Autore Topic: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?  (Letto 59062 volte)

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Offline Giulia

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Re: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?
« Risposta #60 il: Dicembre 30, 2009, 00:35:06 am »
Personalmente considero la mia cultura ciò che ho appresso nel corso della mia vita e la mia storia è iniziata 35 anni fa. Di queste due cose ne vado fiero, eccome. Per il resto sinceramente non è che mi freghi più di tanto.

E scusate se è poco!

Poi c'è la storia e la cultura in generale. Ma non è che siano "mie".
caro giuby sfondi una porta aperta.
però la libertà individuale, la libertà di pensiero e di parola , il poter costruire i propri valori, avere le proprie idee, fa anch'esso parte della cultura occidentale.

per la cultura islamica - islam - sottomissione a dio-  musulmano servo di dio - l'individualità della persona,  il suo diritto   di scegliere ciò che ritiene per sé stesso più giusto   è intollerabile.


il termine xenofobo è usatissimo per condannare chi non segue la corrente imposta dai vari sinistri e destristi che cianciano di tolleranza, nonostante siano oramai note - per chi le ha vissute - le forti incompatibilità tra le due culture.

poi viene l'immancabile autoflagellazione della propria cultura e dei propri guai occidentali, e sì ce ne sono,  ma appunto già ci abbiamo i nostri...

Offline Ethans

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Re: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?
« Risposta #61 il: Dicembre 30, 2009, 00:42:29 am »
caro giuby sfondi una porta aperta.
però la libertà individuale, la libertà di pensiero e di parola , il poter costruire i propri valori, avere le proprie idee, fa anch'esso parte della cultura occidentale.

per la cultura islamica - islam - sottomissione a dio-  musulmano servo di dio - l'individualità della persona,  il suo diritto   di scegliere ciò che ritiene per sé stesso più giusto   è intollerabile.


il termine xenofobo è usatissimo per condannare chi non segue la corrente imposta dai vari sinistri e destristi che cianciano di tolleranza, nonostante siano oramai note - per chi le ha vissute - le forti incompatibilità tra le due culture.

poi viene l'immancabile autoflagellazione della propria cultura e dei propri guai occidentali, e sì ce ne sono,  ma appunto già ci abbiamo i nostri...


Quoto in toto Giulia anche se non ho grosse speranze in una pronta rinsavita dei nostri politici.

Tenendo conto anche del fatto che fare il politico non è una cosa facile. Proprio per un cazzo.

Offline Ethans

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Re: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?
« Risposta #62 il: Dicembre 30, 2009, 01:48:17 am »
L’ISLAM, UNA MICIDIALE MACCHINA DI OPPRESSIONE
Postfazione al libro Il grande tradimento di Marco Casetta
di Guglielmo Piombini

Fonte: http://web2.venet.net/libridelponte/det-articolo.asp?ID=165
 
Per il mondo occidentale e per il mondo islamico gli anni Settanta del XX secolo hanno rappresentato una profonda cesura storica con il proprio passato, ma di segno opposto. A partire dal Sessantotto l’Occidente è stato investito da una grave crisi culturale, che ha messo in discussione tutte le istituzioni (il capitalismo, il liberalismo, il cristianesimo, la famiglia tradizionale) che in passato avevano reso possibile la sua straordinaria espansione economica, scientifica e demografica. Dopo quasi mille anni di continua ascesa a livello globale, la civiltà d’origine europea, che al suo apogeo vittoriano costituiva oltre un terzo della popolazione mondiale e dominava su quasi tutto l’orbe terracqueo, cominciò una precipitosa ritirata spaziale (dovuta alla decolonizzazione) e demografica (per effetto del crollo delle nascite). La dominante ideologia progressista rappresentò, attraverso il rinnegamento del proprio passato storico e culturale, la razionalizzazione verbale del processo di ripiegamento dell’Occidente. Come scrisse l’analista americano James Burnham, “il progressismo liberal motiva e giustifica questa contrazione, e ci riconcilia con essa. È l’ideologia del suicidio occidentale”.

Per colmo della sorte, nello stesso periodo il mondo islamico si risvegliò dal suo plurisecolare torpore, entrando in una fase di forte radicalizzazione politico-religiosa, di rinnovata volontà conquistatrice e di boom demografico. Gli attentati violenti di matrice islamica divennero sempre più frequenti, con un’escalation a partire dall’11 settembre 2001. Dall’attacco alle Torri Gemelle al 4 luglio 2009 ne sono stati contati in tutto il mondo 13.521, con decine di migliaia di morti e di feriti. Sul piano demografico nel 1970 la popolazione dei paesi industrializzati era il doppio di quella del mondo islamico, ma nel 2000 risultavano pari: in soli trent’anni, mentre la popolazione del mondo industrializzato scendeva a livello globale dal 30 al 20 %, le nazioni musulmane passavano dal 15 al 20 %, e non è difficile immaginare come sarà la situazione nel 2020.

I rapporti con l’Occidente hanno cominciato così a rovesciarsi, e una numerosa, giovane e assertiva popolazione musulmana ha cominciato a insediarsi, con le buone o con le cattive, in un’Europa sempre più stanca e invecchiata. La presenza dei musulmani in Europa è passata in un paio di decenni da 500mila a più di venti milioni di persone, i quali hanno fondato in molti paesi (Francia, Belgio, Olanda, Gran Bretagna) delle “no-go areas” in cui si applica la sharia e i non musulmani non possono entrare. Gli imam proclamano apertamente le loro intenzioni di conquista dell’Europa e di riduzione dei nativi a dhimmi, cittadini di seconda classe costretti ad una precaria posizione subalterna.

Il rapido processo di colonizzazione islamica del vecchio continente, tuttavia, è stato favorito in larga misura da un’elite politica e intellettuale miope e ideologizzata, che sta cercando di fare dell’Europa un laboratorio di ingegneria sociale per l’applicazione delle proprie utopie multiculturaliste. La pericolosità dell’islam, infatti, non nasce tanto dalla sua forza intrinseca, quanto dalla debolezza spirituale dell’Europa “post-sessantottina”, che si manifesta, nella denatalità, nel relativismo, nell’odio di sé e nel rifiuto delle proprie radici spirituali. L’islam è solo un’infezione “opportunista” proveniente dall’esterno, ma il vero problema è il virus interno che sta corrodendo le autodifese culturali della società europea.

A conclusione dei lavori di un’importante conferenza internazionale che si è svolta a Roma il 13 marzo 2008 sul tema “Crisi di identità: la civiltà europea può sopravvivere?”, il professor Roberto de Mattei ha parlato di “Sindrome di Stoccolma” per spiegare l’atteggiamento psicologico che molti europei hanno nei confronti dell’islam, «avversario da cui si è intimoriti, talvolta terrorizzati, ma allo stesso tempo attratti, talvolta affascinati. Altrimenti non si spiegherebbe, la nascita e la diffusione di miti come quelli elaborati da Louis Massignon (1883-1962), Edward Said (1935-2003) e in Italia Franco Cardini, che vorrebbero rimuovere dalla memoria un millennio di conflitti tra l’Europa e l’Islam, in nome di esperienze assunte a modelli ideali quali l’Oriente felix, la società arabo-andalusa prima della Riconquista, o quella siciliana all’epoca di Federico II».

Lo studio obiettivo della dottrina e della storia dell’islam, cioè della teoria e dei suoi effetti concreti, conducono però a conclusioni ben diverse.

La natura dualistica dell’islam

In Occidente il dibattito sulla natura dell’islam verte prevalentemente su queste domande: l’islam è una religione pacifica o violenta? Tollerante o intollerante? Il vero islam è quello integralista o quello moderato? Esiste veramente un islam moderato? Questi interrogativi ricordano il vecchio dibattito scientifico sulla natura della luce, quando gli scienziati si dividevano tra la teoria corpuscolare e la teoria ondulatoria. Lo sviluppo della meccanica quantistica ha risolto in maniera dualistica e probabilistica la questione: la luce è sia una particella sia un’onda, a seconda delle circostanze e delle qualità che manifesta. L’islamismo ha una simile natura dualistica.

Il primo dualismo dell’islam ha origine dal Corano, che è composto in realtà da due parti tra loro molto diverse: la prima è stata composta alla Mecca quando Maometto era ancora politicamente debole, e presenta un contenuto generalmente pacifico; la seconda, che si riferisce al successivo periodo di Medina, quando Maometto aveva acquisito una maggior forza militare, ha un contenuto molto più violento. Poiché i capitoli del Corano (le sure) non sono sistemati in ordine cronologico ma per ordine di lunghezza, il risultato è un illeggibile guazzabuglio senza capo né coda, pieno di contraddizioni.

Superficialmente l’islam risolve il problema delle incoerenze presenti nel Corano con la teoria dell’abrogazione, secondo cui i versetti comunicati successivamente abrogano quelli precedenti con cui contrastano. Questo però non significa che i primi versetti non siano più validi, perché tutto il Corano rappresenta la perfetta parola di Allah, e tutti i versi sono veri e sacri. Quindi due versetti che dicono cose opposte sono entrambi giusti. L’islam rifiuta il principio di non contraddizione che sta alla base della logica occidentale, secondo cui se due affermazioni sono contrastanti, almeno una delle due è falsa. La logica islamica è dualistica: due affermazioni possono contraddirsi tra loro ed essere entrambe vere.

Quindi, se vogliamo sapere se per la dottrina islamica la jihad ha il significato di guerra santa violenta, o invece di sforzo interiore (come sostiene l’opinione “politicamente corretta”) dobbiamo intraprendere la lettura delle fonti principali dell’islam, e cioè il Corano, la sira (la vita di Maometto) e la tradizione (gli hadith, cioè i detti di Maometto). In questi ultimi la parola jihad si riferisce nel 97 % dei casi al primo significato, e nel 3 % dei casi al secondo.

Ci si può anche chiedere se l’islam sia una dottrina religiosa o politica. L’analisi delle tre principali fonti dottrinali ci dà questa risposta statistica: circa il 67 % del Corano scritto alla Mecca, il 51 % dei Corano scritto a Medina, il 75 % della sira e il 20 % degli hadith riguardano questioni politiche come la guerra santa o il trattamento dei non musulmani. Maometto predicò la sua religione per 13 anni, e convinse solo 150 seguaci. Poi passò alla politica e alla guerra, e in una decina d’anni, impegnandosi in atti di razzia e in battaglie mediamente ogni sette giorni nell’arco di nove anni, divenne il signore assoluto dell’Arabia.

Maometto quindi non ebbe successo come leader religioso, ma come leader politico e militare. Fin dalle sue origini, quindi, la dimensione politica dell’islam ha prevalso nettamente su quella religiosa e spirituale. Anche l’inferno islamico è un immenso carcere per i prigionieri politici. Nel Corano, infatti, ci sono 146 riferimenti all’inferno, e solo nel 6 % dei casi la dannazione riguarda una violazione morale come il furto o l’assassinio. Nel rimanente 94 % dei casi la punizione eterna viene comminata a coloro che sono in disaccordo con Maometto, cioè per “reati d’opinione”.

Il secondo aspetto dualistico dell’islam riguarda il concetto di umanità. L’idea giusnaturalista, tipicamente occidentale, secondo cui gli uomini nascono con gli stessi diritti alla vita, alla libertà e alla proprietà non esiste nel mondo musulmano, perché l’islam divide l’umanità in due parti: credenti e non credenti (kafir). I secondi, odiati da Allah, non sono esseri umani al pari dei primi. Nel Corano ci sono ben 14 versetti che affermano che un buon musulmano non può mai essere amico di un kafir. L’islam rifiuta quindi qualsiasi sistema etico universale. Negli hadith si legge ad esempio che un musulmano non dovrebbe mentire, imbrogliare, derubare o uccidere un altro musulmano, ma gli è permesso commettere queste azioni nei confronti di un infedele per la causa dell’islam. L’islam quindi non conosce la Regola Aurea presente nella tradizione giudaico-cristiana e in altri sistemi morali e religiosi, secondo cui non dobbiamo fare agli altri ciò che non vogliamo sia fatto a noi. La sua morale dualistica giustifica l’uso della violenza jihadista, perché i non credenti non hanno la stessa dignità umana dei credenti dell’islam.

È chiaro che l’islam, con la sua logica e la sua etica dualistica, è un sistema totalmente alieno alla nostra civiltà, e la difficoltà che hanno gli occidentali di comprenderlo deriva proprio da questa sua irriducibile estraneità. Il problema è che non può esistere un compromesso tra un sistema morale universalistico e uno dualistico. È impossibile entrare in una relazione di fiducia con qualcuno che, secondo il suo sistema di valori, è autorizzato a mentirti e a schiacciarti. Per questa ragione la politica, l’etica e la logica islamica non possono entrare a far parte della nostra civiltà. L’islam non può essere assimilato, perché per sua natura tende solo a dominare. Le sue pretese possono cessare solo con la completa sottomissione della controparte.

La Jihad, questa sconosciuta

Una gigantesca operazione di rimozione storica, che ha censurato dai testi di storia gli avvenimenti connessi a secoli di jihad (la guerra santa islamica) e di dhimmitudine (l’umiliante e insostenibile condizione dei non musulmani nelle terre governate dall’islam), spiega in buona misura l’attuale ignavia degli europei. Negli ultimi venti anni è molto cresciuta la letteratura sul mondo islamico, ma non è cresciuta altrettanto la percezione della minaccia che il fondamentalismo islamico costituisce per la civiltà in cui viviamo poiché numerosi sono stati gli studiosi che, dominati dalla preoccupazione di non essere accusati di coltivare pregiudizi eurocentrici, si sono prodigati per fornire una immagine rassicurante della religione fondata da Maometto. Nelle opere sull’islam di Franco Cardini, Alfonso Di Nola, Paolo Branca, Massimo Campanini, o di autori anglosassoni come John Esposito, Stephen Schwartz e Karen Armstrong, non si trovano che fugaci cenni alla guerra santa. Anche gli studi specialistici di Bernard Lewis, per tanti versi pregevoli, sono piuttosto carenti sui temi della jihad e della dhimmitudine.

In genere i manuali scolastici e le monografie sull’islam passano sotto silenzio le modalità con cui si svilupparono le conquiste islamiche, limitandosi a riportare frasi asettiche di questo tenore: “L’islam si espanse nell’ottavo e nel nono secolo…”, oppure questo o quel paese “passò sotto il dominio musulmano”. Gli autori usano ogni cautela per evitare di dire come l’islam si espanse, e come quei paesi passarono sotto il dominio islamico. Sembrerebbe che questi avvenimenti siano capitati da soli, quasi miracolosamente, o in maniera pacifica. La realtà è ben diversa.

Bill Warner, direttore Center for the Study of Political Islam, ha calcolato che la conquista e l’assoggettamento delle popolazioni cristiane in Medio Oriente, Anatolia e Nord Africa, che un tempo componevano circa la metà della Cristianità, ha comportato il massacro di almeno 60 milioni di persone; la conquista islamica della Persia ha portato alla cancellazione quasi totale dello zoroastrismo; nella sua avanzata verso est la jihad islamica ha provocato la morte di circa 10 milioni di buddisti, distruggendo ogni traccia di buddismo lungo la via della seta e in Afghanistan; l’invasione dell’India ha determinato l’annichilimento di metà della civiltà indù, e l’uccisione di 80 milioni di persone; le vittime della jihad nell’Africa subsahariana ammontano invece a più di 120 milioni tra cristiani e animisti.

Sommando tutte queste cifre si giunge alla conclusione che dal settimo secolo a oggi approssimativamente 270 milioni di “infedeli” sono morti per la gloria politica dell’islam: un numero di vittime che probabilmente supera quelle del comunismo, e che fa dell’islam la più grande macchina di oppressione e di sterminio della storia.

La jihad rappresenta quindi, per durata e per conseguenze, una delle istituzioni più rilevanti della storia umana, che ha sconvolto la vita di centinaia di milioni di persone per quasi 1400 anni. Eppure, a livello storico, è quasi completamente ignorata. Esistono migliaia di libri sulle crociate, ma almeno fino a qualche tempo fa non esisteva praticamente nessuno studio storico approfondito sulla jihad. Nell’Enciclopedia Britannica, ad esempio, viene dato alle crociate uno spazio ottanta volte superiore a quello della jihad: eppure le crociate furono solo una tardiva e limitata reazione a quattro secoli di ininterrotta guerra santa dei musulmani contro gli europei. Le crociate durarono meno di 200 anni (dal 1096 al 1270), sono cessate da 700 anni e geograficamente si limitarono alla Terra Santa, mentre la jihad islamica ha avuto un carattere universale e permanente.

Gli unici due testi che di recente hanno tentato di colmare questa lacuna sono Jihad in the West di Paul Fregosi, uscito nel 1998, e The Legacy of Jihad curato da Andrew G. Bostom, un ricchissima raccolta commentata di documenti storici pubblicata nel 2005. Uno dei pochi libri pubblicati in Italia che racconta questa storia cruenta è il libro di Camille Eid, A morte in nome di Allah. I martiri cristiani dalle origini dell’islam a oggi (Piemme, 2004). Per quanto riguarda lo status delle minoranze religiose nei paesi islamici, i dhimmi, quasi tutto quello che sappiamo si deve ai fondamentali studi pionieristici di Bat Ye’or.

La corruzione delle università occidentali

L’atteggiamento degli europei nei confronti dell’islam ricorda quello che fu, nel XX secolo, l’atteggiamento dell’Occidente nei confronti del comunismo. Questo paragone è calzante anche sul piano della conoscenza storica, perché l’Occidente ha acquisito consapevolezza della realtà del sistema terroristico e concentrazionario sovietico solo alla fine degli anni Settanta, grazie all’uscita di due libri duramente boicottati dai comunisti occidentali: Il grande terrore di Robert Conquest e Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn.

Oggi, nei confronti della storia e della dottrina islamica, il pubblico occidentale versa nello stesso tipo di ignoranza. Per esempio, quanti cristiani sanno come la Turchia o l’Egitto sono diventate islamiche? Quanti sanno cosa è successo alle Sette Chiese dell’Asia Minore menzionate nelle lettere di San Paolo?

Questa situazione si deve in larga misura al tragico fallimento delle facoltà di islamistica delle università europee e americane, i cui insegnamenti sono spesso corrotti da distorsioni ideologiche o dal denaro proveniente dai paesi islamici. Negli ultimi decenni, infatti, alcuni Stati musulmani hanno cominciato a finanziare nelle più prestigiose università occidentali, a scopo propagandistico, delle cattedre di islamistica che hanno il compito di presentare la religione maomettana nella luce migliore. Questo sistema pare difficilmente conciliabile con i principi di obiettività scientifica e di ricerca della verità che, fin dai loro albori medioevali, dovrebbero caratterizzare le università occidentali.

La cattedra di islamistica presso l’università olandese di Leida dell’intellettuale islamista Tariq Ramadan, ad esempio, era finanziata dal Sultanato dell’Oman; nel 2005 le università americane di Harvard e di Georgetown (dove insegna l’apologeta dell’islam John Esposito, diventato improvvisamente una delle massime “autorità” mondiali in materia) hanno accettato 20 milioni di dollari dal principe saudita Alwaleed bin Talal per programmi di studi islamistici; in precedenza le università dell’Arkansas, della California-Berkeley e di Harvard avevano accettato da fonti saudite rispettivamente 20, 5 e 2 milioni di dollari. In queste università l’esame critico delle fonti coraniche viene fortemente scoraggiato, e alcuni studiosi, come Daniel Easterman, hanno perso il posto per non aver insegnato l’islam nella maniera desiderata dai sauditi. Il risultato è che i laureati in studi islamici che escono dalle facoltà occidentali sanno tutto sulle presunte glorie della civiltà islamica (l’arte, l’architettura, la poesia o il sufismo), ma ignorano totalmente le immani sofferenze prodotte dall’islamizzazione delle culture “infedeli” preesistenti.

È difficile capire per quale motivo si permette ai sauditi, noti sostenitori del fondamentalismo islamico in tutto il mondo, di stabilire ciò che deve essere insegnato sull’islam alle future classi dirigenti dei paesi occidentali. Tuttavia, sebbene la corruzione dei petrodollari sauditi rappresenti un serio ostacolo allo studio critico dell’islam, i problemi maggiori sono di natura ideologica. Molti accademici europei e americani sono così immersi nell’ideologia anti-occidentale che, anche gratuitamente, sono ben felici di denigrare la propria civiltà e di esaltare quella islamica.

Il dibattito sull’islam all’interno nelle istituzioni culturali occidentali è stato infatti corrotto ideologicamente fin dall’uscita, nel 1979, del libro Orientalismo di Edward Said. Lo studioso apostata Ibn Warraq, che ha demolito le tesi di Said in un approfondito studio uscito nel 2007, Defending the West. A Critique of Edward Said’s Orientalism, ha osservato che il libro di Said, indicando nell’Occidente la causa di tutti i mali del Medio Oriente, ha contribuito a inculcare negli arabi l’arte dell’autocommiserazione, a favorire il risorgere del fondamentalismo islamico negli anni Ottanta e a ridurre al silenzio ogni critica intellettuale dell’islam: «Ho chiamato terrorismo intellettuale l’aggressivo tono di Orientalismo, perché non cerca di convincere mediante argomenti o analisi storiche, ma accusando di razzismo, imperialismo o eurocentrismo chi la pensa diversamente. Una delle sue mosse preferite è quella di dipingere l’Oriente come una vittima perpetua dell’imperialismo, del dominio e dell’aggressione occidentale».

In verità, osserva Ibn Warraq, se contiamo gli anni di protettorato britannico e francese in Medio Oriente, l’Egitto è rimasto sotto il controllo Occidentale per 67 anni, la Siria per 31 anni, l’Iraq per soli 15 anni, l’Arabia Saudita mai. Questi periodi coloniali non reggono il confronto con la Spagna meridionale, rimasta sotto il giogo musulmano per 781 anni; con la Grecia, che ha subito per 381 anni il dominio ottomano; o con Bisanzio, ancora oggi in mani musulmane.

Due tipi di dhimmi

Molti di questi intellettuali occidentali filo-islamici seguaci di Edward Said sono stati comunisti, terzomondisti, filocinesi o filocubani. Avevano trascorso la loro vita in attesa del grande evento rivoluzionario che avrebbe messo fine, una volta per tutte, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ma la caduta del muro, il crollo dell’Urss e la conversione della Cina al capitalismo li ha improvvisamente privati del loro sogno. Il risultato di questa perdita è una sorta di rancore permanente per il loro paese. La fiduciosa attesa del futuro si è trasformata in odio del passato. Dopo aver sognato di costruire un “mondo migliore”, oggi questi rivoluzionari invecchiati e inaciditi passano gran parte del loro tempo a distruggere la civiltà che li ha allevati e nutriti.

Oltre ai dhimmi oppressi e perseguitati che vivono nelle terre a maggioranza islamica, che meritano il nostro aiuto e la nostra compassione, esistono dunque dei dhimmi di un genere molto diverso, che vivono in Occidente. Questi dhimmi si sono sottomessi volontariamente all’islam, per opportunismo o per ideologia, diventandone apologeti. È fondamentale che questo secondo tipo di dhimmi venga sconfitto sul piano intellettuale. Per raggiungere questo obiettivo occorre confutare la loro versione falsificata della storia islamica, rendendo noto il destino tragico cui sono andati incontro tutti i popoli che nel corso della storia non sono stati in grado di opporsi alla jihad. Queste civiltà sono state completamente annientate, e in molti casi della loro cultura, lingua, arte, tradizione, legge, storia, si è quasi perso il ricordo. Quel che è peggio, l’islam non solo ha sradicato dalla faccia della terra le ricche e fiorenti culture che ha conquistato, ma sta cercando, con l’aiuto dei dhimmi apologeti, di cancellare anche la storia di questa distruzione.

Le brutalità della dhimmitudine e i 270 milioni di vittime della jihad sono troppe perché si possano dimenticare. Raccontandole pagheremo il nostro debito morale nei confronti di queste vittime semi-sconosciute, perché non siano morte invano. Occorre far capire che la cultura islamica non ha niente in comune con la nostra, e non ci potrà essere un compromesso, perché in ogni campo l’islam si contrappone radicalmente alle nostre più profonde concezioni religiose, filosofiche, morali, politiche, artistiche. L’islamizzazione significherebbe dunque la totale distruzione della nostra civiltà, esattamente come è accaduto ai cristiani del Medio Oriente e del Nord Africa, ai copti egiziani, ai cristiani nestoriani, ai zoroastriani o ai buddisti dell’Asia centrale.

Queste vicende storiche ci illuminano su quanto sta avvenendo oggi nei paesi presi di mira dalla jihad islamica. L’ignoranza è stata finora un comodo alibi per l’inerzia, ma la conoscenza costringerà gli europei a reagire. Quello dell’Europa è un sonno profondo, un letargo, forse un’anestesia provocata, ma il sonno non è la morte. Il sonno ha un termine, il sonno precede il risveglio. Per questo alla domanda se la civiltà europea sopravviverà, rispondo con convinzione di sì.



Offline Ethans

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Re: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?
« Risposta #63 il: Dicembre 30, 2009, 01:49:39 am »
L'UTOPIA FEMMINISTA HA GENERATO L'EURABIA
Enclave, n. 36, giugno 2007
di Guglielmo Piombini
 
Fonte: http://web2.venet.net/libridelponte/det-articolo.asp?ID=141

In uno spassoso articolo “Contro il femminismo” (pubblicato su Enclave n. 31/2006) Murray N. Rothbard notava come fosse diventato impossibile evitare di essere assaliti, senza tregua, dal noioso chiacchiericcio delle femministe. Ogni giorno siamo inondati da libri e articoli sul problema della “liberazione della donna”, mentre non si trova nulla che presenti la tesi opposta. Ma se gli uomini tengono le fila di questa società maschile e sessista, osservava Rothbard, come mai non osano avanzare programmi o stampare scritti a propria difesa? Gli “oppressori” rimangono stranamente silenziosi, e questo induce a sospettare che forse l’oppressione risiede nella sponda opposta.

 Nel mondo occidentale, dopo decenni di intimidazioni e lavaggio del cervello, gli uomini hanno perso il coraggio di replicare agli attacchi delle femministe. Ci voleva una donna come Alessandra Nucci, che in gioventù ha conosciuto dall’interno il movimento femminista, per denunciarne la pericolosa deriva estremista, illiberale e anticristiana. In un libro notevole uscito alla fine del 2006, La donna a una dimensione (Marietti Editore), Alessandra Nucci osserva che in Occidente le donne hanno conseguito una grande libertà di scelta nel campo dell’istruzione, del lavoro o della famiglia, ma le femministe, invece di celebrare questi progressi, continuano a presentare le donne come vittime della discriminazione e a pretendere dallo Stato trattamenti privilegiati.

La Nucci documenta in maniera dettagliata il modo in cui le femministe sono riuscite con successo ad avvalersi delle burocrazie e delle agenzie internazionali legate alle Nazioni Unite per imporre in ogni sede l’ideologia “di genere”. Questa dottrina si basa sulla convinzione che tutte le differenze fra gli uomini e le donne, a parte quelle fisiche, siano frutto di indebiti condizionamenti e di stereotipi sociali, e che quindi siano modificabili. Con il pretesto di assicurare alle donne la definitiva parità, osserva la Nucci, le femministe di genere mirano a renderle uguali agli uomini orientando (cioè manipolando) i gusti, con le pressioni culturali e l’educazione, nell’illusione di riuscire a creare una nuova natura umana, libera di scegliere fra orientamenti sessuali diversi e soprattutto libera di non riprodursi. Ciò comporta l’incoraggiamento di nuovi stereotipi, inculcati con l’educazione a scuola e con le immagini nei media, in cui la donna è conformata a un modello per il quale la carriera e il lavoro fuori casa non sono più una scelta, ma l’esigenza unica per realizzarsi nella vita, l’uomo non è più tanto da uguagliare quanto da soppiantare, e la maternità diventa un’opzione residuale di second’ordine.

La meta a cui puntano questi movimenti femministi è un via libero planetario alla diffusione delle pratiche di pianificazione famigliare (la Nucci parla di vero e proprio “imperialismo contraccettivo”), alla banalizzazione della promiscuità sessuale, all’universalizzazione dell’aborto libero e gratuito, a una ridefinizione della natura umana che annulli la famiglia annegandola nel mare dei generi intercambiabili: tutte cose che vanno in direzione della dissoluzione della famiglia monogamica auspicata da Friedrich Engels e da schiere di socialisti prima o dopo di lui.

Ma le donne sono più felici?

Sorge però un dubbio: se i diversi ruoli tradizionali svolti dagli uomini e dalle donne non sono il frutto dell’oppressione patriarcale, ma di libere scelte che esprimono la natura maschile e femminile, le femministe non rischiano di creare infelicità nelle donne, costringendole a compiti non propri? Alessandra Nucci ricorda che già nel 1982 la femminista storica Betty Friedan aveva ammesso che ci potrebbe effettivamente essere qualcosa nella natura delle donne che le porta a trovare la felicità nella famiglia e nella casa. Se l’agiografia femminista ha imposto con successo come modello unico a cui aspirare quello della donna che lavora, studi sociologici hanno dimostrato che separare un bambino dalla madre troppo presto o per troppo tempo rischia di provocare danni a lungo termine su quel bambino.

Se le donne spesso preferiscono il part-time per stare con i propri figli non è perché sono indotte a sacrificarsi dai condizionamenti della società tradizionali, ma perché difficilmente la propria felicità può sussistere se i propri figli sono infelici. Per le femministe radicali, invece, queste donne sono da considerare dei soggetti da rieducare perché incapaci di capire da sole che è nel loro interesse optare per il lavoro a tempo pieno e privilegiare la propria autorealizzazione rispetto alla cura in prima persona dei propri figli. Una parlamentare laburista olandese, Sharon Dijksma, ha proposto addirittura di multare le donne che scelgono di fare le casalinghe invece di lavorare fuori casa, perché stando in casa sprecherebbero la costosa istruzione ricevuta “a spese della società”. È la solita storia: i politici prima caricano la gente di tasse per fornire dei servizi “gratuiti” non richiesti, e poi si sentono in diritto di gestire totalmente le loro vite.

Mettere in contrapposizione la felicità delle donne con quelle dei loro figli, osserva la Nucci, è irreale e innaturale. Se è vero che non esiste destino biologico che prescrive che la donna debba necessariamente realizzarsi come madre, è altrettanto vero che la donna che si può ritenere felice nonostante l’infelicità di un figlio è una vera rarità. Gli studi dimostrano inoltre che, nonostante tutti gli sforzi e le pressioni perché le donne pensino alla carriera e raggiungano l’esatta proporzione dei maschi nel lavoro, nella politica o negli sport, sia le femmine sia i maschi rientrano subito negli “stereotipi” tradizionali nel momento in cui li si lascia liberi di scegliere. Nelle università, ad esempio, sono uomini la stragrande maggioranza degli studenti che scelgono i rami tecnologici, mentre le donne costituiscono la stragrande maggioranza delle iscritte a scienze dell’educazione e alle materie umanistiche.

Il sistematico disprezzo del maschio (occidentale)

Il femminismo radicale ha diffuso con successo una cultura che disprezza il maschio e tutti i caratteri solitamente associati alla mascolinità. Molte università occidentali prevedono dei corsi sul femminismo che diffondono un odio per gli uomini impensabile in qualsiasi altra parte del mondo. Nelle scuole dei paesi anglosassoni e del Nord Europa, ricorda la Nucci, i giovani maschi vengono sistematicamente attaccati per la loro identità e denigrati dalle insegnanti, che arrivano a provocare le femmine per farle adirare contro il sesso maschile. Fin da piccoli i maschi si sentono marchiati come il sesso violento e insensibile, e vivono in uno stato permanente di colpevolezza. La mentalità ingenerata dal femminismo organizzato suggerisce anche che i padri sono un elemento di poco conto all’interno della famiglia. Questo spiega perché i tribunali assegnino di regola i figli alla madre in caso di separazione, perché il parere del padre sulla decisione di abortire o meno non conti nulla, e perché i programmi televisivi e le pubblicità ritraggano raramente figure positive di uomini.

Questa pressione giuridica e culturale fa sì che siano sempre più numerose la famiglie in cui il padre è assente, perché respinto dalla moglie o perché scacciato e perseguitato dai tribunali imbevuti di ideologia femminista. Negli Stati Uniti, ad esempio, pare siano ormai il 40 % i figli minorenni che non vivono con il padre. Tuttavia, come ha dimostrato anche lo psicologo Claudio Risè nel libro Il padre. L’assente inaccettabile (Edizioni San Paolo), gli studi indicano che la mancanza della figura paterna danneggia irreparabilmente lo sviluppo armonioso dei figli. Il padre infatti ha il compito di sciogliere il nodo protettivo che lega la madre al bambino, spingendo il figlio a diventare intraprendente e ad aspirare all’autonomia.

Nell’ideologia femminista però vi è un aspetto ancora più inquietante, che non sfugge ad Alessandra Nucci: solo i maschi occidentali vengono messi sotto accusa e stigmatizzati fin dalla più tenera età. Le femministe non spendono una parola di critica nei confronti degli uomini che appartengono a culture molto più oppressive e “patriarcali” di quella occidentale. Nel 2002 la femminista svedese di idee marxiste Gudrun Schyman, il cui usuale grido di battaglia è “morte alla famiglia nucleare!”, ha affermato che gli uomini svedesi non sono differenti dai talebani, e ha proposto una tassazione collettiva per legge a carico di tutti gli uomini svedesi, in riparazione delle loro presunte violenze sulle donne.

Nel 2004, sul maggior quotidiano svedese Aftonbladet, la femminista Joanna Rytel ha scritto un articolo intitolato “Non darò mai vita a un bambino bianco”, nel quale affermava che i maschi bianchi sono tutti egoisti, sfruttatori, presuntuosi e sessuomani, concludendo con l’avvertimento “uomini bianchi, statemi lontani!”. Le femministe norvegesi stanno cercando di far approvare una legge che impone la chiusura di tutte le imprese che non assumano almeno il 40 per cento di donne nei loro consigli di amministrazione; inoltre hanno chiesto anche quote per gli immigrati musulmani.

L’attacco al maschio occidentale potrebbe produrre però un inatteso effetto boomerang: la progressiva islamizzazione culturale e demografica del continente europeo. Distruggendo la famiglia e la figura paterna e maschile, le femministe stanno spianando la strada alla penetrazione indisturbata dell’islam nelle società occidentali, preparando così un futuro da incubo per le prossime generazioni di donne. Partendo dalla brillante analisi di Alessandra Nucci, vorrei spiegare perché la vittoria del femminismo potrebbe paradossalmente favorire l’avvento dell’Eurabia.

Come il femminismo ha spianato la strada all’islam

Per quanto alcune delle più coraggiose e indomite avversarie dell’islam siano donne (si pensi a Oriana Fallaci, a Bat Ye’Or, a Ayaan Hirsi Ali), è indubbio che, nella media, le donne occidentali siano più favorevoli al multiculturalismo e all’immigrazione islamica rispetto agli uomini occidentali. In tutto l’Occidente i partiti più critici verso l’immigrazione sono tipicamente maschili, mentre quelli che esaltano la società multiculturale sono spesso dominati dalle femministe. Se negli Stati Uniti avessero votato solo le donne, il presidente in carica l’11 settembre 2001 sarebbe stato Al Gore, non George W. Bush. In Norvegia l’unico partito che cerca di contrastare l’immigrazione islamica di massa che sta cambiando il volto del paese è il Partito del Progresso, il cui elettorato è per il 70 per cento maschile; all’estremo politico opposto il multiculturalista Partito Socialista riceve il 70 per cento dei suoi voti dalle donne.

La spiegazione femminista di questo diverso comportamento elettorale è che gli uomini sono “più xenofobi ed egoisti”, mentre le donne hanno la mente più aperta e sono più solidali con gli estranei. La verità, probabilmente, è che tradizionalmente gli uomini hanno sempre avuto la responsabilità di individuare i pericoli e di proteggere la propria comunità dai potenziali nemici esterni.

Il rifiuto delle femministe di confrontarsi con il problema dell’immigrazione musulmana non ha però solo motivazioni psicologiche, ma anche ideologiche. Molte femministe sono silenziose sull’oppressione islamica delle donne perché hanno abbracciato un’ideologia terzomondista e antioccidentale che le paralizza. A giudicare dalle retorica femminista, infatti, tutta l’oppressione del mondo proviene dall’uomo occidentale, che opprime sia le donne sia gli uomini non occidentali. Gli immigrati musulmani sarebbero anch’essi delle vittime: al massimo con qualche pregiudizio patriarcale, ma comunque sempre meglio degli uomini occidentali.

Quasi tutte le femministe, radicali, infatti, sono anche delle accese “anti-razziste” che si oppongono ad ogni minima limitazione dell’immigrazione islamica in quanto “razzista e xenofoba”. Il femminismo radicale si è trasformato gradualmente in egualitarismo, cioè nella lotta contro tutte le “discriminazioni” e nell’idea che tutti i gruppi di persone debbano disporre di una quota uguale di tutto, e che sia compito dello Stato assicurarla. Le femministe hanno contribuito enormemente alla diffusione della cultura del vittimismo in Occidente, che permette di ottenere i vantaggi politici sulla base dello status di appartenenza nella gerarchia delle vittime. Inoltre hanno chiesto, e in larga misura ottenuto, la riscrittura dei libri di storia che facesse giustizia dei “pregiudizi” maschilisti ed eurocentrici. Queste loro idee fanno oggi parte dei programmi scolastici e sono praticamente egemoni sui media. In breve, le femministe radicali hanno rappresentato l’avanguardia della “correttezza politica” in tutto l’Occidente.

Quando i musulmani arrivano in Occidente portandosi dietro la loro mentalità vittimista si trovano il lavoro già preparato da altri. Colgono quindi su un piatto d’argento l’opportunità di sfruttare una tradizione vittimista già stabilita, che gli permette di ottenere interventi statali a proprio favore, quote preferenziali, la riscrittura della storia in senso filo-islamico, e campagne politiche contro “l’islamofobia” e “l’incitamento all’odio”. Le femministe occidentali hanno dunque spianato la strada alle forze che annienteranno il femminismo occidentale, e di questo passo finiranno a letto, letteralmente, con il nemico.

Dal femminismo alla sharia

 La graduale trasformazione dell’utopia femminista nel suo opposto, la legge coranica, è ormai evidente nei paesi scandinavi, dove l’applicazione dell’ideologia femminista e multiculturalista ha raggiunto le punte più avanzate. Negli ultimi anni, infatti, si è verificato un enorme aumento degli stupri e delle violenze sulle donne, per opera nella quasi totalità dei casi di giovani immigrati islamici. In Svezia il numero degli stupri è quadruplicato in una generazione, parallelamente all’afflusso di una immigrazione islamica senza controllo che ha già preso possesso di intere città, come Malmoe. Pur rappresentando non più del 5 % della popolazione, in Norvegia e in Danimarca due terzi di tutti gli uomini arrestati per stupro sono “di origine etnica non-occidentale”, un eufemismo usato per designare gli appartenenti alla religione musulmana.

Nel 2001 Unni Wikan, professoressa di antropologia sociale all’università di Oslo, ha dato la precedenza al multiculturalismo sul femminismo, spiegando in un’intervista al quotidiano Dagbladet che “le donne norvegesi hanno la loro parte di responsabilità in questi stupri” perché, essendo ormai la Norvegia una società multiculturale, le donne norvegesi devono adattarsi ai costumi degli immigrati, abbigliandosi e comportandosi in maniera giudicata non provocatoria dalla loro cultura.

Per i multiculturalisti, quindi, i norvegesi sono solo una delle tante etnie che popolano il paese dei fiordi (forse neanche la più importante), e sulle decisioni che riguardano la Norvegia non hanno più voce in capitolo dei somali o dei curdi giunti la settimana scorsa.

La risposta degli uomini scandinavi a queste continue aggressioni è stata quasi inesistente. Viene da chiedersi dove siano finiti i vichinghi di un tempo, che certo non si sarebbero voltati dall’altra parte se degli ospiti stranieri avessero violentato le loro donne. Probabilmente la mancata protezione delle donne da parte degli uomini scandinavi è dovuta al fatto che queste notizie vengono deliberatamente censurate o minimizzate dalle autorità e dai media, in modo che il pubblico non si renda conto delle eclatanti dimensioni del fenomeno.

La ragione principale, tuttavia, ha a che fare con l’influenza delle idee fortemente antimaschili che le femministe scandinave hanno diffuso negli ultimi decenni. L’istinto protettivo maschile non si manifesta perché le donne nordiche hanno lavorato senza sosta per sradicarlo, insieme a tutto ciò che fa parte della mascolinità tradizionale. In questo modo il femminismo ha indebolito mortalmente la Scandinavia, e probabilmente l’intera civiltà occidentale.

Dal punto di vista femminista questa situazione ha una sua logica: se tutta l’oppressione del mondo proviene dai maschi occidentali, il regno di pace e di eguaglianza sognato dalle femministe potrà essere raggiunto solo quando gli uomini bianchi verranno messi in condizione d’impotenza. La soppressione e la ridicolizzazione degli istinti maschili, tuttavia, non sta conducendo al paradiso femminista, ma all’inferno islamista. Una società in cui gli uomini sono stati “femminilizzati”, infatti, è destinata a cadere preda delle più aggressive civiltà tradizionali. Invece di “avere tutto”, le femministe rischiano di perdere tutto, e la crescente violenza degli immigrati contro le donne occidentali è un sintomo del crollo dell’utopia femminista. Cosa faranno le femministe quando si troveranno di fronte bande di giovani musulmani armati e violenti come quelli che spadroneggiano in Palestina, in Afghanistan e in tutto il mondo musulmano? Gli diranno che “il corpo è mio e lo gestisco io” o gli leggeranno l’ultimo libro di Catharine McKinnon?

La vita, la libertà e la proprietà possono essere protette solo con la forza o con una credibile minaccia di applicazione della forza, altrimenti sono lettera morta. Per questa ragione la responsabilità principale della difesa dei diritti individuali, anche delle donne, spetterà sempre in larga misura agli uomini. Raramente le teorie femministe tengono conto di questo fatto sociologico fondamentale. Le doti e le capacità delle donne sono indispensabili, ma nessuna civiltà vitale può fare a meno della forza e dell’energia maschile.

 Come si spiega allora l’ammirazione delle donne progressiste occidentali per l’islam, quando non esiste un solo paese musulmano in cui le donne godano di diritti lontanamente paragonabili a quelli dell’uomo? Le attiviste occidentali che a casa propria attaccano duramente “l’arretratezza” e “la mentalità patriarcale” della Chiesa cattolica sono le stesse che si sottomettono con più voluttà alla sharia quando si recano nei paesi musulmani. Di recente la giornalista Lilli Gruber, la cantante Gianna Nannini e la speaker del Congresso americano Nancy Pelosi, che in Occidente fanno quotidianamente professione di femminismo, progressismo e trasgressione, hanno ostentato con orgoglio le loro foto con il chador scattate durante i viaggi in Medio Oriente.

Quando si comportano così, ha ironizzato qualche commentatore “maschilista”, le femministe tradiscono i propri desideri più nascosti. Lo scrittore danese Lars Hedegaard ha scritto, in un articolo intitolato “Il sogno della sottomissione”, che “quando le donne occidentali spalancano le porte alla sharia, presumibilmente lo fanno perché vogliono la sharia”. La scrittrice inglese Fay Weldon ha rincarato la dose affermando che “molte di queste donne trovano sessualmente attraente la sottomissione" e poco seducenti e noiosi gli uomini femminilizzati dell’Europa Occidentale, rispetto ai virili sceicchi del deserto.

Ma nello stesso modo si comportano probabilmente anche gli uomini occidentali quando devono scegliere una compagna di vita. È stato notato che nei paesi scandinavi sono in forte aumento gli uomini che preferiscono una moglie straniera proveniente da culture più tradizionali dell’estremo oriente o dell’America Latina. Il femminismo radicale ha portato separazione, sospetto e ostilità tra i sessi, non cooperazione. E non ha sradicato la naturale attrazione per le donne con caratteri femminili e per gli uomini con caratteri mascolini.

Ai musulmani spesso piace far notare che in Occidente si convertono all’Islamismo più donne che uomini. In un servizio giornalistico sulle donne svedesi convertite all’islam, risulta che l’attrazione per la famiglia islamica sia una delle motivazioni principali. Queste donne nordiche convertite trovano appagamento nel ruolo ben definito di cura della casa e dei figli che l’islam assegna loro. Hanno scoperto un senso da dare alla propria vita che non trovavano nella cultura secolare o nell’insipido e succube Cristianesimo modernista.

In psichiatria è stato notato che le donne tendono più frequentemente a rivolgere la propria nevrosi su se stesse, infliggendosi delle ferite o tenendo dei comportamenti autodistruttivi. Gli uomini invece sono più portati a dirigere la propria aggressività verso l’esterno. È inoltre risaputo che un certo numero di donne maltrattate dal marito tendono a giustificarne i comportamenti aggressivi e ad incolpare se stesse. La sensazione è che l’Occidente nel suo insieme, dopo decenni di propaganda antimaschile, abbia adottato inconsciamente alcuni di questi tratti negativi della psiche femminile. L’Occidente femminilizzato viene quotidianamente minacciato, insultato e aggredito con prepotenza dal mondo musulmano, ma reagisce – come la moglie abusata  incolpando se stesso, come se fosse in qualche modo affascinato dai suoi aguzzini.

Come ha scritto Alexandre Del Valle nel suo recentissimo libro Il totalitarismo islamista, questo masochismo espiatorio degli occidentali, frutto della tendenza a dubitare della propria civiltà e a flagellarsi di continuo, costituisce una irresistibile esortazione alla liberazione delle pulsioni più sadiche del fondamentalismo islamico.

L’eterogenesi dei fini

La femminista americana Ellen Willis scriveva nel 1981 su The Nation: “Il femminismo non riguarda solo una questione o un gruppo di questioni, ma è l’avanguardia di una rivoluzione dei valori culturali e morali. L’obiettivo di ogni riforma femminista, dalla legalizzazione dell’aborto alla promozione degli asili-nido pubblici, è quello di demolire i valori della famiglia tradizionale”. L’icona del femminismo Simone de Beauvoir affermò che “nessuna donna dovrebbe essere autorizzata a stare a casa per allevare i bambini, perché lasciandogli questa libertà troppe donne farebbero la scelta sbagliata”. Oggi ci accorgiamo che i desideri delle femministe degli anni Sessanta e Settanta, come la Willis e la de Beauvoir, si sono avverati oltre le più rosee previsioni: in Occidente i divorzi hanno avuto una crescita esplosiva mentre il numero dei matrimoni e delle nascite è crollato, determinando un vuoto culturale e demografico che ci ha resi vulnerabili all’irruzione dell’islam.

Il femminismo radicale ha inferto un colpo durissimo alla struttura famigliare del mondo occidentale, ma sarà impossibile risollevare i tassi di natalità se le donne non tornano ad essere apprezzate per il loro ruolo di madri e se il matrimonio non viene rivalutato. Non esistono altre istituzioni diverse dalla stabile famiglia tradizionale per crescere bambini culturalmente, emotivamente e psicologicamente sani e felici. Il matrimonio non è “una cospirazione per opprimere le donne”, ma la ragione per cui noi siamo qui.

In definitiva, il femminismo radicale ha rappresentato una delle più importanti cause dell’attuale indebolimento della civiltà occidentale, sia dal punto culturale che dal punto di vista demografico. Le femministe radicali, portatrici spesso di una visione del mondo marxista, hanno dato un contributo fondamentale all’affermazione della soffocante “correttezza politica” che impedisce ogni reazione dell’Occidente; inoltre, debilitando la struttura famigliare dell’Occidente hanno contribuito a rendere la nostra civiltà incapace di reggere l’assalto di società prolifiche e patriarcali come quella islamica.

Il destino di una società dominata dall’ideologia femminista, dove gli uomini sono troppo demoralizzati, indeboliti e inebetiti per difenderla, è quello di essere schiacciata e sottomessa dagli uomini provenienti da altre culture più aggressive e mascoline. È questo che sta accadendo all’Europa occidentale. L’ironia della sorte è che quando in Occidente le donne lanciarono la seconda ondata del femminismo negli anni sessanta e settanta godevano già di una situazione in via di miglioramento e non erano particolarmente oppresse, almeno rispetto ad altre parti del mondo. Alla fine del ciclo, quando gli effetti a lungo termine del femminismo radicale si saranno compiuti, le donne si troveranno realmente schiavizzate sotto l’implacabile tallone dell’islam. Sarà l’ennesima eterogenesi dei fini che, da sempre, scombussola i disegni e le vicende della storia umana.



Offline Rita

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Re: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?
« Risposta #64 il: Dicembre 30, 2009, 09:36:05 am »


invece io credo sia doveroso fare le dovute differenze, perché ci sono se uno le conosce. no, come non si dovrebbe essere fieri del politicamente corretto e del buonismo.


quali?
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Offline Ethans

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Re: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?
« Risposta #65 il: Dicembre 30, 2009, 09:44:52 am »
X RITA

Mi permetto di postarti un articolo che descrive abbastanza bene le differenze tra islam e cristianesimo. Sia chiaro che non sono mai stato un grande credente ma è doveroso fare dei distinguo. Mio modestissimo parere del tutto contestabile.

L'ISLAM: RELIGIONE DI PACE?
Il Foglio, 5 aprile 2008
di Guglielmo Piombini
 
Fonte: http://web2.venet.net/libridelponte/det-articolo.asp?ID=150

Robert Spencer, uno degli studiosi americani più impegnati sul fronte anti-jihadista, mette a confronto nel suo ultimo libro Religion of Peace? Why Christianity Is and Islam isn't (Regnery, 2008) l’atteggiamento dei cristiani e dei musulmani in diversi campi (la guerra, la scienza, la politica, la libertà individuale, la schiavitù, il trattamento delle donne, l’antisemitismo), e dimostra che, se il cristianesimo è un credo fondamentalmente pacifico, l’islamismo ha in sé un forte potenziale di violenza.

Spencer critica duramente gli intellettuali occidentali che mettono il cristianesimo e l’islam sullo stesso piano, e che considerano gli evangelici americani più pericolosi dei fondamentalisti islamici. Secondo Spencer vi è molta malafede nella tesi sostenuta da tanti commentatori laicisti, come Kevin Phillips, Chris Hedges, Sam Harris o Damon Linker, secondo cui i conservatori cristiani (spesso etichettati polemicamente come “teocon” o “cristianisti”) avrebbero l’obiettivo di sovvertire la costituzione americana per imporre una teocrazia religiosa nel paese.

In realtà nella storia degli Stati Uniti non sono mai esistiti dei movimenti cristiani con un programma teocratico. Come ricordava Tocqueville, in America fin dalle origini il cristianesimo ha informato e sostenuto le libertà politiche e sociali. Lungi dal voler stravolgere il sistema politico, i conservatori cristiani sono quasi sempre degli ardenti patrioti che venerano la costituzione. Come tutti i gruppi d’interesse, anche i cristiani cercano di promuovere le proprie idee nel dibattito pubblico: questo però non significa sovvertire il processo politico, ma parteciparvi.

I pericoli maggiori per le libertà costituzionali, spiega Spencer, nascono piuttosto dalla paranoia di coloro che si inventano dei complotti teocratici per bandire i cristiani dalla vita pubblica.

Se in tutto l’Occidente non esiste nessun gruppo cristiano che abbia come obiettivo quello di sostituire la legge laica con i precetti biblici (anche perché nella Bibbia non esiste qualcosa di analogo alla sharia), il movimento islamista è ben organizzato a livello internazionale, e non scarseggiano i leader musulmani che proclamano apertamente la necessità di imporre ovunque la legge islamica.

Gli islamisti radicali hanno compiuto migliaia di atroci atti terroristici in tutto il mondo, e i sondaggi hanno ripetutamente rivelato che l’uso della violenza è approvato da porzioni consistenti della popolazione musulmana: ad esempio, venticinque musulmani britannici su cento hanno giustificato i terroristi che uccisero cinquantadue persone a Londra il 7 luglio 2005; in paesi considerati moderati come la Giordania o l’Egitto, più della metà della popolazione ritiene ammissibili gli attentati terroristici contro i civili “per difendere l’islam”; in un sondaggio condotto da al-Jazeera per il quinto anniversario della strage dell’11 settembre, il 49,9 per cento degli ascoltatori si è dichiarato d’accordo con Osama bin Laden.

Secondo Spencer questo vasto sostegno alla violenza nel mondo musulmano ha origine negli insegnamenti dell’islam. Nel Corano c’è una quantità impressionante di versetti, spesso citati da bin Laden nei suoi discorsi, che esortano i credenti a combattere gli infedeli. Le maggiori scuole teologiche islamiche concordano sull’importanza della dottrina del jihad, intesa come guerra santa armata per diffondere l’islam. L’opinione dominante, infatti, è che i versetti rivelati successivamente (quelli più violenti di Medina, come il “Verso della Spada” contenuto nella nona sura) abroghino tutti quelli precedenti con cui sono in contrasto (in genere quelli più pacifici della Mecca).

I multiculturalisti e gli anti-cristiani militanti replicano che anche la Bibbia contiene dei passaggi che incitano alla violenza e al genocidio, come nell’episodio dell’assedio di Giosuè alla città di Gerico, o nel Deuteronomio, dove il Signore esorta gli ebrei a sterminare gli ittiti, i gergesei, gli amorrei, i perizziti, gli evei, i cananei e i gebusei.

Spencer fa notare però che questi passaggi violenti dell’Antico Testamento sono descrittivi, non prescrittivi. Si riferiscono a vicende particolari riguardanti gli ebrei e altri popoli presenti in Palestina migliaia di anni fa, ma non contengono in via generale dei comandi rivolti ai fedeli di imitare questi comportamenti: prova ne è che non esistono delle organizzazioni terroristiche che usano questi testi biblici per giustificare la propria violenza. La tradizione ebraica e cristiana non li ha mai celebrati, ma li ha visti come dei problemi da risolvere. Per i teologi cristiani la Bibbia contiene una rivelazione graduale adatta al livello di evoluzione morale dell’umanità, che dalla barbarie approda, col passare dei millenni, alla perfezione del Vangelo. Questi episodi sanguinari vanno quindi letti alla luce dell’imperfetto stadio di sviluppo morale dei tempi antichi.

Anche le aggressioni compiute dai cristiani nel corso della storia hanno subito un costante processo di autocritica perché contraddicevano il messaggio evangelico, mentre la guerra santa per propagare l’islam e sottomettere gli infedeli è sempre stata parte integrante della dottrina islamica.

Il cristianesimo, ricorda Spencer, è una religione di pace priva di movimenti che propugnano il terrorismo o la guerra santa, mentre l’islam è una religione della spada in cui, secondo le stime più prudenti, oltre cento milioni di jihadisti in attività mirano a imporre la legge islamica non solo nei paesi a maggioranza musulmana, ma anche in Europa e negli Stati Uniti.

“Che si creda o meno nel Cristianesimo”, conclude Spencer, “oggi è necessario che tutti gli autentici amanti della libertà riconoscano il loro debito con l’Occidente cristiano e con la cultura giudeo-cristiana che ha costruito l’Europa e gli Stati Uniti. Chi ama la libertà deve rendersi conto che questa grande civiltà è in pericolo e che merita di essere difesa. Da questo primo passo dipendono tutti gli altri”.



Offline Rita

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Re: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?
« Risposta #66 il: Dicembre 30, 2009, 10:05:09 am »
sì ma però è soltanto una differenza "temporale".

Il principio è uguale.

Semplicemente l'Islam di oggi è come il cristianesimo di ieri.

Con la differenza che il cristianesimo ha perso il potere temporale diretto e quindi si appoggia via via ad altre ideologie "inquinandosi" per stare a galla.

In questo sono d'accordo con Giubizza: le religioni "di base" sono tutte uguali, così come sono uguali le ideologie.

La libertà di pensiero che abbiamo noi cristiani occidentali oggi non è dovuta al cristianesimo, ma alla sconfitta del cristianesimo e al suo tentativo di mantenere comunque un'influenza.


« Ultima modifica: Dicembre 30, 2009, 10:19:19 am da Rita »
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Re: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?
« Risposta #67 il: Dicembre 30, 2009, 10:25:45 am »
In questo sono d'accordo con Giubizza: le religioni "di base" sono tutte uguali, così come sono uguali le ideologie.

Ah sicuramente. Però preferisco il cristianesimo e la Democrazia all'islam e alla Dittatura. Poi ognuno ha le sue preferenze e vivendo in una società democratica abbiamo anche la libertà di esprimerle.

Per ora.

 :P

Offline Ethans

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Re: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?
« Risposta #68 il: Dicembre 30, 2009, 10:30:46 am »
sì ma però è soltanto una differenza "temporale".

Con la differenza che il cristianesimo ha perso il potere temporale diretto e quindi si appoggia via via ad altre ideologie "inquinandosi" per stare a galla.

Il problema è proprio questo: l'islam non ha affatto perso il suo potere temporale e questo ti dice tutto.


Offline Rita

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Re: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?
« Risposta #69 il: Dicembre 30, 2009, 10:30:54 am »

Anche le aggressioni compiute dai cristiani nel corso della storia hanno subito un costante processo di autocritica perché contraddicevano il messaggio evangelico, mentre la guerra santa per propagare l’islam e sottomettere gli infedeli è sempre stata parte integrante della dottrina islamica.

Il cristianesimo, ricorda Spencer, è una religione di pace priva di movimenti che propugnano il terrorismo o la guerra santa, mentre l’islam è una religione della spada in cui, secondo le stime più prudenti, oltre cento milioni di jihadisti in attività mirano a imporre la legge islamica non solo nei paesi a maggioranza musulmana, ma anche in Europa e negli Stati Uniti.




beh non è proprio così: l'autocritica non è costante ma è odierna, e la guerra santa è un concetto nato ben prima della nascita della religione dell'Islam. Anche la visione del giudaismo come di una religione pacifica e che non fa proseliti è una visione moderna.
L'errore di fondo credo sia quello di non riconoscere che l'Islam sta facendo le stesse medesime cose che le altre religioni hanno fatto nel passato, purtroppo per noi disponendo anche di tecnologia e mezzi propri dell'era moderna.

 
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Re: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?
« Risposta #70 il: Dicembre 30, 2009, 10:46:59 am »
beh non è proprio così: l'autocritica non è costante ma è odierna, e la guerra santa è un concetto nato ben prima della nascita della religione dell'Islam. Anche la visione del giudaismo come di una religione pacifica e che non fa proseliti è una visione moderna.
L'errore di fondo credo sia quello di non riconoscere che l'Islam sta facendo le stesse medesime cose che le altre religioni hanno fatto nel passato, purtroppo per noi disponendo anche di tecnologia e mezzi propri dell'era moderna.

 

Sarebbe più corretto dire che l'islam sta continuando a fare le medesime cose che faceva nel passato e che il cristianesimo ha smesso di fare. E a livello di vittime non è paragonabile alle crociate cristiane. La jihad rappresenta, per durata e per conseguenze, una delle istituzioni più rilevanti della storia umana, che ha sconvolto la vita di 270 milioni di persone per quasi 1400 anni. Le crociate furono solo una tardiva e limitata reazione a quattro secoli di ininterrotta guerra santa dei musulmani contro gli europei. Le crociate durarono meno di 200 anni (dal 1096 al 1270), sono cessate da 700 anni e geograficamente si limitarono alla Terra Santa, mentre la jihad islamica ha avuto un carattere universale e permanente.

Però non conosco il numero di vittime che hanno fatto i conquistadores se devo essere sincero: aspetto ragguagli.

Il punto è cmq che loro continuano sulla stessa falsariga da 1400 anni a questa parte. Non hanno cambiato di una virgola la loro cultura, la loro politica, la loro società e la loro mentalità. Retrogradi erano e retrogradi sono rimasti.

Offline Rita

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Re: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?
« Risposta #71 il: Dicembre 30, 2009, 11:01:03 am »
Sarebbe più corretto dire che l'islam sta continuando a fare le medesime cose che faceva nel passato e che il cristianesimo ha smesso di fare. E a livello di vittime non è paragonabile alle crociate cristiane. La jihad rappresenta, per durata e per conseguenze, una delle istituzioni più rilevanti della storia umana, che ha sconvolto la vita di 270 milioni di persone per quasi 1400 anni. Le crociate furono solo una tardiva e limitata reazione a quattro secoli di ininterrotta guerra santa dei musulmani contro gli europei. Le crociate durarono meno di 200 anni (dal 1096 al 1270), sono cessate da 700 anni e geograficamente si limitarono alla Terra Santa, mentre la jihad islamica ha avuto un carattere universale e permanente.

Però non conosco il numero di vittime che hanno fatto i conquistadores se devo essere sincero: aspetto ragguagli.

Il punto è cmq che loro continuano sulla stessa falsariga da 1400 anni a questa parte. Non hanno cambiato di una virgola la loro cultura, la loro politica, la loro società e la loro mentalità. Retrogradi erano e retrogradi sono rimasti.


http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=29332

270 milioni di vittime del Jihad e altre bufale
di Miguel Martinez - 07/12/2009

Fonte: kelebek [scheda fonte]



Un lettore mi segnala un testo che gira in rete, secondo cui i musulmani avrebbero ucciso 270 milioni di non musulmani in 1400 anni di jihad; e precisamente 60 milioni di cristiani, 80 milioni di indù, 10 milioni di buddisti (in Afghanistan e lungo la Via della Seta), più 120 milioni di cristiani e animisti in Africa.[1]

Su Internet, testi di questo tipo corrono a notevole velocità; e questo è scritto in un inglese talmente semplice da essere traducibile persino da un neocon italiano. Per cui presumo che lo troveremo presto anche in italiano, se non c'è già.

L'affermazione viene fatta da un certo Bill Warner, in un'intervista a Front Page Magazine,  il principale organo planetario dell'islamofobia.



...

Mettiamo da parte ogni opinione sulle conquiste islamiche; e anche l'ovvia obiezione che il soggetto conquistatore - la comunità islamica unita e combattente - è sparito dalla storia meno di trent'anni dopo la morte di Muhammad. Dopo, non è stato "l'Islam" a fare questo o quello, ma innumerevoli gruppi, capi, tribù e stati in lotta soprattutto tra di loro, che hanno agito anche come musulmani.

Le prime conquiste islamiche hanno qualcosa in comune con la conquista spagnola delle Americhe. In entrambi i casi, ad agire erano giovani irrequieti e marginali, dotati di un coraggio fuori dal comune, che combinavano un'indubbia fede al desiderio di arricchirsi.

Il caso dell'India è particolarmente interessante, perché - come il Messico per i cristiani - fu il primo incontro tra un agguerrito monoteismo e una civiltà che possiamo chiamare "pagana".

Il Sindh - l'attuale Pakistan meridionale - fu conquistato da un giovane arabo di diciassette anni, Muhammad bin Qasim Al-Thaqafi; i conquistatori furono spietati con chi resisteva e provarono la stessa orripilata meraviglia dei conquistadores davanti alla civiltà aliena che appariva loro davanti, anche se furono molto più tolleranti nei confronti della religiosità locale.

Il parallelo è interessante, perché sappiamo che molta gente è effettivamente morta in seguito alle conquiste spagnole. Per stimare approssimativamente il numero di vittime, basterebbe calcolare la differenza tra quelli che c'erano prima della Conquista e quelli che c'erano dopo.

Gli spagnoli hanno svolto censimenti fiscali, da cui si può dedurre una popolazione - tra area messicana e area peruviana - di circa 3 milioni di persone verso il 1570.[3]

Ma quante ce n'erano prima? Vari demografi si sono messi a fare i conti. Il bello è che alla fine le loro stime sulla popolazione precolombiana delle Americhe variano da 8 milioni a 112 milioni. Avete indovinato - le cifre riflettono abbastanza rigorosamente le idee politiche dei demografi in questione.[4]

Per il Medio Oriente del settimo secolo - figuriamoci per l'Afghanistan o il Sindh - manca ogni certezza sulla popolazione preislamica, come su quella successiva alla conquista islamica.

Per dirla con un'elegante formula matematica, la cifra esatta delle "vittime del jihad" quindi è ? - ? = ?

Senza aver fatto particolari studi a riguardo, sospetto però che il numero dei morti nelle varie conquiste islamiche sia stato molto minore di quello provocato dalle conquiste spagnole nelle Americhe.

Innanzitutto, ricordiamo che la grandissima maggioranza dei morti nelle Americhe fu dovuta a una serie di malattie - vaiolo, morbillo e altro - rispetto a cui gli abitanti erano indifesi. Malattie che si combinavano in maniera devastante con un generale sradicamente sociale, economico e culturale.

Invece, le terre conquistate dai musulmani si trovavano tutte lungo storiche vie di comunicazione, per cui l'impatto in termini di nuove malattie deve essere stato irrilevante.

Sia in Medio Oriente che nelle Americhe, i protagonisti erano un numero relativamente ristretto di giovani avventurieri. Che se avessero voluto veramente sterminare i popoli conquistati, avrebbero dovuto passare tutta la vita in faticosi viaggi di villaggio in villaggio, per poi perdere giornate intere a tagliare teste. I massacri ci furono, e anche terribili; ma nulla in termini di grandi numeri. L'omicidio di massa è diventato uno sport piacevole solo dopo l'invenzione del mitra e dell'aereo.

In realtà, i conquistatori - spagnoli come arabi - hanno fatto lavorare per loro i popoli conquistati e si sono costruiti dei gradevoli harem con le donne locali (Hernán Cortés fu un poligamo comparabile al nostro Presidente del Consiglio).

Ci sono però notevoli differenze anche qui. Gli spagnoli si sono trovati di fronte comunità contadine fondate sulla sussistenza, e hanno dovuto trasformare gli indigeni in minatori, costruttori di strade e di città e produttori di cibi di loro gradimento, proprio mentre ne espropriavano le terre per insediarvi il bestiame. E' facile immaginare cosa abbia significato in termini di crollo dei sistemi produttivi tradizionali.

Gli arabi, invece, si sono in larga misura impossessati di sistemi di sfruttamento già esistenti: il meccanismo per spremere lo spremibile dai contadini persiani non è cambiato granché dai sassanidi ai tempi dell'ultimo Scià.

Senza cadere nel mito della diffusione pacifica dell'Islam, è probabile che i contadini abbiano in genere provato sollievo per il cambio di padroni - un sollievo demograficamente significativo, perché voleva dire mangiare un po' di più e faticare un po' di meno. Infatti, il sistema islamico era relativamente più decentrato di quello bizantino (o di quello spagnolo nelle Americhe), e il centralismo crollò comunque presto: i conquistatori potevano pensare a se stessi, ma non dovevano contribuire molto a lontane corti ed eserciti.

L'archeologia e la genetica ci dimostrano che possono avvenire grandi cambiamenti culturali e linguistici, senza bisogno che una popolazione faccia fuori un'altra: il genetista inglese Stephen Oppenheimer ha recentemente dimostrato che gli attuali abitanti delle isole britanniche hanno ancora oggi molto di più in comune, in termini di DNA, con i baschi che con i celti e poi con i germani di cui hanno preso successivamente lingua e cultura.

Riguardo a questa questione, bisogna distinguere tra le conquiste arabe in Africa e quelle arabe e poi turche in Oriente. Nel primo caso, abbiamo una grande diffusione linguistica, soprattutto dopo l'anno 1000, però - quasi quattro secoli dopo la fine dell'unità islamica. Molti nordafricani vantano oggi una discendenza araba, anche se sembra che si tratti spesso di una semplice finzione, per avvicinarsi alla famiglia del Profeta.

Invece a est dell'Iraq, non si è diffusa nemmeno la lingua araba. Mentre gli studi genetici dell'attuale Turchia dimostrano che la popolazione attuale - pur parlando una lingua centroasiatica -  è geneticamente affine a quella dei balcani.

Dare i numeri è un'ossessione caratteristica dei nostri tempi. E spararli grossi, pure.

L'esperienza è un pettine che la vita ti dà dopo che hai perso i capelli

Offline Ethans

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Re: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?
« Risposta #72 il: Dicembre 30, 2009, 11:11:05 am »
Non ne usciamo più, ti avviso!!!

 ;)

Offline Giulia

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Re: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?
« Risposta #73 il: Dicembre 30, 2009, 11:23:34 am »
sì ma però è soltanto una differenza "temporale".

Il principio è uguale.
e quale sarebbe il prioncipio uguale?

Citazione
Semplicemente l'Islam di oggi è come il cristianesimo di ieri.
non centra nulla.
Citazione
Con la differenza che il cristianesimo ha perso il potere temporale diretto e quindi si appoggia via via ad altre ideologie "inquinandosi" per stare a galla.
In questo sono d'accordo con Giubizza: le religioni "di base" sono tutte uguali, così come sono uguali le ideologie.
La libertà di pensiero che abbiamo noi cristiani occidentali oggi non è dovuta al cristianesimo, ma alla sconfitta del cristianesimo e al suo tentativo di mantenere comunque un'influenza.
il cristianesimo non ha mai avuto intenzione di avere potere sulle persone.


Offline Giulia

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Re: Come vedete il futuro delle relazioni UU/DD ?
« Risposta #74 il: Dicembre 30, 2009, 11:30:30 am »
beh non è proprio così: l'autocritica non è costante ma è odierna, e la guerra santa è un concetto nato ben prima della nascita della religione dell'Islam.
beh no, lo conosceva benissimo già quando invase la spagna e la chiesa fu costretta a cacciarli via per difendere la sua identità e ci riusci dopo un lungo periodo di sottomissione  degli spagnoli da parte dei musaulmani.
quelle fu descritto come uno dei mali della chiesa cattolica....