dio e che agisce non già di propria iniziativa, ma come strumento della vendetta divina. E come le acque battesimali lavano l’anima entro il corpo, così i fuochi del castigo torturano lo spirito entro la carne. Ogni senso della carne viene tormentato, e insieme ai sensi ogni facoltà spirituale: gli occhi dalle estreme, impenetrabili tenebre, il naso da fetori infetti, le orecchie da urla e ululati di esecrazione, il gusto da sozza materia, da una corruzione immonda, da un’indicibile, soffocante lordume, il tatto da pungoli e punte incandescenti, da crudeli lingue di fiamma. E attraverso gli svariati tormenti dei sensi l’anima immortale è torturata in eterno nella sua intima essenza sulle leghe e leghe di ardenti fuochi accesi nell’abisso dalla maestà offesa di Dio onnipotente e ravvivati con furia eterna e sempre crescente dall’alito furente della bocca di Dio.
«Pensate infine che il tormento di questa prigione infernale è intensificato dalla compagnia degli stessi dannati. Una cattiva compagnia è, sulla terra, così nociva che le piante, come per istinto, si ritraggono dalla vicinanza di qualsiasi cosa possa danneggiarle o ucciderle. All’inferno tutte le leggi sono capovolte – non vi esistono considerazioni di famiglia, di patria, di legami o di rapporti. I dannati ululano ed urlano gli uni contro gli altri, in quanto i loro tormenti e la loro furia vengono accresciuti dalla presenza di esseri altrettanto torturati e furibondi. Ogni senso d’umanità è dimenticato [questo pare non succeda solo all'Inferno]. Le urla dei peccatori sofferenti colmano gli angoli più remoti del vasto abisso: le bocche dei dannati sono colme di bestemmie contro Dio e d’odio contro i compagni di tormento, di imprecazioni contro quelle anime che furono loro complici nel peccato. Nei tempi antichi, la costumanza voleva che si punisse il parricida, colui che aveva levato sul padre la mano assassina, gettandolo nelle profondità del mare chiuso in un sacco nel quale venivano posti un gallo, una scimmia e un serpente. L’intenzione dei legislatori che formularono una simile legge, ritenuta crudele nei tempi nostri, era quella di castigare il criminale con la compagnia di bestie schifose e pericolose. Ma cos’è mai la furia di quelle bestie incapaci di parlare in confronto al furore di esecrazione che esplode dalle labbra abbruciate e dalle dolenti gole dei dannati all’inferno, quando vedono nei compagni di tormento coloro che li indussero e li incoraggiarono al peccato, coloro le cui parole gettarono i primi semi dei cattivi pensieri e della vita peccaminosa nella loro mente, coloro le cui impudiche istigazioni li condussero al peccato, coloro i cui occhi li tentarono e li adescarono fuorviandoli dal retto sentiero della virtù? Essi si scagliano contro questi complici e li biasimano e li maledicono. Ma sono impotenti e senza speranza; è troppo tardi ormai per il pentimento.
«Pensate, in ultimo, al tormento spaventoso rappresentato per quelle anime dannate, siano esse di tentatori o di tentati, dalla vicinanza dei demoni. Questi demoni affliggono i dannati in due modi, con la loro presenza e con i loro rimproveri. Non possiamo farci un’idea della mostruosità di tali demoni; santa Caterina da Siena vide una volta un demonio e scrisse che anziché rivedere sia pure per un solo istante un mostro così spaventoso, avrebbe preferito camminare fino all’ultimo dei suoi giorni su un sentiero di braci ardenti. Questi diavoli, che un tempo furono angeli meravigliosi, sono divenuti schifosi e orrendi quanto in passato erano belli. Scherniscono e dileggiano le anime perdute da essi stessi trascinate alla rovina; e sono essi, i sozzi demoni, a rappresentare all’inferno la voce della coscienza. Perché hai peccato? Perché hai prestato orecchio alle tentazioni degli amici? Perché ti sei allontanato dalle pratiche devote e dalle opere buone? Perché non hai schivato le occasioni di peccare? Perché non hai abbandonato quel cattivo compagno? Perché non hai rinunciato a quell’abitudine libidinosa, a quell’abitudine impura? Perché non hai dato ascolto ai consigli del tuo confessore? Perché, anche dopo essere caduto per la prima, o la seconda, o la terza, o la quarta, o la centesima volta, non ti sei pentito della tua malvagità e non ti sei rivolto a Dio che aspettava soltanto il pentimento per assolverti dai peccati? Ormai, il momento di pentirsi è trascorso. Il tempo è, il tempo fu, ma il tempo non sarà mai più! Vi è stato il tempo di peccare in segreto, di indulgere all’ignavia e all’orgoglio, di bramare ciò ch’era proibito, di cedere agli stimoli della tua più vile natura, di vivere come le bestie del campo, anzi, peggio delle bestie dei campi in quanto esse, almeno, sono soltanto bruti e non posseggono la guida della ragione; il tempo è stato, ma non sarà più. Dio ti ha parlato con innumerevoli voci, ma non hai voluto ascoltarlo. Non hai voluto schiacciare l’orgoglio e l’ira che ti si celavano in cuore, non hai voluto restituire i beni male acquisiti, non hai voluto ubbidire ai precetti della santa chiesa né rispettare gli obblighi religiosi, non hai voluto abbandonare i cattivi compagni, non hai voluto evitare le tentazioni pericolose. Ecco il linguaggio di quegli aguzzini infernali, parole di scherno e di rimprovero, d’odio e di disgusto. Di disgusto, sì! Poiché persino loro, gli stessi demoni, quando peccarono, commisero quel peccato che solo era compatibile con così angeliche nature, la ribellione dell’intelletto; e loro, persino loro, i sozzi demoni, debbono scostarsi rivoltati e disgustati dalla contemplazione di quei peccati indicibili con i quali l’uomo degradato offende e profana il tempio dello Spirito Santo, contamina e corrompe se stesso.
«Oh, miei cari, giovani fratelli in Cristo, possa non toccarci mai di udire quel linguaggio! Possa non toccarci mai una simile sorte, vi dico! Io prego Dio con fervore che nel giorno ultimo della tremenda resa dei conti non una sola delle anime che sono oggi in questa cappella debba trovarsi tra gli esseri miserabili ai quali il Gran Giudice ordinerà di sparire per sempre dai suoi occhi; prego Dio che nessuno di noi debba mai sentirsi squillare nelle orecchie la spaventosa condanna di rifiuto: Via da me, maledetti, nel fuoco eterno preparato per il demonio e i suoi angeli!»
il peccato mortale viene punito all’inferno con due forme di castigo, il castigo fisico e quello spirituale.
«Orbene, di tutte queste sofferenze spirituali, quella di gran lunga più grande è la sofferenza della perdita; così grande, invero, da costituire, di per sé sola, un tormento maggiore di tutti gli altri. San Tommaso, il più grande dottore della Chiesa, il dottore angelico, come è chiamato, afferma che la peggior condanna sta in questo, nel fatto che la comprensione dell’uomo viene totalmente privata della luce divina, e il suo affetto deviato con ostinazione dalla bontà di Dio. Dio, ricordatelo, è un essere infinitamente buono e pertanto la perdita di un tale essere non può non essere una perdita infinitamente dolorosa. In questa vita, non abbiamo un’idea molto chiara di ciò che dev’essere una simile perdita, ma i dannati dell’inferno, per il loro maggior tormento, comprendono a pieno quel che hanno perduto, e capiscono di averlo perduto in seguito ai loro peccati, non solo, ma di averlo perduto per sempre. Nell’attimo stesso della morte, i legami della carne si spezzano e l’anima vola subito verso Dio come verso il centro della sua esistenza. Ricordate, miei cari giovani, che le nostre anime aspirano ad essere con Dio. Proveniamo da Dio, viviamo per volontà di Dio, a Dio apparteniamo: siamo Suoi, Suoi in modo inalienabile. Dio ama di un amore divino ogni anima umana, ed ogni anima umana vive in quell’amore. Come potrebbe essere altrimenti? Ogni nostro respiro, ogni pensiero della nostra mente, ogni attimo di vita procedono dall’inesauribile bontà di Dio. E se è doloroso per una madre essere separata dal figlio, per un uomo essere esiliato dal proprio paese e dalla propria casa, per l’amico essere allontanato dall’amico, oh, pensate quale sofferenza, quale angoscia deve provare la povera anima nell’essere respinta dalla presenza del Creatore supremamente buono e amoroso che quell’anima ha creato dal nulla e l’ha sorretta nella vita e l’ha amata con incommensurabile amore. Questo, dunque, l’essere separata per sempre dal suo bene più grande, da Dio, e il provare l’angoscia di tale separazione, sapendo anche troppo bene che è irrimediabile, questo è il più grande tormento che l’anima creata possa sopportare, poena damni, la pena della perdita.
«La seconda sofferenza che affliggerà le anime dei dannati all’inferno, è il dolore della coscienza. Come nei cadaveri i vermi vengono generati dalla putrefazione, così, nelle anime dei perduti, dalla putrefazione del peccato scaturisce un eterno rimorso, il pungolo della coscienza, il verme, come lo chiama Papa Innocenzo III, dal triplice aculeo. Il primo aculeo inflitto da questo verme crudele sarà il ricordo dei piaceri trascorsi. Oh, di quale spaventoso ricordo si tratterà! Nel lago della fiamma che tutto divora, il re orgoglioso ricorderà il fasto della sua corte, l’uomo sapiente ma malvagio le biblioteche e gli strumenti di ricerca, colui che amò i piaceri dell’arte, le statue e i dipinti e gli altri tesori artistici, colui che si compiaceva dei piaceri della tavola, i banchetti fastosi, i piatti preparati con tanta delicatezza, i vini scelti; l’avaro ricorderà il peculio d’oro, il ladro la ricchezza male acquistata, gli assassini iracondi, vendicatori e spietati ricorderanno gli atti di sangue e di violenza dei quali godevano, l’impuro e l’adultero gli innominabili e sconci piaceri dei quali si deliziavano. Ricorderanno tutto ciò e odieranno se stessi e i propri peccati. Fino a qual punto, infatti, sembreranno meschini tutti questi piaceri all’anima condannata a soffrire nel fuoco dell’inferno per epoche ed epoche. Come si infurieranno e smanieranno pensando di aver perduto la beatitudine celeste per i rifiuti della terra, per pochi pezzi di metallo, per onori vani, per gli agi del corpo, per un solleticamento dei nervi. Si pentiranno davvero; e questo è il secondo aculeo del verme della coscienza, un tardivo e sterile dolore per i peccati commessi. La giustizia divina vuole che l’intelletto di questi miserabili sciagurati si concentri senza posa sui peccati dei quali furono colpevoli, non solo, ma, come fa rilevare sant’Agostino, Dio comunica loro la propria conoscenza del peccato, in modo che essi vedano il peccato in tutta la sua laida perfidia, come appare agli occhi di Dio stesso. Contempleranno i propri peccati in tutta la loro bruttura e si pentiranno, ma sarà troppo tardi, e allora piangeranno le buone occasioni perdute. Questo è l’ultimo, il più profondo, e il più crudele aculeo del verme della coscienza. La coscienza dirà: hai avuto il tempo e il modo di pentirti e non l’hai fatto. I tuoi genitori ti hanno cresciuto nella religione. Hai avuto l’aiuto dei sacramenti, delle grazie e delle indulgenze della chiesa. Il ministro di Dio ha predicato per te, ti ha chiamato indietro quando t’eri smarrito, avrebbe perdonato i tuoi peccati, per quanto numerosi potessero essere, per quanto abominevoli, se solo ti fossi confessato e pentito. E invece no. Non volesti. Schernisti i sacerdoti della santa religione, voltasti le spalle al confessionale, affondasti sempre e sempre più nel fango del peccato. Dio ti chiamò, ti minacciò, ti implorò di tornare a Lui. Oh, quale onta, quale miseria! Il Reggitore dell’universo supplicò te, creatura di argilla, di amare colui che ti ha creato e di attenerti alla Sua legge. Ma tu no. Non volesti. Ed ora, anche se dovessi inondare tutto l’inferno con le tue lacrime, ammesso che ti fosse ancora possibile piangere, tutto quel mare di pentimento non ti procaccerebbe ciò che ti avrebbe procacciato una singola lacrima di pentimento sincero durante la tua vita mortale. Implori ora un attimo di vita terrena nel quale pentirti: invano. Quel tempo è passato; passato per sempre.
«Ecco il triplice aculeo della coscienza, la vipera che rode nel più profondo il cuore degli sciagurati all’inferno, per cui, colmi di furia infernale, essi maledicono se stessi per la propria follia e maledicono i cattivi compagni che li hanno condotti a tanta rovina e maledicono i demoni che li hanno tentati in vita e che ora li dileggiano per l’eternità e addirittura vituperano e maledicono l’Essere Supremo la cui bontà e la cui pazienza spregiarono e schernirono, ma alla cui giustizia e alla cui potenza non possono sottrarsi.
«L’altra sofferenza spirituale alla quale sono soggetti i dannati è la sofferenza dell’estensione. L’uomo, in questa vita terrena, benché capace di molte perfidie, non è in grado di commetterle tutte contemporaneamente, in quanto una malvagità corregge e fa da antidoto all’altra, proprio come, non di rado, un veleno serve da antidoto a un altro veleno. All’inferno, all’opposto, un tormento, anziché fare da antidoto all’altro, lo rende ancora più intenso: non solo, ma le facoltà interiori essendo più perfette dei sensi esterni, sono anche più capaci di sofferenza. Proprio come ogni senso è afflitto da un tormento adattato ad esso, la stessa cosa accade ad ogni facoltà spirituale; la fantasia è tormentata da immagini orribili, la sensitività da brame e furie alternantisi, l’intelletto e la comprensione da una tenebra interiore ancor più terribile della tenebra esterna che regna in quella prigione spaventosa. La perfidia, per quanto impotente, che possiede queste anime demoniache è un male di estensione illimitata, di illimitata durata, uno stato spaventoso di malvagità del quale a stento possiamo renderci conto se non teniamo presenti l’enormità del peccato e l’odio che Dio nutre contro di esso.
«Abbiamo poi, opposta a questa sofferenza dell’estensione e ciononostante coesistente con essa, la sofferenza dell’intensità. L’inferno è il centro di ogni male e, come vi è noto, le cose sono più intense al loro centro che nei loro punti più periferici. Né contrari né compromessi di qualsiasi sorta possono temperare o minimamente addolcire le torture dell’inferno. Anzi, le cose buone di per sé divengono malefiche all’inferno. La compagnia, altrove fonte di consolazione per gli afflitti, sarà laggiù un tormento incessante; la conoscenza, tanto bramata in quanto massimo bene dell’intelletto, vi sarà odiata più dell’ignoranza; la luce, tanto ambita da ogni creatura, dal signore del creato fino alla pianticella più umile della foresta, vi sarà odiata con intensità. In questa vita, le nostre pene o non si protraggono a lungo o non sono molto grandi perché la natura o le sconfigge con l’abitudine o pone termine ad esse cedendo sotto il loro peso. Ma all’inferno i tormenti non possono essere sopraffatti dall’abitudine, poiché, pur avendo essi un’intensità tremenda, variano al contempo continuamente, e ogni sofferenza, per così dire, si infiamma a contatto con l’altra e torna a fornire a quella che le ha appiccato l’incendio una fiamma ancor più impetuosa. Né la natura può sottrarsi a questi intensi e diversi tormenti soccombendo ad essi, in quanto l’anima è sorretta e mantenuta nel male in modo che le sue sofferenze possano essere grandi il più possibile. Una sconfinata estensione di tormenti, un’intensità incredibile di sofferenze, un’incessante varietà di torture… ecco quel che richiede la maestà divina, così offesa dai peccatori, ecco quel che esige la santità del paradiso, vituperata e ignorata per i libidinosi e bassi piaceri della carne corrotta, ecco ciò che vuole il sangue dell’innocente Agnello di Dio, versato per la redenzione dei peccatori, calpestato dai più abietti tra gli abietti.
«Ultima e culminante tortura di tutte le torture di quel luogo spaventoso è l’eternità dell’inferno. Eternità! Oh, terribile e atroce parola. Eternità! Quale mente umana potrà mai capirla? E ricordate, si tratta d’una eternità di sofferenza. Anche se i tormenti dell’inferno non fossero terribili come sono, diverrebbero ciononostante infiniti in quanto destinati a protrarsi per sempre. Ma mentre sono eterni, sono al contempo, come sapete, intensi in misura intollerabile, estesi in misura insopportabile. Sarebbe un tormento spaventoso sopportare per tutta l’eternità anche soltanto la puntura di un insetto. Che cosa non deve essere allora sopportare per sempre i molteplici tormenti dell’inferno? Per sempre! Per tutta l’eternità! Non per un anno o per un secolo, ma per sempre. Cercate di immaginare il significato spaventoso di ciò. Più volte avrete veduto la sabbia sulla riva del mare. Quale finezza hanno i suoi granelli minuscoli! E quanti di quei minuscoli granellini occorrono per formare il più piccolo pugno di sabbia che il fanciullo afferra giocando! E ora immaginate una montagna di questa sabbia alta due milioni di chilometri, dalla superficie della terra alle più remote sfere celesti, larga due milioni di chilometri, fino allo spazio più remoto, spessa due milioni di chilometri: e immaginate questa enorme massa di incalcolabili particelle di sabbia moltiplicata tante volte quante sono le foglie nella foresta, quante sono le gocce d’acqua nel possente oceano, quante sono le piume degli uccelli, le squame dei pesci, i peli degli animali, gli atomi nelle vaste propaggini dell’atmosfera: e immaginate che alla fine di ogni milione d’anni un uccelletto venga a portarsi via nel becco un granello minuscolo di quella sabbia. Quanti milioni su milioni di secoli non dovrebbero passare prima che l’uccelletto avesse portato via anche un solo decimetro cubico della montagna, quanti incommensurabili periodi su periodi di epoche non dovrebbero passare prima che l’avesse portata via tutta! Eppure, al termine di tale sconfinata estensione di tempo, non si potrebbe dire che fosse trascorso neppure un attimo dell’eternità. Alla fine di tutti questi bilioni e trilioni d’anni, l’eternità quasi non avrebbe avuto inizio. E se la montagna tornasse a risollevarsi dopo essere stata portata via per intero, e se l’uccelletto facesse ritorno e la portasse via di nuovo, granello per granello: e se la montagna dovesse così sorgere ed abbassarsi tante volte quante sono le stelle del firmamento, gli atomi dell’aria, le gocce d’acqua del mare, le foglie degli alberi, le piume degli uccelli, le squame dei pesci, i peli degli animali, alla fine di tutti gli innumerevoli sollevamenti e abbassamenti di tale montagna incommensurabilmente vasta, non si potrebbe dire che fosse trascorso un singolo attimo dell’eternità; anche allora, alla fine di un così lungo periodo, dopo le epoche incommensurabili del tempo, il cui solo pensiero fa sì che la mente sia scossa da violente vertigini, l’eternità quasi non avrebbe avuto inizio.
«A un sant’uomo (credo che sia stato uno dei nostri Padri) fu una volta concesso di avere una visione dell’inferno. Gli parve di trovarsi al centro d’una vasta sala, scura e silenziosa a parte il ticchettio di un grosso orologio. Il ticchettio continuava senza posa; e a questo santo sembrò che il suono del ticchettio fosse la ripetizione incessante delle parole: sempre, mai, sempre, mai. Sempre trovarsi all’inferno, mai trovarsi in paradiso; sempre esser precluso dalla presenza di Dio, mai godere della visione beatifica; sempre essere divorato dalle fiamme, roso dai vermi, pungolato da punte incandescenti, mai potersi sottrarre a quelle sofferenze, sempre sentire la coscienza avversa, la memoria infuriata, la mente colmata di tenebra e di disperazione, mai poter avere scampo; sempre maledire e ingiuriare i turpi demoni che diabolicamente gongolano per i tormenti dei loro gonzi, mai contemplare il manto luminoso degli spiriti eletti; invocare per sempre da Dio, piangendo, dal fondo dell’abisso di fuoco, un attimo, un solo attimo di sollievo da così spaventosa tortura, e non ricevere mai, neppure per un attimo, il divino perdono; soffrire sempre, non godere mai; essere dannati per sempre, non essere mai salvi; sempre, mai; sempre, mai. Oh, quale terribile castigo! Un’eternità di strazio senza fine, di tormenti fisici e spirituali senza fine, senza un sol raggio di speranza, senza un sol momento di tregua; un’eternità di tormento dall’intensità sconfinata, di strazio variato all’infinito, di tortura che tiene eternamente in vita ciò che eternamente divora, di angoscia che per sempre ossessiona lo spirito dilaniando al contempo la carne, un’eternità ogni istante della quale è di per sé un’eternità di sofferenza. Tale è il castigo tremendo decretato da un Dio onnipotente e giusto per coloro che muoiono in peccato mortale.
«Sì, un Dio giusto! Gli uomini, ragionando sempre da uomini, si stupiscono del fatto che Dio possa volere un castigo infinito ed eterno nelle fiamme infernali per un unico atroce peccato. Ragionano così perché, accecati dalla bassa illusione della carne e dalle tenebre della comprensione umana, non riescono a capire la laida perfidia del peccato mortale. Ragionano così perché non sono in grado di capire che se anche il Creatore onnipotente potesse por termine a tutti i mali e a tutte le infelicità del mondo, alle guerre, alle infermità, ai furti, ai delitti, alle uccisioni, agli assassinii, a condizione di lasciare impunito un peccato veniale, un solo peccato veniale, una menzogna, uno sguardo d’ira, un momento di voluta ignavia, Lui, il Dio grande e onnipotente, non potrebbe farlo perché il peccato, sia esso d’atti o di pensieri, è una violazione della Sua legge, e Dio non sarebbe Dio se non punisse il trasgressore.
«Dio vi chiama a sé. Gli appartenete. Vi ha creati dal nulla. Vi ha amato come solo un Dio può amare. Apre le braccia per accogliervi anche se avete peccato contro di Lui. Avvicinati a Lui, povero peccatore, povero peccatore smarrito. Questo è il momento propizio, questa è l’ora.»