Questo scrive Gramellini:
La storia della ragazza catanese di tredici anni stuprata dal branco sotto gli occhi del fidanzatino non è scivolata un po’ troppo in fretta nelle retrovie della nostra attenzione? Mi chiedo: se i sette violentatori fossero stati dei giovanotti della Catania-bene, quel racconto da incubo non avrebbe giustamente inondato le piazze mediatiche col frastuono di mille indignazioni, e adesso non saremmo tutti qui a interrogarci sui valori della generazione che abbiamo allevato e sulla insostenibile persistenza di una cultura patriarcale?
Nel caso di Catania, invece, i violentatori sono nordafricani e scatta inesorabile, anche in me, la trappola dell’imbarazzo autocensorio, alimentata da un pregiudizio che esiste e non è semplice da rimuovere. Perché, se racconto di sette giovani catanesi che hanno violentato una ragazzina, nessuno penserà che io ce l’abbia con Catania né si sentirà autorizzato a guardare male il primo catanese che passa. Mentre quando gli stupratori sono africani, il timore — per non dire la certezza — di alimentare il pregiudizio razzista induce a ignorare un dato di fatto, a tacere un pezzo di realtà e a dare meno risalto alla notizia. Però così si finisce per eludere un dibattito serio sul contesto sradicato e spesso mal gestito in cui vivono tanti adolescenti maschi appena sbarcati in Italia. E per commettere un torto ulteriore verso quella ragazza, facendola sentire una vittima di serie B.