19-02-2011
Giudichesse
La trave (rosa) è conficcata nel globo oculare italico, ma tutti guardano la pagliuzza, oramai persi nell’allusione da caserma o nell’ipocrisia da santuario. Che siano tutte donne, i cinque magistrati da cui dipende l’ennesima azione penale contro Silvio Berlusconi, è significativo, ma non scandaloso. E’ scandaloso, invece, che siano cinque colleghe. Non farci caso significa essersi rassegnati a rimanere un Paese incivile. La colpa di questo scandalo ricade, certamente, sulla corporazione dei magistrati, avversaria d’ogni riforma seria, capace di farci somigliare ai sistemi giudiziari che funzionano, ma la responsabilità ricade per intero sulle spalle del legislatore, che da lustri cincischia, parla, non conclude e se la fa sotto. Anzi, da ultimo, per mostrarsi equanime, s’è messo a sbracare anche verso la corporazione (nemica del mercato) degli avvocati.
Famiglia (allargata) Cristiana vede nelle toghe al femminile una “nemesi”. Pensiero sottile e allusione raffinata: dato che ti accusano di puttaneggiare, beccati la vindice severità delle donne. Ora, per la verità, sarebbero donne anche le mondane, molte delle quali dotate di sincera vocazione. Ma questo è un dettaglio. Il fatto è che incaricare un collegio giudicante della “nemesi” equivale a insultarlo, disprezzandone la serenità, svillaneggiandone la preparazione giuridica ed esaltandone il ruolo storico e sociale. A questi forsennati del giustizialismo (a senso unico) è forse inutile far notare che dove la giuria è popolare, come negli Stati Uniti, dove, quindi, esprime il sentire comune, la difesa ha il diritto di scartare dei giurati, considerandone la possibile prevenzione contro l’imputato. Da noi, invece, il giudice dovrebbe dar voce alle leggi, sicché si può ricusarlo solo in determinate condizioni d’incompatibilità. Il fritto misto dei due sistemi è indigeribile, oltre che incivile.
Detto ciò, sarebbe sciocco non volere notare quel che occhi non prosciuttati vedono con chiarezza: la giustizia si sta femminilizzando. Nella quarta sezione penale del tribunale di Milano c’è un solo magistrato maschio, ed è donna anche la responsabile della cancelleria. Possiamo, se volete, raccontarci la favoletta che così s’è agguantata la vera parità fra i sessi, ma se non vi sentite pronti per il festival della falsità sarà meglio dirsela tutta: la magistratura si tinge di rosa per la stessa ragione per cui si riempì di meridionali, perché è una carriera burocratica e garantita, non esposta alla competizione qualitativa e una buona alternativa all’assenza di mercato professionale. Non è affatto un caso che le tre giudici siano coetanee, siano entrate in magistratura lo stesso anno e contemporaneamente siano arrivate all’attuale incarico, al punto che il compito di presiedere deve essere assegnato per anzianità di nascita, calcolata in settimane. Tanta uniformità non è il baluardo dell’indipendenza, ma la fortezza della mediocrità. A questa si aggiunge il più macroscopico sfregio: la colleganza fra accusatori, giudici dell’indagine, giudici di merito, giudici del ricorso e giudici della procedura.
Ma, lo ripeto, il compito di porre rimedio è del legislatore, perché l’autoriforma è una via di mezzo fra la presa in giro e il trionfo corporativo. Se i parlamentari continueranno a piegarsi ai ricatti, supponendo di salvare così la pelle di qualcuno e offrendo in cambio la collettiva dannazione di un Paese senza giustizia, non avranno che i frutti di sempre: la peggiore giustizia del mondo e anche una collezione di condanne penali. Giuste o ingiuste, a quel punto, sarà irrilevante.
* archivio Giustizia
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