1. Abbiamo già parlato della vergogna che sorse nel cuore del primo uomo, maschio e femmina, insieme al peccato. La prima frase del racconto biblico, al riguardo, suona così: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due, e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Gen 3,7). Questo passo, che parla della vergogna reciproca dell'uomo e della donna quale sintomo della caduta («status naturae lapsae»), va considerato nel suo contesto. La vergogna in quel momento tocca il grado più profondo e sembra sconvolgere le fondamenta stesse della loro esistenza. «Poi udirono il Signore Dio, che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l'uomo con la sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino» (Gen 3,8). La necessità di nascondersi indica che nel profondo della vergogna avvertita reciprocamente, come frutto immediato dell'albero della conoscenza del bene e del male, è maturato un senso di paura di fronte a Dio: paura precedentemente ignota. «Il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: "Dove sei?"». Rispose: "Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto"» (Gen 3,9-10). Una certa paura appartiene sempre all'essenza stessa della vergogna; nondimeno la vergogna originaria rivela in modo particolare il suo carattere: «Ho avuto paura, perché sono nudo». Ci rendiamo conto che qui è in gioco qualche cosa di più profondo della stessa vergogna corporale, legata ad una recente presa di coscienza della propria nudità. L'uomo cerca di coprire con la vergogna della propria nudità l'autentica origine della paura, indicandone piuttosto l'effetto, per non chiamare per nome la sua causa. Ed è allora che Dio Jahvè lo fa in sua vece: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?» (Gen 3,11).
2. Sconvolgente è la precisione di quel dialogo, sconvolgente è la precisione di tutto il racconto. Essa manifesta la superficie delle emozioni dell'uomo nel vivere gli avvenimenti, in modo da svelarne al tempo stesso la profondità. In tutto ciò la «nudità» non ha soltanto un significato letterale, non si riferisce soltanto al corpo, non è origine di una vergogna riferita solo al corpo. In realtà, attraverso «la nudità», si manifesta l'uomo privo della partecipazione al Dono, l'uomo alienato da quell'Amore che era stato la sorgente del dono originario, sorgente della pienezza del bene destinato alla creatura. Quest'uomo, secondo le formule dell'insegnamento teologico della Chiesa, fu privato dei doni soprannaturali e preternaturali, che facevano parte della sua «dotazione» prima del peccato; inoltre, subì un danno in ciò che appartiene alla natura stessa, all'umanità nella pienezza originaria «dell'immagine di Dio». La triplice concupiscenza non corrisponde alla pienezza di quell'immagine, ma appunto ai danni, alle deficienze, alle limitazioni che apparvero col peccato. La concupiscenza si spiega come carenza, la quale affonda però le radici nella profondità originaria dello spirito umano. Se vogliamo studiare questo fenomeno alle sue origini, cioè alla soglia delle esperienze dell'uomo «storico», dobbiamo prendere in considerazione tutte le parole che Dio-Jahvè rivolse alla donna (Gen 3,16) e all'uomo (Gen 3,17-19), e inoltre dobbiamo esaminare lo stato della coscienza di entrambi; ed è il testo jahvista che espressamente ce lo facilita. Già prima abbiamo richiamato l'attenzione sulla specificità letteraria del testo a tale riguardo.
3. Quale stato di coscienza può manifestarsi nelle parole: «Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto»? A quale verità interiore corrispondono esse? Quale significato del corpo testimoniano? Certamente questo nuovo stato differisce grandemente quello originario. Le parole di Genesi 3,10 attestano direttamente un radicale cambiamento del significato della nudità originaria. Nello stato dell'innocenza originaria, la nudità, come abbiamo osservato in precedenza, non esprimeva carenza, ma rappresentava la piena accettazione del corpo in tutta la sua verità umana e quindi personale. Il corpo, come espressione della persona, era il primo segno della presenza dell'uomo nel mondo visibile. In quel mondo, l'uomo era in grado, fin dall'inizio, di distinguere se stesso, quasi individuarsi - cioè confermarsi come persona - anche attraverso il proprio corpo. Esso, infatti, era stato, per così dire, contrassegnato come fattore visibile della trascendenza, in virtù della quale l'uomo, in quanto persona, supera il mondo visibile degli esseri viventi (animalia). In tale senso, il corpo umano era dal principio un testimone fedele e una verifica sensibile della «solitudine» originaria dell'uomo nel mondo, diventando al tempo stesso, mediante la sua mascolinità e femminilità, una limpida componente della reciproca donazione nella comunione delle persone. Così, il corpo umano portava in sé, nel mistero della creazione, un indubbio segno dell'«immagine di Dio» e costituiva anche la specifica fonte della certezza di quell'immagine, presente in tutto l'essere umano. L'originaria accettazione del corpo era, in un certo senso, la base dell'accettazione di tutto il mondo visibile. E, a sua volta, era per l'uomo garanzia del suo dominio sul mondo, sulla terra, che avrebbe dovuto assoggettare (cf. Gen 1,28).
4. Le parole «ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gen 3,10) testimoniano un radicale cambiamento di tale rapporto. L'uomo perde, in qualche modo, la certezza originaria dell'«immagine di Dio», espressa nel suo corpo. Perde anche in certo modo il senso del suo diritto a partecipare alla percezione del mondo, di cui godeva nel mistero della creazione. Questo diritto trovava il suo fondamento nell'intimo dell'uomo, nel fatto che egli stesso partecipava alla visione divina del mondo e della propria umanità; il che gli dava profonda pace e gioia nel vivere la verità e il valore del proprio corpo, in tutta la sua semplicità, trasmessagli dal Creatore: «Dio vide (che) era cosa molto buona» (Gen 1,31). Le parole di Genesi 3,10: «Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» confermano il crollo dell'originaria accettazione del corpo come segno della persona nel mondo visibile. Insieme, sembra anche vacillare l'accettazione del mondo materiale in rapporto all'uomo. Le parole di Dio-Jahvè preannunciano quasi l'ostilità del mondo, la resistenza della natura nei riguardi dell'uomo e dei suoi compiti, preannunciano la fatica che il corpo umano avrebbe poi provato a contatto con la terra da lui soggiogata: «Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto» (Gen 3,17-19). Il termine di tale fatica, di tale lotta dell'uomo con la terra, è la morte: «Polvere tu sei e in polvere tornerai» (Gen 3,19).
In questo contesto, o piuttosto in questa prospettiva, le parole di Adamo in Genesi 3,10: «Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto», sembrano esprimere la consapevolezza di essere inerme, e il senso di insicurezza della sua struttura somatica di fronte ai processi della natura, operanti con un determinismo inevitabile. Forse, in questa sconvolgente enunciazione si trova implicita una certa «vergogna cosmica», in cui si esprime l'essere creato ad «immagine di Dio» e chiamato a soggiogare la terra e a dominarla (cf. Gen 1,28), proprio mentre, all'inizio delle sue esperienze storiche e in maniera così esplicita, viene sottomesso alla terra, particolarmente nella «parte» della sua costituzione trascendente rappresentata appunto dal corpo.
Vaticano - 14 Maggio 1980http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/alpha/data/aud19800514it.htmll-------------------------------------------------------------------
1. Stiamo leggendo di nuovo i primi capitoli del libro della Genesi, per comprendere come - col peccato originale - l'«uomo della concupiscenza» abbia preso il posto dell'«uomo della innocenza» originaria. Le parole della Genesi 3,10: «Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto», che abbiamo considerato due settimane fa, documentano la prima esperienza di vergogna dell'uomo nei confronti del suo Creatore: una vergogna che potrebbe essere anche chiamata «cosmica».
Tuttavia, questa «vergogna cosmica» - se è possibile scorgerne i tratti nella situazione totale dell'uomo dopo il peccato originale - nel testo biblico fa posto ad un'altra forma di vergogna. E la vergogna prodottasi nell'umanità stessa, causata cioè dall'intimo disordine in ciò per cui l'uomo, nel mistero della creazione, era «l'immagine di Dio», tanto nel suo «io» personale che nella relazione interpersonale, attraverso la primordiale comunione delle persone, costituita insieme dall'uomo e dalla donna.
Quella vergogna, la cui causa si trova nell'umanità stessa, è immanente e relativa insieme: si manifesta nella dimensione dell'interiorità umana e al tempo stesso si riferisce all'«altro». Questa è la vergogna della donna «nei riguardi» dell'uomo, e anche dell'uomo «nei riguardi» della donna: vergogna reciproca, che li costringe a coprire la propria nudità, a nascondere i propri corpi, a distogliere dalla vista dell'uomo ciò che costituisce il segno visibile della femminilità, e dalla vista della donna ciò che costituisce il segno visibile della mascolinità. In tale direzione, si è orientata la vergogna di entrambi dopo il peccato originale, quando si accorsero di «essere nudi», come attesta Genesi 3,7. Il testo jahvista sembra indicare esplicitamente il carattere «sessuale» di tale vergogna: «Intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture». Tuttavia, possiamo chiederci se l'aspetto «sessuale» abbia soltanto un carattere «relativo»; in altre parole: se si tratta di vergogna della propria sessualità solo in riferimento alla persona dell'altro sesso.
2. Sebbene alla luce di quell'unica frase determinante di Genesi 3,7 la risposta all'interrogativo sembri sostenere soprattutto il carattere relativo della vergogna originaria, nondimeno la riflessione sull'intero contesto immediato consente di scoprire il suo sfondo più immanente. Quella vergogna, che senza dubbio si manifesta nell'ordine «sessuale», rivela una specifica difficoltà di avvertire l'essenzialità umana del proprio corpo: difficoltà che l'uomo non aveva sperimentato nello stato di innocenza originaria. Così, infatti, si possono intendere le parole: «Ho avuto paura, perché sono nudo», le quali pongono in evidenza le conseguenze del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male nell'intimo dell'uomo. Attraverso queste parole viene svelata una certa costitutiva frattura nell'interno della persona umana, quasi una rottura della originaria unità spirituale e somatica dell'uomo. Questi si rende conto per la prima volta che il suo corpo ha cessato di attingere alla forza dello spirito, che lo elevava al livello dell'immagine di Dio. La sua vergogna originaria porta in sé i segni di una specifica umiliazione mediata dal corpo. Si nasconde in essa il germe di quella contraddizione, che accompagnerà l'uomo «storico»in tutto il suo cammino terrestre, come scrive san Paolo: «Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente» (Rm 7,22-23).
3. Così, dunque, quella vergogna è immanente. Essa contiene una tale acutezza conoscitiva da creare una inquietudine di fondo in tutta l'esistenza umana, non solo di fronte alla prospettiva della morte, ma anche di fronte a quella, da cui dipende il valore e la dignità stessi della persona nel suo significato etico. In tal senso la vergogna originaria del corpo («sono nudo») è già paura («ho avuto paura»), e preannunzia l'inquietudine della coscienza connessa con la concupiscenza. Il corpo che non è sottomesso allo spirito come nello stato della innocenza originaria, porta in sé un costante focolaio di resistenza allo spirito, e minaccia in qualche modo l'unità dell'uomo-persona, cioè della natura morale, che affonda solidamente le radici nella stessa costituzione della persona. La concupiscenza del corpo è una minaccia specifica alla struttura dell'autopossesso e dell'autodominio, attraverso cui si forma la persona umana. E costituisce per essa anche una specifica sfida. In ogni caso, l'uomo della concupiscenza non domina il proprio corpo nello stesso modo, con uguale semplicità e «naturalezza», come faceva l'uomo della innocenza originaria. La struttura dell'autopossesso, essenziale per la persona, viene in lui, in certo modo, scossa alle fondamenta stesse; egli di nuovo si identifica con essa in quanto è continuamente pronto a conquistarla.
4. Con tale squilibrio interiore è collegata la vergogna immanente. Ed essa ha un carattere «sessuale», perché appunto la sfera della sessualità umana sembra porre in particolare evidenza quello squilibrio, che scaturisce dalla concupiscenza e specialmente dalla «concupiscenza del corpo». Da questo punto di vista, quel primo impulso, di cui parla Genesi 3,7 («si accorsero di essere nudi, intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture») è molto eloquente; è come se l'«uomo della concupiscenza» (uomo e donna «nell'atto della conoscenza del bene e del male») provasse di aver semplicemente cessato, anche attraverso il proprio corpo e sesso, di stare al di sopra del mondo degli esseri viventi o «animalia». E come se provasse una specifica frattura dell'integrità personale del proprio corpo, particolarmente in ciò che ne determina la sessualità e che è direttamente collegato con la chiamata a quell'unità, in cui l'uomo e la donna «saranno una sola carne» (Gen 2,24). Perciò, quel pudore immanente ed insieme sessuale è sempre, almeno indirettamente, relativo. E il pudore della propria sessualità «nei riguardi» dell'altro essere umano. In tal modo il pudore viene manifestato nel racconto di Genesi 3, per cui siamo, in certo senso, testimoni della nascita della concupiscenza umana. E quindi sufficientemente chiara anche la motivazione per risalire dalle parole di Cristo sull'uomo (maschio), il quale «guarda una donna per desiderarla» (Mt 5,27-28), a quel primo momento, in cui il pudore si spiega mediante la concupiscenza, e la concupiscenza mediante il pudore. Così intendiamo meglio perché - e in quale senso - Cristo parla del desiderio come «adulterio» commesso nel cuore, perché si rivolge al «cuore» umano.
5. Il cuore umano serba in sé contemporaneamente il desiderio e il pudore. La nascita del pudore ci orienta verso quel momento, in cui l'uomo interiore, «il cuore», chiudendosi a ciò che «viene dal Padre», si apre a ciò che «viene dal mondo». La nascita del pudore nel cuore umano va di pari passo con l'inizio della concupiscenza: della triplice concupiscenza secondo la teologia giovannea (cf. 1Gv 2,16), e in particolare della concupiscenza del corpo.
L'uomo ha pudore del corpo a motivo della concupiscenza. Anzi, ha pudore non tanto del corpo, quanto proprio della concupiscenza: ha pudore del corpo a motivo della concupiscenza. Ha pudore del corpo a motivo di quello stato del suo spirito, a cui la teologia e la psicologia danno la stessa denominazione sinonimica: desiderio ovvero concupiscenza, sebbene con significato non del tutto uguale. Il significato biblico e teologico del desiderio e della concupiscenza differisce da quello usato nella psicologia. Per quest'ultima, il desiderio proviene dalla mancanza o dalla necessità, che il valore desiderato deve appagare. La concupiscenza biblica, come deduciamo da 1Gv 2,16, indica lo stato dello spirito umano allontanato dalla semplicità originaria e dalla pienezza dei valori, che l'uomo e il mondo posseggono «nelle dimensioni di Dio». Appunto tale semplicità e pienezza del valore del corpo umano nella prima esperienza della sua mascolinità-femminilità, di cui parla Genesi 2,23-25, ha subito successivamente, «nelle dimensioni del mondo», una trasformazione radicale. E allora, insieme con la concupiscenza del corpo, nacque il pudore.
6. Il pudore ha un duplice significato: indica la minaccia del valore e al tempo stesso preserva interiormente tale valore (cf. Karol Wojtyla, «Amore e responsabilità», Torino 19782, pp. 161-178). Il fatto che il cuore umano, dal momento in cui vi nacque la concupiscenza del corpo, serbi in sé anche la vergogna, indica che si può e si deve far appello ad esso, quando si tratta di garantire quei valori, ai quali la concupiscenza toglie la loro originaria e piena dimensione. Se teniamo ciò in mente, siamo in grado di comprendere meglio perché Cristo, parlando della concupiscenza, fa appello al «cuore» umano.
Vaticano - 28 Maggio 1980http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/alpha/data/aud19800528it.html