il reato è oggettivo!
Art. 609-bis - Violenza sessuale.
Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.
ci sono due fattispecie aggiunte, l'abuso di inferiorità e la sostituzione di persona (che mi appare piuttosto marginale come ipotesi)
guarda sono d'accordo sul fatto che occorre oggettivizzare lo stupro e riportarlo al suo significato.
Il punto è che la legge sulla violenza sessuale del 1996 l'ha soggettivizzato fino agli estremi lasciando alla libera interpretazione giuridica. Non è una legge "oggettiva" ma "soggettiva".
Ed è un problema che si pongono anche avvocati e giuristi.
http://www.diritto.it/materiali/civile/ruggiero.htmlQuesta noterella non vuole entrare nel merito di quanto recentemente deciso dalla Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale con sentenza n. 6010/2002 ma intende solo porre degli interrogativi di fondo circa il, molto spesso irrisolto, problema del rapporto tra la norma di legge e la sua interpretazione.
Si premette, qualora mai ce ne fosse bisogno, che chi scrive considera la violenza sessuale, nel pur di per se deviante elenco di gravità dei reati, uno dei delitti più aberranti e ritiene che nei rapporti interpersonali anche la semplice stretta di mano debba essere consensualmente voluta ed accettata.
Censurato, quindi, di per sé l’utilizzo della mano propria sulla persona altrui non consenziente ( o consenziente in modo ritenuto non valido dalla legge) ci si chiede come l’unico organo prensile di cui disponiamo ( se vogliamo escludere i contorsionisti ed alcuni velisti assai abili con i piedi ) possa eseguire un’ atto sessuale ai sensi di legge. E qui già ci si addentrerebbe in un autentico ginepraio qualora si volesse definire lo scopo sessuale di un atto in senso lato. Ci si limiti solo a dire che ormai è comune sentire che sessuale sia l’atto non tanto e non solo che riguardi i genitali quanto l’appagamento sessuale di chi lo compie ( da qui i comportamenti aberranti o devianti quali il feticismo, la podofilia ed altri che non necessariamente hanno una liason con la genitalità ).
Partendo da questo punto, quasi, fermo si può provare ad immedesimarsi nel giudice che deve oggettivare una sensazione che, per definizione, è soggettiva. Ci spieghiamo. Numerose sentenze hanno già statuito che la nozione di atti sessuali prevista dall’ art. 609 bis c.p. non comprende solo gli atti che involgono la sfera genitale ma anche quelli che che riguardano zone del corpo note, secondo la scienza medica, psicologica, antropologico-sociologica, come erogene. Inoltre tali zone sono definite come quelle note come stimolanti l'istinto sessuale, sicchè detti atti, quando commessi su persona non consenziente o infraquattordicenne, ledono il bene protetto, cioè la libertà sessuale del soggetto passivo (Cass. pen., Sez.III, 21/01/2000, n.400, Cass. pen., Sez.III, 04/12/1998 n. 1137, Cass. pen., Sez.III, 27/04/1998, n.6651 ).
Rassicurati dal fatto che la erogenità di una parte del corpo possa essere individuata con metodi scientifici notiamo, forse errando, che non risulterebbe ben chiaro se la stimolazione sessuale proveniente da dette zone valga per la vittima del reato o per l’autore di esso o per entrambi. Nella mano è assai sviluppato il senso del tatto per cui si potrebbe optare per la capacità di trasmettere sensazioni, in senso lato, sessuali a chi con essa abusa. Ma ciò non basta. La mano deve essere posta su una zona erogena altrui affinché si compia l’atto sessuale. E ora, ci pare, cominci a vacillare la costruzione che fin qui abbiamo edificato. Orfana di una definizione legislativa di atto sessuale ( giustamente, si può dire, per mantenere aperte le più impensate varianti dell’ atto) la giurisprudenza deve però fare i conti con la realtà quotidiana e non sempre la scienza la aiuta per cui è tentata, per necessità, a fornire decaloghi di comportamenti definibili come atti sessuali ( la già citata sentenza Cass. pen., Sez.III, 04/12/1998 n. 1137, ad esempio, definisce atti sessuali i toccamenti delle mammelle, delle cosce e il bacio a labbra chiuse ).
Tenendo conto di tale elenco e, peraltro di ben più marcati comportamenti lesivi dell’ altrui dignità sessuale avvenuti in un momento anteriore, nella sentenza in commento, è stata qualificata come violenza sessuale l’atto di libidine su una parte, si noti del corpo femminile – e non maschile - ( la coscia della dipendente sulla quale si è concentrata l’azione palpeggiatrice dell’imputato) , definita come inequivocamente rientrante nella gamma della c.d. appetibilità sessuale. Ora si noti che il palpamento, definito subdolo dalla Suprema Corte, era avvenuto di fronte ad una paziente del medico stomatologo imputato e che la reazione della parte offesa era stata la dichiarazione di essere già felicemente fidanzata ( debole difesa attesa la posizione di dipendente dell’imputato e il conseguente stato di soggezione ).
Si è prima affermato che ci si vuole astenere da giudizi in merito alla sentenza in sé ma che si desidera porre degli interrogativi di fondo.
Attenendoci a questo principio ci si pone il quesito se, effettivamente, la casistica in materia di violenza sessuale ( reato si ripete odioso ma anche gravemente infamante nei confronti di chi ne subisce la condanna) possa essere lasciata sic et sempliciter al giudizio di un apparato giudiziario che, immotivatamente, ritiene erogena una zona del corpo umano anziché un’altra. Ora che, con un passo avanti in civiltà, la violenza sessuale non viene più considerato un reato contro la pubblica morale ma contro la persona anche i metodi di giudizio dovrebbero seguire questo percorso. Si ravvisa un afflato di moralismo, infatti, nella definizione che la Suprema Corte dà della coscia, e si rimarca ancora, esclusivamente femminile come inequivocabilmente appetibile sessualmente. Le Corti si trovano nella scomoda situazione di individuare elementi oggettivi in un campo in cui la soggettività è padrona ( intendiamo la appetibilità sessuale di una parte del corpo umano nonché la soddisfazione sessuale che deriva a un soggetto dal contatto con essa ) e non agiscono neppure secondo un principio statistico del genere dell’ id quod plerumque accidit, ma secondo classificazioni lasciate alla moralità di chi giudica o, il che è peggio, alla moralità che chi giudica pensi essere quella inequivoca della società in cui si trova a vivere, operare e decidere). Ciò che interessa in questa sede è porre in evidenza questa discrasia tra la ( dichiarata e supposta )oggettività dell’ atto sessuale violento e la soggettività (quasi) inevitabile di chi deve decidere sulla natura dell’atto. Secondo il nostro modesto punto di vista un grande obiettivo di natura giuridica sarà raggiunto quando i cosiddetti operatori del diritto riusciranno a ragionare in termini a-morali nel momento in cui devono trattare temi che coinvolgono la sessualità umana. In caso contrario si rischia di confondere la oggettivazione della parte erogena del corpo ( la coscia anziché la spalla o il ginocchio) con la obiettività del giudizio.
Enrico Ruggiero, avvocato in Savona