Legittima difesa!
Quando ho partorito mio figlio ho capito che nessuno diceva la verità. Quell’ammasso di cellule senza senso dell’umorismo ha occupato il mio corpo e me lo ha restituito solo quando non gli serviva più. Si è fottuto la mia carne, il mio sangue e si è rintanato dove di solito prende più spazio la merda. E’ cresciuto e io pensavo volesse farmi scoppiare. Invece un bel giorno comincia a organizzare l’evasione e si mette a scavare. A morsi, a pugni, a calci: così allargava la strada. Tutti si preparavano a farlo arrivare nel posto giusto. La cosa più importante era stabilire chi fosse il padre. Poi mi portarono a urlare in un posto senza testimoni. Prima un bel clistere in culo, poi pancia all’aria e cosce spalancate. Non mi hanno lasciato neppure una vita privata. Me l’avevano rubata mentre mi riprogrammavano a fare “colei che ama suo figlio”. La bocca stava paralizzata sull’espressione “soave sorriso” e ogni giorno ripassavo la lezione.
- amore amore amore
- nutrire nutrire nutrire
- curare curare curare
- dare la vita per lui
“Sei felice?” – mi chiedevano. “Certo: essere madre è la cosa più bella del mondo!” – rispondevo con sorriso in funzione [ON]. Lui mi strappava la carne e tutt’attorno si preparava il party dell’anno. Pacca sulla spalla allo spermatozoo efficiente. Carezza riconoscente alla mia scorza d’uovo spezzata.
Di parto si può morire. Ma questo nessuno lo dice. Alcune lo sanno e per convincerle a stare al passo con la produzione hanno inventato un bel sistema: le mamme dormono e qualcuno estrae i figli da un altro buco. Si affetta la pancia che va un tanto al chilo. Come l’uovo di pasqua: lo rompi e esce fuori la sorpresa. L’importante è prenderli tutti. Belli, brutti, sani, malati. Certo sono tutti figli di Dio. Mi chiedevo: se è lui il padre perché cazzo li deve rifilare a tante povere disgraziate come me?
Mio figlio io lo odio. Come si odiano quelli che ti tolgono ogni cosa. Quando lui è nato già i miei diritti non esistevano più. Mi avevano dato solo un periodo di vacanza prima di cominciare. Poi basta. Finita. Non ho mai capito come sono arrivata a fare un lavoro del genere. Senza colloquio. Con un datore di lavoro in incognito che metteva in bocca a tutti ordini perentori:
- Bada a tuo figlio!
- Non senti che piange?
- Non sei una buona madre!
- Insegnagli l’amore… ore!
- Stai attenta a cosa vede in televisione… one!
Io non sono brava a seguire le regole. Però ho scoperto che se rompevo l’uovo prima del tempo ero già un’assassina. Se volevo regalarlo a qualcun’altra: quella si scansava oppure mi faceva sentire talmente di merda da farmi desiderare di morire. Mi sono chiesta: se non faccio figli non servo a niente? Allora ho partorito. Con dolore. E non è quel male che si vede nei film dove qualcuno ti dice: respira! E tu sfiati come un pallone che si sgonfia. No, non è stato proprio così. Piuttosto somigliava ad una enorme cagata. Immaginate uno stronzo infinito che si stacca dalle viscere. Ano e vagina diventano un buco solo. E mentre il parassita sloggia si scorda di rimettere in ordine. C’e’ chi lo fa di mestiere: ripulire i resti, rammendare. Due punti di sutura e tutto torna al posto giusto. Pronta per farne un altro. Ancora uno.
- Bisogna fargli la compagnia! – fa il ventriloquo con la bocca della mia parrucchiera.
Certo, come no. Due cicatrici, due cordoni ombelicali, due culi da pulire, due pance da saziare, due corpi da tenere in vita, due egoisti da soddisfare. Un figlio è già troppo. Così combatto tra riti, funzioni e sensi di colpa.
Mio figlio è un despota. Ha fame, ha sete, si ammala, si riempie di cacca, piscia, rigurgita, vomita. Non è un tamagotchi. Se non fai quello che vuole muore per davvero. Ed è colpa tua, mia. Mai di qualcun altro. Poi “ha bisogno d’affetto”. Non basta dargli da mangiare, da bere, pulirlo, curarlo. Bisogna stare sempre con lui. Non trascurarlo mai. Oppure tutto quello che farà nella sua vita è colpa tua, mia. E’ sempre colpa mia. Quella mattina non smetteva mai di piangere e io volevo solo leggere due pagine di un libro, guardare un po’ di televisione, uscire a prendere un po’ d’aria. Faceva sempre così. Ogni volta che veniva la mia amica urlava come un pazzo e mi toccava prenderlo in braccio e stare tutto il tempo con lui. La mia amica non è mai ritornata. Non avevamo più nulla da dirci. Con le bugie l’amicizia finisce. A lei avevano detto di non dire mai che non sopportava i bambini e a me di non dire mai che mio figlio lo volevo morto.
Io capivo anche che non potevo andare in giro con mio figlio. Disturbava e mi guardavano tutti come per dire: “Che madre di merda! Ma perché non ti tieni il figlio in casa, invece di portarlo dove si discute, si fuma, si fanno cose da grandi…?” Poi c’erano quelle che facevano le solidali. Due grattatine al mento e via. Mai che mi facessero una telefonata, una visita. Non lo capivano che è come stare in carcere: C’e’ bisogno di sapere cosa succede là fuori. Serve ripassare l’italiano perché altrimenti non si sa più parlare. Ricordare una risata, essere coinvolta nelle cose perché altrimenti la vita se ne va e hai come l’impressione di non poterla riacchiappare più. Ma il figlio me lo dovevo sucare io, anche se era tutto fuorchè mio. Dicono che è stata una mia scelta. Se è vero, non mi rendevo conto… Non lo sapevo. Nessuno mi ha mai detto la verità. Avevo una sola traccia: ogni tanto percepivo che mia madre di me se ne fotteva. Però mentiva. Le avevano detto di fare così.
Mio figlio non finisce mai. Non chiude, non sta zitto. Non smette mai di chiedere. E fuori c’e’ anche un tempo di merda. Che freddo. Era passato a trovarmi uno. O una. Non è importante. La notizia è che mi ha toccato e io volevo chiudere le orecchie e aprire gli altri sensi. Avevo licenziato quello che se ne occupava prima: sopportava di fare da se’ solo se mi occupavo del figlio. Altrimenti dovevo stare concentrata anche su di lui. Chiedergli di tenersi il bambino per concedermi qualche ora di libertà mi costava un eternità in ricatti e ritorsioni. Quell’uomo era così, non sopportava di essere spodestato. Come mio figlio: strillava se lo lasciavo solo. Gli chiesi di collaborare e lui trovò più semplice scappare.
Mio figlio è in piedi, nella culla. Sta urlando e io voglio finire questa cosa. Mi piace, cazzo. Mi sta toccando e sento umido. Ha finito e mi lascia così.
- Non me la sento di continuare. Il bambino guarda… Ci vede.
- Non me ne fotte niente. Allora cambiamo stanza.
- No, devo andare. Mi sento a disagio.
- Non andare, non lo vedi che sto per morire?
Evidentemente no. Mio figlio non ha problemi, sta bene. Allora deve starmi a sentire: “Che ti ho fatto di male io? Mi spieghi perché mi vuoi uccidere? Non lo sai che ci sono mamme che spengono i figli con i calmanti? Cosa devo fare io?”
Mio figlio un giorno sarebbe diventato uno stronzo più grande. Che altro può diventare uno che nasce con il solo scopo di uccidere sua madre? Quella mattina faceva freddo. Io ero rimasta a letto. La porta appena chiusa. Continuai da sola. Ogni carezza riportava in vita un grammo del mio corpo. Sentivo la mia pelle a spicchi, poco per volta. Avevo portato mio figlio accanto a me e ancora non smetteva di piangere. Poggiai una mano sulla sua bocca e l’altra continuava a procurarmi piacere. Acchiappavo la mia carne pezzo per pezzo. Volevo romperla per entrarci dentro. Il mio respiro era più rapido. Quello di mio figlio di meno. Sentivo i miei muscoli tendersi, piegarsi. Diventavo più forte. Così ho ricominciato ad esistere. Così mio figlio moriva.
Io o lui. Non ho avuto scelta. In ogni caso sarebbe stata colpa mia.Questa è la verità.
tratto da
http://femminismo-a-sud.noblogs.org/post/2006/11/23/legittima-difesa/