Dopo una serie di topic in cui si suggerisce che la Chiesa è una secolare impostura ordita da una cricca di sodomiti, e la fede cattolica un sottoprodotto politico della Lega di Smalcalda, un assaggio di VERO cattolicesimo (grassetti per chi va di corsa):
FONTE:
www.edificatisullaroccia.itAll’indomani della
canonizzazione di John Henry Newman (1801-1890) viene spontaneo affacciarsi furtivamente al di là della storia, chiedendosi se la straordinaria figura di questo
convertito non segni una sorta di misterioso passaggio dall’era dei martiri a un’era dei confessori nella prospettiva di una nuova fioritura spirituale e culturale del cattolicesimo inglese, che nel secolo appena trascorso ha espresso
nomi di grande risonanza come John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) o di un certo peso (in tutti i sensi) quale
Gilbert Keith Chesterton (1874-1936).
Duramente perseguitati dall’età della Riforma, considerati a lungo pericolosi eversivi, nemici di uno Stato che tuttora ha nel sovrano il vertice insieme politico e religioso della nazione anglicana,
privati della gerarchia, costretti a celebrare la messa di nascosto, i cattolici inglesi e irlandesi hanno versato fiumi di sangue tra i secoli XVI e XVII. Probabilmente lo stesso poeta e drammaturgo William Shakespeare (1564-1616) era tra quei «papisti» che vivevano e trasmettevano furtivamente la propria fede, all’ombra dei patiboli su cui si spargevano sangue e viscere dei loro correligionari, in un clima ben ricostruito dalla studiosa Elisabetta Sala (cfr., tra gli altri, L’enigma di Shakespeare. Cortigiano o dissidente?, Ares, Milano 2011; L’esecuzione della giustizia, D’Ettoris, Crotone 2017; L’ira del re è morte. Enrico VIII e lo scisma che divise il mondo, Ares, Milano 2018).
La carneficina fu avviata già sotto Enrico VIII (1491-1547), primo sovrano ad arrogarsi la supremazia sulla Chiesa inglese,
mietendo illustri vittime tra cui il suo stesso consigliere e già Lord Chancellor Thomas More (1478-1535) e il cardinale John Fisher (1469-1535), entrambi decapitati per ordine del re a breve distanza l’uno dall’altro.
Persino le loro teste si diedero il cambio: quella di Fisher fu esposta fino all’esecuzione di More, quando fu gettata nel Tamigi e sostituita da quest’ultima. La Chiesa cattolica li ha elevati agli altari con la beatificazione nel 1886 e la canonizzazione avvenuta nel 1935. A onor del vero, occorre ricordare che dal 1980 sono inclusi e celebrati anche nel martirologio anglicano. Sono solo i nomi più illustri di un elenco che include
centinaia di martiri, una quarantina dei quali formalmente canonizzati. L’ultimo a salire sul patibolo è il vescovo di Armagh e primate irlandese sant’Oliver Plunkett (1629-1681).
L’Act of Toleration del 1689 ferma le esecuzioni ma non l’emarginazione sociale dei cattolici che giunge fino al Novecento, ben oltre il pur incisivo Roman Catholic Relief Act del 1829.
Nel secolo XIX, tuttavia, sul suolo britannico fecondato da tanto sangue, spuntano i primi potenti germogli della fioritura di là da venire. Una «luce gentile» rischiara il futuro dei cattolici inglesi, ma comincia a splendere di nascosto, nella notte oscura dell’anima di uno
studioso e pastore anglicano che il 9 ottobre 1845 viene accolto nella Chiesa cattolica e poi sarà ordinato prete nella congregazione dell’Oratorio fondata da san Filippo Neri (1515-1595) e, ormai vecchio, riceverà la porpora cardinalizia (senza per questo superare le incomprensioni di parte romana oltre che, naturalmente, anglicana). Molti anni dopo
verrà beatificato da un pontefice recatosi appositamente in terra britannica e poi, qualche anno dopo ancora, canonizzato con tanto di erede al trono presente in San Pietro. Chi sono i punti di riferimento di un popolo, di ogni popolo? Il culto e l’epica, quindi un pastore e un aedo. Verranno l’uno e l’altro, anzi l’altro all’ombra dell’uno. L’Ottocento ha donato all’Inghilterra un dottore della Chiesa, almeno de facto: san John Henry Newman. Il Novecento le ha donato un’epica nell’opera di un noto docente di Oxford, proprio quel professor Tolkien che si dilettava di storie di elfi, di anelli misteriosi e strani linguaggi, cresciuto all’Oratorio sotto la guida di uno dei primi discepoli di Newman.
All’ombra di Newman
A poca distanza cronologica e geografica, anzi sarebbe meglio dire
a pochi passi da Newman si svolgeva la breve ma feconda parabola di una giovane donna che ha incarnato, per così dire, il lato femminile di quel passaggio dall’era dei martiri a quella dei confessori nel cattolicesimo inglese.
Libera al punto da vincere le perplessità familiari e raggiungere il futuro marito all’altro capo del mondo. Forte al punto da affrontare un’improvvisa e precoce vedovanza, crescendo da sola i due bambini senza far loro mancare nulla. Libera e forte insieme, al punto da perseverare nella fede cattolica contro tutto e tutti, preoccupandosi di non privare i figli di quella fede appena scoperta come una perla preziosa per la quale si dà in cambio tutto. Anche le comodità, anche la salute, morendo a soli 34 anni.
È un
martirio incruento ma non meno eroico, quello di Mabel Suffield (1870-1904). Un martirio che forse sarebbe rimasto ignoto, perdendosi col passare degli anni, sbiadendosi insieme alle rare foto superstiti e alla scritta che ne orna la semplice croce nel cimitero di Bromsgrove. Una scritta che riporta il suo cognome da sposata: «Mabel Tolkien died at Rednal november 14th 1904».
Sarà lo stesso professor Tolkien a rievocare il profondo legame tra la figura della madre e la Chiesa cattolica, un legame scolpito indelebilmente in lui dall’infanzia e suggellato dal martirio di Mabel. Ma questo legame ancestrale non si risolve nella vaga memoria di qualche pratica religiosa o, peggio ancora, solo nei tristi ricordi della malattia e della morte. Per lui e per il fratello minore Hilary Arthur Reuel (1894-1976) quegli anni di ristrettezze per i «postumi» sociali della conversione materna, sono segnati dall’allegria di Mabel, dalle passeggiate con lei, dalla cultura di questa mamma che
li istruisce personalmente trasmettendo – soprattutto al maggiore – l’amore per le lingue e per il disegno. Ne sappiamo poco, eppure le non molte pagine che le dedica Humphrey Carpenter (La vita di J. R. R. Tolkien, trad. it., Ares, Milano 1991) sono più che sufficienti a restituire vita a questa vicenda di oltre cent’anni fa, mostrandoci
una Mabel tutt’altro che «baciapile», persino un po’ scavezzacollo, che rifiuta comodità e appoggi familiari e si trasferisce all’ombra dell’Oratorio, ingegnandosi come può ed educando i figli meglio che può. Infine affidandoli a un sacerdote altrettanto brillante e simpatico (ma non certo di manica larga), quel padre Francis Xavier Morgan (1857-1935) che sarà un vero padre per i fratelli Tolkien rimasti soli al mondo.
Mab e Arthur
Mabel Suffield, detta «Mab», nasce nel gennaio 1870 da John (1833-1930) e da Emily Jane Sparrow (1837-1914) a King’s Heath, un sobborgo meridionale di Birmingham. È la quarta di sette fratelli: il primo è John (1859-1927), che ha lo stesso nome del padre; seguono Roland (1864-1952), Edith Mary, detta «May» (1865-1936) e, appunto, Mab. I più giovani sono Jane (1872-1963), William (1874-1904) e la piccola Rose (1879-1886). Il capofamiglia John Suffield, già mercante di stoffe, ha visto fallire la sua attività e deve ora guadagnarsi da vivere facendo il rappresentante. Destino simile a quello della famiglia di John Benjamin Tolkien (1807-1896), già costruttori di pianoforti, che ora devono guardarsi intorno, anche molto lontano: il figlio Arthur Reuel (1857-1896) si spinge fino in Sudafrica, dalle cui miniere emergono nuove possibilità per la sua carriera in banca. Tanta distanza può costituire persino un ostacolo minore della disapprovazione di Suffield per il legame che sboccia tra il (non troppo) giovane Tolkien e sua figlia Mab: tredici anni di differenza tra i due, decisamente troppi, e poi questi Tolkien sono immigrati tedeschi che mal si conciliano col suo orgoglio patrio.
Tuttavia, Arthur e Mab riescono a trovare le occasioni per vedersi (sotto l’occhio vigile di Suffield) e scambiarsi lettere (con la complicità di Jane, la sorella minore di lei). Nel frattempo la posizione di Arthur si va consolidando e Suffield, che pure ha imposto un rinvio del fidanzamento, deve cedere. Appena compiuti 21 anni, Mab si imbarca alla volta del Sudafrica per andare incontro ad Arthur: si sposeranno di lì a poco, il 16 aprile 1891, nella cattedrale anglicana di Città del Capo e andranno a vivere a Bloemfontein, capitale dello Stato Libero dell’Orange. Lontani mille miglia dalla patria, dalla casa, dall’occhio vigile di John Suffield: niente male per essere alla fine dell’Ottocento. Arthur ha una buona posizione, fa carriera, anche troppa, al punto che questo breve matrimonio vive il contrasto tra i sentimenti appassionati che legano i novelli sposi e le troppe separazioni imposte dall’attività bancaria. La principale diversità di vedute consiste nella nostalgia di Birmingham che Mab sperimenta, in quel luogo dal clima troppo inospitale, dove invece Arthur si trasferirebbe per sempre. Di certo non potranno tornare in patria troppo presto. Ciononostante Mab è al settimo cielo ogni volta che riesce a sottrarre Arthur al duro lavoro. Insomma, al di là dei sacrifici imposti dalla distanza e dal clima sudafricano (ma in fondo a quante coppie il lavoro impone nei primi anni di adattarsi a un nido non del tutto in linea con i propri sogni?), sembrano due persone baciate dalla vita. Mab è una ragazza carina e colta, Arthur è elegantissimo, con baffi folti e curati. Amano passeggiare, leggere, giocare a tennis e a golf. Hanno una buona posizione, una casa e persino la servitù con cui instaurano rapporti davvero affettuosi.
Cosa manca a tanta prosperità? Niente, perché Mab scopre ben presto di essere incinta e il 3 gennaio 1892 nasce il loro primogenito John Ronald Reuel Tolkien (sì, proprio lui), che papà Arthur, colmo di gioia, in una lettera a sua madre descrive con «occhi alla Tolkien e una bocca chiaramente “Suffield”». Il nome stesso è un compromesso: «Il primo nome del bambino sarà John, come suo nonno [eh già, ma quale dei due nonni: quello paterno (John Benjamin Tolkien) o quello materno (John Suffield)? n.d.r.] e probabilmente lo chiameremo John Ronald Reuel. Mab, infatti, vorrebbe chiamarlo Ronald, mentre io preferirei John e Reuel» (Carpenter, p. 53). Ancora più suggestive – profetiche? – sono alcune espressioni contenute nelle lettere di Mab, che paragona il piccolo a «un essere fatato» o addirittura a «un elfo»!
Cartolina di auguri natalizi della famiglia Tolkien (1892)
L’anno seguente giunge sua sorella May col marito Walter Incledon (1860-1950), anch’egli in Sudafrica per lavoro. È un grande conforto per Mab, che non vede l’ora di tornare in Inghilterra, mentre Arthur si sente sempre più a suo agio a Blomfontein. In ogni caso il viaggio è temporaneamente rinviato perché è di nuovo incinta. Il secondogenito Hilary Arthur Reuel nasce il 17 febbraio 1894, più sano e robusto del primo che invece comincia ad accusare gli effetti del clima locale.
Alla fine dell’anno viene programmato il viaggio in nave per tornare a Birmingham. Arthur, sempre intrappolato dal lavoro, raggiungerà appena possibile la moglie e i due bambini. Non li vedrà mai più. Hilary è troppo piccolo, ma nella memoria di Ronald resta impresso un ultimo ricordo del padre che prepara i loro bauli per il viaggio. Giungeranno in Inghilterra nella primavera del 1895, ma il sollievo di essere di nuovo a casa durerà poco. A partire dalla fine dell’anno dal Sudafrica giungono notizie preoccupanti sulla salute di Arthur, che morirà il 15 febbraio 1896. Ronald non farà in tempo a spedirgli l’ultima letterina.
Martirio incruento
È il primo sconvolgimento nella vita di Mabel, che
si ritrova vedova a soli 26 anni, con due bambini di 4 e di 2. Trascorrono i primi mesi in casa dei Suffield, mentre Mab gradualmente supera la disperazione prendendo in mano la propria vita. Sono anche i mesi in cui Ronald, che come il fratellino non aveva mai visto la patria, acquisisce familiarità con le storie di famiglia, tanto dei Suffield quanto dei Tolkien, e con il paesaggio inglese: il villaggio di Sarehole è la prima destinazione della giovane vedova che affitta una casetta accanto a un prato, un ruscello e un vecchio mulino che diventano teatro dei giochi dei due bambini. Un luogo idilliaco, se non fosse per la paura che incutono loro i due mugnai – quando non è Mabel a divertirsi camuffando la voce per spaventare i figli. Li istruisce, legge loro dei racconti e intanto trova grande conforto nella religione cristiana. Frequenta la High Church – la «Chiesa alta» anglicana che conserva alcuni elementi di continuità col cattolicesimo medievale, a differenza della Low Church, più radicalmente protestante.
Dal punto di vista religioso ci troviamo in un vero mosaico: Mab e Arthur si erano sposati e avevano battezzato i figli nell’anglicanesimo; il vecchio John Suffield è unitariano, in precedenza metodista; i Tolkien sono battisti. Entrambe le famiglie d’origine sono comunque anticattoliche.
Una vera complicazione quando Mab, la domenica, comincerà a portare i bambini in una nuova chiesa, St. Anne: una parrocchia cattolica, fondata mezzo secolo prima da Newman che qui radunava la prima comunità oratoriana.
Con lei inizialmente si converte anche sua sorella May. La Chiesa romana le accoglie entrambe nel giugno 1900 proprio a St. Anne. Però May non reggerà alla pressione e alle proibizioni del marito. Finirà per dedicarsi allo spiritismo.
Mabel invece resiste, nonostante la disapprovazione e l’abbandono dei familiari – con conseguenze anche economiche – senza temere qualsiasi sacrificio pur di educare i bambini alla fede cattolica. A questa prova si aggiunge anche l’abbandono del «paradiso» bucolico di Sarehole, perché Ronald è stato ammesso alla King Edward’s School. Tornano a Birmingham, la città influisce negativamente sull’umore e sulla salute del primogenito e Mabel continua a guardarsi intorno cercando un posto dove potessero vivere meglio e possibilmente vicini a una chiesa cattolica. All’inizio del 1902 si trasferiscono nei pressi dell’Oratorio di Birmingham, ancora saturo della presenza di Newman, morto pochi anni prima. Tra i suoi discepoli c’è padre Francis, che sopperisce all’emarginazione familiare subita da Mabel e provvede anche materialmente a Ronald e Hilary. Con grande franchezza e libertà di spirito – cioè senza tagliare i ponti ma senza doversi scusare di nulla – Mab continua ad aggiornare la suocera sui progressi dei figli e anche sul loro itinerario di fede: «Ronald a Natale [1903] farà la sua prima comunione […]. Non dico questo per rattristarla, ma solo perché lei sappia tutto di noi» (Carpenter, p. 74).
È il suo ultimo Natale, poiché le preoccupazioni e i sacrifici seguiti alla vedovanza e alla conversione ne stanno minando la salute. Trascorre alcuni mesi in ospedale, dove le viene diagnosticato il diabete, mentre i figli vengono mandati dai nonni e da una zia. In estate viene dimessa e, su proposta di padre Francis, riunita insieme ai figli si trasferisce a Rednal, nella dependance di una casa di riposo per i padri oratoriani voluta da Newman, sepolto proprio nel cimitero del parco che circonda la casa. Condivide l’abitazione col postino e con sua moglie, mentre i bambini, con tutto quello spazio, rivivono l’idilllio di Sarehole, almeno fino all’inizio delle scuole. Tuttavia non è il ritorno tra i banchi a segnare la fine della spensieratezza, ma l’aggravarsi e infine la morte di Mab, il 14 novembre 1904.
Prima di morire affida a padre Francis – che la assiste insieme alla sorella May – il compito di tutore dei figli, ruolo che il sacerdote onorerà fino in fondo, sul piano economico, educativo e religioso, senza far mancare loro né rimproveri né affetto.
Quella di Mabel Tolkien, nata Suffield, è una tragedia a viste umane, tanto più dolorosa
pensando che pochi anni prima c’erano tutte le premesse di una vita felice e realizzata. Eppure nelle parole di Ronald traspare la riconoscenza e anche una punta di orgoglio per essere il figlio di Mabel: «Mia madre è stata veramente una martire; non a tutti Gesù concede di percorrere una strada così facile, per arrivare ai suoi grandi doni, come ha concesso a Hilary e a me, dandoci una madre che si uccise con la fatica e le preoccupazioni per assicurarci che noi crescessimo nella fede».
E benché lo stesso Tolkien rifuggisse da allegorie forzate, di fronte alla leggiadria, all’eroismo, alle scelte anche dolorose delle grandi figure femminili della Terra di Mezzo, viene spontaneo chiedersi se non ci sia in tutte loro un po’ di Mabel.