http://www.giornaledelribelle.com/index.php?option=com_content&task=view&id=732&Itemid=10Sono ricorrenti i confronti fra l’attuale crisi economico-finanziaria e quella che si aprì col crollo di Wall Street nel ’29 e segnò tutti gli anni Trenta dello scorso secolo. Non essendo un economista non mi avventuro nell’analisi di analogie e differenze. Tante sono le sciocchezze che dicono e scrivono gli economisti patentati e accademici, talvolta premi Nobel: non vi aggiungerò quelle di un profano. Qualche considerazione di ordine storico-politico può tuttavia essere proposta.
Quella crisi portò con sé un crollo di fiducia nella bontà delle ricette del liberal- capitalismo, nelle virtù taumaturgiche del Mercato che si autocorregge. Da quella crisi uscirono rafforzate correnti di pensiero che si credevano alternative al sistema oppure orientate verso correzioni sostanziali dei meccanismi della libera concorrenza. Ne uscì rafforzato il fascismo, con le sue soluzioni dirigiste e autoritarie, col suo statalismo accentratore, col rilancio dell’ideale corporativo. Ne uscì rafforzato il comunismo, che già si configurava come una nuova fede laica con milioni di adepti in tutto il mondo, esaltati dai successi dei Piani quinquennali voluti da Stalin nell’URSS, proprio quando il capitalismo era sconvolto dalla crisi. Delle prime grandi purghe del regime, che fucilava non solo borghesi e agrari ma soprattutto comunisti non pienamente allineati, parlavano i “servi del capitale”: i fedeli della nuova chiesa le ignoravano. Ne uscì rafforzata la socialdemocrazia, che trovava nuovi riferimenti nelle proposte di politica economica di Keynes, proposte messe a punto e divulgate proprio in quel decennio.
L’esito di tutto quel travaglio fu la guerra più sconvolgente che l’umanità avesse mai vissuto, ma resta il fatto di un grande fermento di idee e di progetti alternativi.
Niente di tutto ciò nel quadro sociale, culturale e politico odierno. Calma piatta. Qualche protesta delle categorie più penalizzate, qualche vetrina infranta, qualche sciopero generale indetto da alcuni sindacati tanto per segnalare la loro esistenza in vita, fra il disinteresse generale e lo scetticismo diffuso. Nessun programma alternativo, nessuna vera mobilitazione, nessuna nuova bandiera a mettere in moto emozioni, le uniche capaci di unificare, di fare massa e di scagliarla contro i poteri dominanti. Nessun leader che emerga nella palude del disfacimento. L’ideologia dominante, che solo pochi emarginati continuano a contestare, è quella del libero Mercato, del sistema che trae linfe vitali proprio dalla sue crisi cicliche, della prassi liberal-democratica come grande vanto della civiltà occidentale che si fa mondo.
Come si spiega la contraddizione di una crisi sistemica che non provoca reazioni di massa contro il sistema stesso? Una prima risposta a questa domanda è la raffinatezza dei condizionamenti propagandistici di un potere totalitario quant’altri mai, un sistema che si impadronisce delle menti non con i metodi grossolani dell’indottrinamento politico e della repressione poliziesca, ma con la pubblicità commerciale, con la divulgazione capillare di un’ideologia attraverso strumenti apparentementi neutrali, non politici, come gli sceneggiati televisivi, le produzioni di Hollywood, la musica, le mode attraverso le quali il potere si appropria di atteggiamenti ribelli di una gioventù inquieta e sradicata svirilizzandoli e delegittimandoli.
Un’altra risposta è nelle dinamiche di società in cui la percentuale di anziani è crescente, e nella possibilità di deviare il malcontento verso le masse di immigrati, come se essi fossero la causa e non la conseguenza del nostro sfacelo.
Ma la risposta più convincente sta nel fatto che tutte le alternative possibili sono state sperimentate, e sono risultate perdenti o fallimentari. Fascismo, socialdemocrazia e comunismo non possono più attrarre perché hanno fallito o, come nel caso della socialdemocrazia, non sono più un’alternativa praticabile perchè poteva prosperare solo in presenza di una forte crescita e di bassi costi delle materie prime.
A ben guardare proprio questa caduta di tutte le possibili alternative, questa sorta di terra bruciata che il liberal-capitalismo si è fatto attorno a sé, è la grande risorsa che ci fa sperare. Pur nell’apatia generale si avverte nell’aria l’attesa e la certezza di una fine. Si odono non più soltanto scricchiolii ma gli schianti di un crollo. Allora l’apparente indifferenza è da interpretare piuttosto come quella sorta di sbalordimento che paralizza la volontà davanti a un disastro senza rimedio. Se le soluzioni che furono elaborate all’interno della logica economicista, materialista e progressista della Modernità sono tutte fallite, il grande sfacelo obbligherà gli inebetiti al brusco risveglio della consapevolezza che si esce dal sistema solo uscendo dalla Modernità. Questa è una grande speranza che si può già intravedere nella dura realtà dei fatti, non c’è bisogno di profetismi Maya per coltivarla. Il liberal–capitalismo è la Modernità nella sua espressione più compiuta e coerente. Essendosi sbarazzato di tutti coloro che lo contestavano sul suo stesso terreno, la sua fine sarà anche la fine della Modernità.
Concludendo, il parallelismo con gli anni Trenta è totalmente infondato se ragioniamo nei termini della riflessione politico-culturale. Resta la possibilità che le due epoche siano accomunate dall’esito che mise fine a quella crisi: l’opzione di una guerra che azzera tutto non per costruire un’epoca nuova ma per riprodurre il meccanismo di sempre attraverso il grande affare della ricostruzione.
Luciano Fuschini