L’ISLAM, UNA MICIDIALE MACCHINA DI OPPRESSIONE
Postfazione al libro Il grande tradimento di Marco Casetta
di Guglielmo Piombini
Fonte:
http://web2.venet.net/libridelponte/det-articolo.asp?ID=165 Per il mondo occidentale e per il mondo islamico gli anni Settanta del XX secolo hanno rappresentato una profonda cesura storica con il proprio passato, ma di segno opposto. A partire dal Sessantotto l’Occidente è stato investito da una grave crisi culturale, che ha messo in discussione tutte le istituzioni (il capitalismo, il liberalismo, il cristianesimo, la famiglia tradizionale) che in passato avevano reso possibile la sua straordinaria espansione economica, scientifica e demografica. Dopo quasi mille anni di continua ascesa a livello globale, la civiltà d’origine europea, che al suo apogeo vittoriano costituiva oltre un terzo della popolazione mondiale e dominava su quasi tutto l’orbe terracqueo, cominciò una precipitosa ritirata spaziale (dovuta alla decolonizzazione) e demografica (per effetto del crollo delle nascite). La dominante ideologia progressista rappresentò, attraverso il rinnegamento del proprio passato storico e culturale, la razionalizzazione verbale del processo di ripiegamento dell’Occidente. Come scrisse l’analista americano James Burnham, “il progressismo liberal motiva e giustifica questa contrazione, e ci riconcilia con essa. È l’ideologia del suicidio occidentale”.
Per colmo della sorte, nello stesso periodo il mondo islamico si risvegliò dal suo plurisecolare torpore, entrando in una fase di forte radicalizzazione politico-religiosa, di rinnovata volontà conquistatrice e di boom demografico. Gli attentati violenti di matrice islamica divennero sempre più frequenti, con un’escalation a partire dall’11 settembre 2001. Dall’attacco alle Torri Gemelle al 4 luglio 2009 ne sono stati contati in tutto il mondo 13.521, con decine di migliaia di morti e di feriti. Sul piano demografico nel 1970 la popolazione dei paesi industrializzati era il doppio di quella del mondo islamico, ma nel 2000 risultavano pari: in soli trent’anni, mentre la popolazione del mondo industrializzato scendeva a livello globale dal 30 al 20 %, le nazioni musulmane passavano dal 15 al 20 %, e non è difficile immaginare come sarà la situazione nel 2020.
I rapporti con l’Occidente hanno cominciato così a rovesciarsi, e una numerosa, giovane e assertiva popolazione musulmana ha cominciato a insediarsi, con le buone o con le cattive, in un’Europa sempre più stanca e invecchiata. La presenza dei musulmani in Europa è passata in un paio di decenni da 500mila a più di venti milioni di persone, i quali hanno fondato in molti paesi (Francia, Belgio, Olanda, Gran Bretagna) delle “no-go areas” in cui si applica la sharia e i non musulmani non possono entrare. Gli imam proclamano apertamente le loro intenzioni di conquista dell’Europa e di riduzione dei nativi a dhimmi, cittadini di seconda classe costretti ad una precaria posizione subalterna.
Il rapido processo di colonizzazione islamica del vecchio continente, tuttavia, è stato favorito in larga misura da un’elite politica e intellettuale miope e ideologizzata, che sta cercando di fare dell’Europa un laboratorio di ingegneria sociale per l’applicazione delle proprie utopie multiculturaliste. La pericolosità dell’islam, infatti, non nasce tanto dalla sua forza intrinseca, quanto dalla debolezza spirituale dell’Europa “post-sessantottina”, che si manifesta, nella denatalità, nel relativismo, nell’odio di sé e nel rifiuto delle proprie radici spirituali. L’islam è solo un’infezione “opportunista” proveniente dall’esterno, ma il vero problema è il virus interno che sta corrodendo le autodifese culturali della società europea.
A conclusione dei lavori di un’importante conferenza internazionale che si è svolta a Roma il 13 marzo 2008 sul tema “Crisi di identità: la civiltà europea può sopravvivere?”, il professor Roberto de Mattei ha parlato di “Sindrome di Stoccolma” per spiegare l’atteggiamento psicologico che molti europei hanno nei confronti dell’islam, «avversario da cui si è intimoriti, talvolta terrorizzati, ma allo stesso tempo attratti, talvolta affascinati. Altrimenti non si spiegherebbe, la nascita e la diffusione di miti come quelli elaborati da Louis Massignon (1883-1962), Edward Said (1935-2003) e in Italia Franco Cardini, che vorrebbero rimuovere dalla memoria un millennio di conflitti tra l’Europa e l’Islam, in nome di esperienze assunte a modelli ideali quali l’Oriente felix, la società arabo-andalusa prima della Riconquista, o quella siciliana all’epoca di Federico II».
Lo studio obiettivo della dottrina e della storia dell’islam, cioè della teoria e dei suoi effetti concreti, conducono però a conclusioni ben diverse.
La natura dualistica dell’islam
In Occidente il dibattito sulla natura dell’islam verte prevalentemente su queste domande: l’islam è una religione pacifica o violenta? Tollerante o intollerante? Il vero islam è quello integralista o quello moderato? Esiste veramente un islam moderato? Questi interrogativi ricordano il vecchio dibattito scientifico sulla natura della luce, quando gli scienziati si dividevano tra la teoria corpuscolare e la teoria ondulatoria. Lo sviluppo della meccanica quantistica ha risolto in maniera dualistica e probabilistica la questione: la luce è sia una particella sia un’onda, a seconda delle circostanze e delle qualità che manifesta. L’islamismo ha una simile natura dualistica.
Il primo dualismo dell’islam ha origine dal Corano, che è composto in realtà da due parti tra loro molto diverse: la prima è stata composta alla Mecca quando Maometto era ancora politicamente debole, e presenta un contenuto generalmente pacifico; la seconda, che si riferisce al successivo periodo di Medina, quando Maometto aveva acquisito una maggior forza militare, ha un contenuto molto più violento. Poiché i capitoli del Corano (le sure) non sono sistemati in ordine cronologico ma per ordine di lunghezza, il risultato è un illeggibile guazzabuglio senza capo né coda, pieno di contraddizioni.
Superficialmente l’islam risolve il problema delle incoerenze presenti nel Corano con la teoria dell’abrogazione, secondo cui i versetti comunicati successivamente abrogano quelli precedenti con cui contrastano. Questo però non significa che i primi versetti non siano più validi, perché tutto il Corano rappresenta la perfetta parola di Allah, e tutti i versi sono veri e sacri. Quindi due versetti che dicono cose opposte sono entrambi giusti. L’islam rifiuta il principio di non contraddizione che sta alla base della logica occidentale, secondo cui se due affermazioni sono contrastanti, almeno una delle due è falsa. La logica islamica è dualistica: due affermazioni possono contraddirsi tra loro ed essere entrambe vere.
Quindi, se vogliamo sapere se per la dottrina islamica la jihad ha il significato di guerra santa violenta, o invece di sforzo interiore (come sostiene l’opinione “politicamente corretta”) dobbiamo intraprendere la lettura delle fonti principali dell’islam, e cioè il Corano, la sira (la vita di Maometto) e la tradizione (gli hadith, cioè i detti di Maometto). In questi ultimi la parola jihad si riferisce nel 97 % dei casi al primo significato, e nel 3 % dei casi al secondo.
Ci si può anche chiedere se l’islam sia una dottrina religiosa o politica. L’analisi delle tre principali fonti dottrinali ci dà questa risposta statistica: circa il 67 % del Corano scritto alla Mecca, il 51 % dei Corano scritto a Medina, il 75 % della sira e il 20 % degli hadith riguardano questioni politiche come la guerra santa o il trattamento dei non musulmani. Maometto predicò la sua religione per 13 anni, e convinse solo 150 seguaci. Poi passò alla politica e alla guerra, e in una decina d’anni, impegnandosi in atti di razzia e in battaglie mediamente ogni sette giorni nell’arco di nove anni, divenne il signore assoluto dell’Arabia.
Maometto quindi non ebbe successo come leader religioso, ma come leader politico e militare. Fin dalle sue origini, quindi, la dimensione politica dell’islam ha prevalso nettamente su quella religiosa e spirituale. Anche l’inferno islamico è un immenso carcere per i prigionieri politici. Nel Corano, infatti, ci sono 146 riferimenti all’inferno, e solo nel 6 % dei casi la dannazione riguarda una violazione morale come il furto o l’assassinio. Nel rimanente 94 % dei casi la punizione eterna viene comminata a coloro che sono in disaccordo con Maometto, cioè per “reati d’opinione”.
Il secondo aspetto dualistico dell’islam riguarda il concetto di umanità. L’idea giusnaturalista, tipicamente occidentale, secondo cui gli uomini nascono con gli stessi diritti alla vita, alla libertà e alla proprietà non esiste nel mondo musulmano, perché l’islam divide l’umanità in due parti: credenti e non credenti (kafir). I secondi, odiati da Allah, non sono esseri umani al pari dei primi. Nel Corano ci sono ben 14 versetti che affermano che un buon musulmano non può mai essere amico di un kafir. L’islam rifiuta quindi qualsiasi sistema etico universale. Negli hadith si legge ad esempio che un musulmano non dovrebbe mentire, imbrogliare, derubare o uccidere un altro musulmano, ma gli è permesso commettere queste azioni nei confronti di un infedele per la causa dell’islam. L’islam quindi non conosce la Regola Aurea presente nella tradizione giudaico-cristiana e in altri sistemi morali e religiosi, secondo cui non dobbiamo fare agli altri ciò che non vogliamo sia fatto a noi. La sua morale dualistica giustifica l’uso della violenza jihadista, perché i non credenti non hanno la stessa dignità umana dei credenti dell’islam.
È chiaro che l’islam, con la sua logica e la sua etica dualistica, è un sistema totalmente alieno alla nostra civiltà, e la difficoltà che hanno gli occidentali di comprenderlo deriva proprio da questa sua irriducibile estraneità. Il problema è che non può esistere un compromesso tra un sistema morale universalistico e uno dualistico. È impossibile entrare in una relazione di fiducia con qualcuno che, secondo il suo sistema di valori, è autorizzato a mentirti e a schiacciarti. Per questa ragione la politica, l’etica e la logica islamica non possono entrare a far parte della nostra civiltà. L’islam non può essere assimilato, perché per sua natura tende solo a dominare. Le sue pretese possono cessare solo con la completa sottomissione della controparte.
La Jihad, questa sconosciuta
Una gigantesca operazione di rimozione storica, che ha censurato dai testi di storia gli avvenimenti connessi a secoli di jihad (la guerra santa islamica) e di dhimmitudine (l’umiliante e insostenibile condizione dei non musulmani nelle terre governate dall’islam), spiega in buona misura l’attuale ignavia degli europei. Negli ultimi venti anni è molto cresciuta la letteratura sul mondo islamico, ma non è cresciuta altrettanto la percezione della minaccia che il fondamentalismo islamico costituisce per la civiltà in cui viviamo poiché numerosi sono stati gli studiosi che, dominati dalla preoccupazione di non essere accusati di coltivare pregiudizi eurocentrici, si sono prodigati per fornire una immagine rassicurante della religione fondata da Maometto. Nelle opere sull’islam di Franco Cardini, Alfonso Di Nola, Paolo Branca, Massimo Campanini, o di autori anglosassoni come John Esposito, Stephen Schwartz e Karen Armstrong, non si trovano che fugaci cenni alla guerra santa. Anche gli studi specialistici di Bernard Lewis, per tanti versi pregevoli, sono piuttosto carenti sui temi della jihad e della dhimmitudine.
In genere i manuali scolastici e le monografie sull’islam passano sotto silenzio le modalità con cui si svilupparono le conquiste islamiche, limitandosi a riportare frasi asettiche di questo tenore: “L’islam si espanse nell’ottavo e nel nono secolo…”, oppure questo o quel paese “passò sotto il dominio musulmano”. Gli autori usano ogni cautela per evitare di dire come l’islam si espanse, e come quei paesi passarono sotto il dominio islamico. Sembrerebbe che questi avvenimenti siano capitati da soli, quasi miracolosamente, o in maniera pacifica. La realtà è ben diversa.
Bill Warner, direttore Center for the Study of Political Islam, ha calcolato che la conquista e l’assoggettamento delle popolazioni cristiane in Medio Oriente, Anatolia e Nord Africa, che un tempo componevano circa la metà della Cristianità, ha comportato il massacro di almeno 60 milioni di persone; la conquista islamica della Persia ha portato alla cancellazione quasi totale dello zoroastrismo; nella sua avanzata verso est la jihad islamica ha provocato la morte di circa 10 milioni di buddisti, distruggendo ogni traccia di buddismo lungo la via della seta e in Afghanistan; l’invasione dell’India ha determinato l’annichilimento di metà della civiltà indù, e l’uccisione di 80 milioni di persone; le vittime della jihad nell’Africa subsahariana ammontano invece a più di 120 milioni tra cristiani e animisti.
Sommando tutte queste cifre si giunge alla conclusione che dal settimo secolo a oggi approssimativamente 270 milioni di “infedeli” sono morti per la gloria politica dell’islam: un numero di vittime che probabilmente supera quelle del comunismo, e che fa dell’islam la più grande macchina di oppressione e di sterminio della storia.
La jihad rappresenta quindi, per durata e per conseguenze, una delle istituzioni più rilevanti della storia umana, che ha sconvolto la vita di centinaia di milioni di persone per quasi 1400 anni. Eppure, a livello storico, è quasi completamente ignorata. Esistono migliaia di libri sulle crociate, ma almeno fino a qualche tempo fa non esisteva praticamente nessuno studio storico approfondito sulla jihad. Nell’Enciclopedia Britannica, ad esempio, viene dato alle crociate uno spazio ottanta volte superiore a quello della jihad: eppure le crociate furono solo una tardiva e limitata reazione a quattro secoli di ininterrotta guerra santa dei musulmani contro gli europei. Le crociate durarono meno di 200 anni (dal 1096 al 1270), sono cessate da 700 anni e geograficamente si limitarono alla Terra Santa, mentre la jihad islamica ha avuto un carattere universale e permanente.
Gli unici due testi che di recente hanno tentato di colmare questa lacuna sono Jihad in the West di Paul Fregosi, uscito nel 1998, e The Legacy of Jihad curato da Andrew G. Bostom, un ricchissima raccolta commentata di documenti storici pubblicata nel 2005. Uno dei pochi libri pubblicati in Italia che racconta questa storia cruenta è il libro di Camille Eid, A morte in nome di Allah. I martiri cristiani dalle origini dell’islam a oggi (Piemme, 2004). Per quanto riguarda lo status delle minoranze religiose nei paesi islamici, i dhimmi, quasi tutto quello che sappiamo si deve ai fondamentali studi pionieristici di Bat Ye’or.
La corruzione delle università occidentali
L’atteggiamento degli europei nei confronti dell’islam ricorda quello che fu, nel XX secolo, l’atteggiamento dell’Occidente nei confronti del comunismo. Questo paragone è calzante anche sul piano della conoscenza storica, perché l’Occidente ha acquisito consapevolezza della realtà del sistema terroristico e concentrazionario sovietico solo alla fine degli anni Settanta, grazie all’uscita di due libri duramente boicottati dai comunisti occidentali: Il grande terrore di Robert Conquest e Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn.
Oggi, nei confronti della storia e della dottrina islamica, il pubblico occidentale versa nello stesso tipo di ignoranza. Per esempio, quanti cristiani sanno come la Turchia o l’Egitto sono diventate islamiche? Quanti sanno cosa è successo alle Sette Chiese dell’Asia Minore menzionate nelle lettere di San Paolo?
Questa situazione si deve in larga misura al tragico fallimento delle facoltà di islamistica delle università europee e americane, i cui insegnamenti sono spesso corrotti da distorsioni ideologiche o dal denaro proveniente dai paesi islamici. Negli ultimi decenni, infatti, alcuni Stati musulmani hanno cominciato a finanziare nelle più prestigiose università occidentali, a scopo propagandistico, delle cattedre di islamistica che hanno il compito di presentare la religione maomettana nella luce migliore. Questo sistema pare difficilmente conciliabile con i principi di obiettività scientifica e di ricerca della verità che, fin dai loro albori medioevali, dovrebbero caratterizzare le università occidentali.
La cattedra di islamistica presso l’università olandese di Leida dell’intellettuale islamista Tariq Ramadan, ad esempio, era finanziata dal Sultanato dell’Oman; nel 2005 le università americane di Harvard e di Georgetown (dove insegna l’apologeta dell’islam John Esposito, diventato improvvisamente una delle massime “autorità” mondiali in materia) hanno accettato 20 milioni di dollari dal principe saudita Alwaleed bin Talal per programmi di studi islamistici; in precedenza le università dell’Arkansas, della California-Berkeley e di Harvard avevano accettato da fonti saudite rispettivamente 20, 5 e 2 milioni di dollari. In queste università l’esame critico delle fonti coraniche viene fortemente scoraggiato, e alcuni studiosi, come Daniel Easterman, hanno perso il posto per non aver insegnato l’islam nella maniera desiderata dai sauditi. Il risultato è che i laureati in studi islamici che escono dalle facoltà occidentali sanno tutto sulle presunte glorie della civiltà islamica (l’arte, l’architettura, la poesia o il sufismo), ma ignorano totalmente le immani sofferenze prodotte dall’islamizzazione delle culture “infedeli” preesistenti.
È difficile capire per quale motivo si permette ai sauditi, noti sostenitori del fondamentalismo islamico in tutto il mondo, di stabilire ciò che deve essere insegnato sull’islam alle future classi dirigenti dei paesi occidentali. Tuttavia, sebbene la corruzione dei petrodollari sauditi rappresenti un serio ostacolo allo studio critico dell’islam, i problemi maggiori sono di natura ideologica. Molti accademici europei e americani sono così immersi nell’ideologia anti-occidentale che, anche gratuitamente, sono ben felici di denigrare la propria civiltà e di esaltare quella islamica.
Il dibattito sull’islam all’interno nelle istituzioni culturali occidentali è stato infatti corrotto ideologicamente fin dall’uscita, nel 1979, del libro Orientalismo di Edward Said. Lo studioso apostata Ibn Warraq, che ha demolito le tesi di Said in un approfondito studio uscito nel 2007, Defending the West. A Critique of Edward Said’s Orientalism, ha osservato che il libro di Said, indicando nell’Occidente la causa di tutti i mali del Medio Oriente, ha contribuito a inculcare negli arabi l’arte dell’autocommiserazione, a favorire il risorgere del fondamentalismo islamico negli anni Ottanta e a ridurre al silenzio ogni critica intellettuale dell’islam: «Ho chiamato terrorismo intellettuale l’aggressivo tono di Orientalismo, perché non cerca di convincere mediante argomenti o analisi storiche, ma accusando di razzismo, imperialismo o eurocentrismo chi la pensa diversamente. Una delle sue mosse preferite è quella di dipingere l’Oriente come una vittima perpetua dell’imperialismo, del dominio e dell’aggressione occidentale».
In verità, osserva Ibn Warraq, se contiamo gli anni di protettorato britannico e francese in Medio Oriente, l’Egitto è rimasto sotto il controllo Occidentale per 67 anni, la Siria per 31 anni, l’Iraq per soli 15 anni, l’Arabia Saudita mai. Questi periodi coloniali non reggono il confronto con la Spagna meridionale, rimasta sotto il giogo musulmano per 781 anni; con la Grecia, che ha subito per 381 anni il dominio ottomano; o con Bisanzio, ancora oggi in mani musulmane.
Due tipi di dhimmi
Molti di questi intellettuali occidentali filo-islamici seguaci di Edward Said sono stati comunisti, terzomondisti, filocinesi o filocubani. Avevano trascorso la loro vita in attesa del grande evento rivoluzionario che avrebbe messo fine, una volta per tutte, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ma la caduta del muro, il crollo dell’Urss e la conversione della Cina al capitalismo li ha improvvisamente privati del loro sogno. Il risultato di questa perdita è una sorta di rancore permanente per il loro paese. La fiduciosa attesa del futuro si è trasformata in odio del passato. Dopo aver sognato di costruire un “mondo migliore”, oggi questi rivoluzionari invecchiati e inaciditi passano gran parte del loro tempo a distruggere la civiltà che li ha allevati e nutriti.
Oltre ai dhimmi oppressi e perseguitati che vivono nelle terre a maggioranza islamica, che meritano il nostro aiuto e la nostra compassione, esistono dunque dei dhimmi di un genere molto diverso, che vivono in Occidente. Questi dhimmi si sono sottomessi volontariamente all’islam, per opportunismo o per ideologia, diventandone apologeti. È fondamentale che questo secondo tipo di dhimmi venga sconfitto sul piano intellettuale. Per raggiungere questo obiettivo occorre confutare la loro versione falsificata della storia islamica, rendendo noto il destino tragico cui sono andati incontro tutti i popoli che nel corso della storia non sono stati in grado di opporsi alla jihad. Queste civiltà sono state completamente annientate, e in molti casi della loro cultura, lingua, arte, tradizione, legge, storia, si è quasi perso il ricordo. Quel che è peggio, l’islam non solo ha sradicato dalla faccia della terra le ricche e fiorenti culture che ha conquistato, ma sta cercando, con l’aiuto dei dhimmi apologeti, di cancellare anche la storia di questa distruzione.
Le brutalità della dhimmitudine e i 270 milioni di vittime della jihad sono troppe perché si possano dimenticare. Raccontandole pagheremo il nostro debito morale nei confronti di queste vittime semi-sconosciute, perché non siano morte invano. Occorre far capire che la cultura islamica non ha niente in comune con la nostra, e non ci potrà essere un compromesso, perché in ogni campo l’islam si contrappone radicalmente alle nostre più profonde concezioni religiose, filosofiche, morali, politiche, artistiche. L’islamizzazione significherebbe dunque la totale distruzione della nostra civiltà, esattamente come è accaduto ai cristiani del Medio Oriente e del Nord Africa, ai copti egiziani, ai cristiani nestoriani, ai zoroastriani o ai buddisti dell’Asia centrale.
Queste vicende storiche ci illuminano su quanto sta avvenendo oggi nei paesi presi di mira dalla jihad islamica. L’ignoranza è stata finora un comodo alibi per l’inerzia, ma la conoscenza costringerà gli europei a reagire. Quello dell’Europa è un sonno profondo, un letargo, forse un’anestesia provocata, ma il sonno non è la morte. Il sonno ha un termine, il sonno precede il risveglio. Per questo alla domanda se la civiltà europea sopravviverà, rispondo con convinzione di sì.