Cissà se quereleranno il quotidiano La Verità:
La sofferenza di un padre trasformata in uno spot sulla lotta al patriarcato
Le parole di Gino Cecchettin al funerale della figlia son già divenute il manifesto di chi pretende la «rieducazione» del maschio. Persino a costo di sfruttare lutto e tragedia.
Nell’era dell’emotività in cui ci troviamo impantanati non c’è messaggio politico più efficace di quello lanciato da una vittima. La ragione annega in un turbinio di emozioni, l’empatia prende il sopravvento e rende meno lucidi, il cuore del pubblico è stimolato al punto giusto. Così si crea il terreno ideale in cui coltivare un discorso politico, che purtroppo il più delle volte è cinicamente indotto dall’esterno.
Era in effetti piuttosto difficile non commuoversi ascoltando il discorso pronunciato da Gino Cecchettin, padre di Giulia, al termine del funerale della figlia nella basilica di Santa Giustina a Padova. Davanti agli occhi era ritto in piedi un uomo dignitoso, che appariva saldo nonostante il macigno di dolore che gli è precipitato addosso: la morte della moglie prima, l’omicidio della sua bambina poi.
Eppure quel discorso era innervato di politica, anzi era quasi tutto politico, e con un bersaglio piuttosto preciso. «Il femminicidio è spesso il risultato di una cultura che svaluta la vita delle donne, vittime proprio di coloro avrebbero dovuto amarle», ha detto Cecchettin, mostrando di avere idee piuttosto chiare in merito. «Ci sono tante responsabilità, ma quella educativa ci coinvolge tutti: famiglie, scuola, società civile, mondo dell’informazione», ha continuato.
Il padre di Giulia si è rivolto ai maschi, invitandoli a sfidare «la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali. Dovremmo essere attivamente coinvolti, sfidando la diffusione di responsabilità, ascoltando le donne e non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione personale è cruciale per rompere il ciclo e creare una cultura di responsabilità e supporto».
Poi Gino Cecchettin ha parlato della scuola: «Dobbiamo investire in programmi educativi che insegnino il rispetto reciproco, l’importanza delle relazioni sane e la capacità di gestire i conflitti in modo costruttivo per imparare ad affrontare le difficoltà senza ricorrere alla violenza», ha scandito. «La prevenzione della violenza inizia nelle famiglie, ma continua nelle aule scolastiche, e dobbiamo assicurarci che le scuole siano luoghi sicuri e inclusivi per tutti».
Subito dopo, si è concentrato sul ruolo dell’informazione. «Anche i media giocano un ruolo cruciale da svolgere in modo responsabile. La diffusione di notizie distorte e sensazionalistiche non solo alimenta un’atmosfera morbosa, dando spazio a sciacalli e complottisti, ma può anche contribuire a perpetuare comportamenti violenti», ha detto. «Chiamarsi fuori, cercare giustificazioni, difendere il patriarcato quando qualcuno ha la forza e la disperazione per chiamarlo col suo nome, trasformare le vittime in bersagli solo perché dicono qualcosa con cui magari non siamo d’accordo, non aiuta ad abbattere le barriere. Perché da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti».
In conclusione, l’appello alle forze politiche affinché mettano «da parte le differenze ideologiche per affrontare unitariamente il flagello della violenza di genere. Abbiamo bisogno di leggi e programmi educativi mirati a prevenire la violenza, a proteggere le vittime e a garantire che i colpevoli siano chiamati a rispondere delle loro azioni», ha detto Cecchettin. «Le forze dell’ordine devono essere dotate delle risorse necessarie per combattere attivamente questa piaga e degli strumenti per riconoscere il pericolo».
Un discorso tutto politico, certo, tutto politico. Ma le parole che escono dalle labbra di una vittima non si possono contestare: sono bagnate nel dolore, hanno la potenza dell’emozione a fare da scudo. Quindi - benché politico e dunque discutibile - il ragionamento di Cecchettin diviene una sorta di comandamento, un manifesto di cui una bella fetta di commentatori da tastiera e politici in carenza di idee non hanno esitato ad appropriarsi. Ora che persino lui (il padre di Giulia!) lo ha evocato, contestare l’esistenza del patriarcato attirerà immediata scomunica. Ora che lui (il padre di Giulia!) ha chiesto precisi interventi nelle scuole, come potrà la politica negarli? Sarebbe come vilipendere la memoria di una ragazza barbaramente uccisa. Ed ecco che, sull’increspatura delle lacrime, il discorso della vittima diviene dogma. Con tutta evidenza, è stato un’ideologia politica a ispirarlo, ma l’influenza passa decisamente in secondo piano, occultata dalla pervasività dell’emozione.
Intendiamoci bene: la vittima ha realmente diritto di dire ciò che vuole, e il dolore deve realmente essere al riparo da ogni critica. Ma il discorso politico, quello no. Quello riguarda tutti, e perciò deve essere sottoposto al vaglio della differenza; deve essere masticato e digerito, analizzato e criticato. Il problema sorge quando - come in questo caso - la politica si fa consapevolmente scudo dell’emozione, sfrutta il dolore per imporsi. È lacerante notarlo, ma l’intera vicenda di Giulia Cecchettin ha subito questo destino: è stata utilizzata per rafforzare un pensiero politico, per imporlo e interrompere ogni discussione a riguardo. La famiglia - che legittimamente e comprensibilmente esprimeva i propri sentimenti e le proprie convinzioni - è stata cinicamente tramutata in un cartellone pubblicitario della lotta al patriarcato. La sua sofferenza ha fatto da carburante a un marchingegno ideologico subdolo, che al solito è riuscito a macinare risultati. Ancora una volta, il pensiero prevalente ha usato le vittime a proprio beneficio, con la complicità di media e politici, e certo non esiterà a dimenticarle quando sarà il momento.[...]