Laogai, il gulag cinese è forte nell'export
Autore: Maurizio Blondet
E’ la più nuova merce Made in China, e anch’essa è in offerta a prezzi stracciati sul mercato mondiale. Si tratta di collagene, quel materiale biologico che i chirurghi plastici iniettano per spianare le rughe e riempire le labbra. Quello cinese costa solo il 5% del prezzo a cui è venduto il collagene prodotto in USA e in Europa. Piccolo particolare: è ricavato dai cadaveri di condannati a morte in Cina.
Lo ha scoperto un investigatore di Hong Kong, che facendosi passare per un uomo d’affari interessato alla «merce» ha contattato una ditta biotech nella provincia di Heilongjiang, nel nord della Cina.
«Sì, estraiamo il collagene dalla pelle di prigionieri che hanno subito l’esecuzione, e di feti abortiti», ha confermato il direttore vendite dell’azienda. Aggiungendo che il governo ha consigliato di tenere la cosa «riservata», visto «il rumore che questa attività provoca nei paesi occidentali».
Collagene umano Made in Cina è già stato venduto in Gran Bretagna, ha rivelato il quotidiano britannico Guardian, e probabilmente in altri Paesi europei. Quasi certamente, diverse signore sugli anta che si sono fatte «rifare» le labbra in Occidente, hanno in bocca i resti di un uomo che è stato liquidato con un colpo alla nuca, velocemente intubato dai medici (presenti sul luogo dell’esecuzione con un camioncino attrezzato) perché il cadavere resti «fresco» con la respirazione artificiale, e ripulito di reni, fegato ed altri organi.
Benvenuti nel Laogai, il Gulag cinese. La parola, che significa «riscatto attraverso il lavoro», è il nome collettivo dell’infinita rete di prigioni e campi di concentramento dove i condannati sono costretti al lavoro forzato. Ma c’è una differenza rispetto al vecchio Gulag sovietico: con il passaggio al capitalismo, i lager cinesi sono stati trasformati in aziende. Di successo, e grandi esportatrici. Spesso, i lager cinesi hanno un secondo nome, diciamo così, commerciale.
Così la prigione numero 1 di Pechino appare sul mercato come «Qinghe Magliera Fine» (le detenute vi producono calze di nylon e di cotone per l’estero). La prigione di Chengde è nota agli operatori del settore come «Calzature in gomma Chengde» ed esporta scarpe per ogni tipo di sport, al ritmo annuo di 18 milioni di paia. La prigione di Cangzhou produce ed esporta apparecchi di misura in Giappone, Gran Bretagna e Corea con il nome di «Officine Meccaniche Cangzhou»: ha un fatturato di quasi 5 milioni di dollari l’anno.
Molte di queste aziende a lavoro schiavistico hanno persino un sito internet, dove vantano la qualità delle loro produzioni, e dove i capi-carcerieri appaiono nella veste di «direttore generale», «amministratore delegato» e «direttore marketing».
L’Arcipelago Gulag cinese produce ogni tipo di merce: carbone e tè, mercurio e mattoni, guanti e pietre da costruzione, cemento e motori, bestiame e impermeabili, compressori, tubi, cerniere e minuteria metallica, abbigliamento, oggetti-regalo. Quasi certamente i reggiseno a 2 euro in vendita dai cinesi in Italia, o gli ombrellini di carta colorata che ornano il bicchiere delle bibite, vengono dai centri di detenzione Laogai. La prigione di Quincheng, la sola di proprietà del Ministero di Pubblica Sicurezza (gli altri lager dipendono dal Ministero della Giustizia) produce, in gran segreto, materiale militare di natura ignota: è stata costruita con l’assistenza sovietica nel lontano 1958.
Ma quanto è vasto l’Arcipelago Gulag cinese? E’ un segreto di Stato. In qualche documento ufficiale salta fuori la cifra di 1,7 milioni di prigionieri. Ma Harry Wu, un fuoriuscito cinese (dopo aver trascorso 17 anni nel Laogai) che spesso torna in Cina in incognito per mappare il fenomeno, ha localizzato oltre mille prigioni di lavoro e lager. E ritiene che questa cifra sia «solo indicativa». Wu calcola che la popolazione carceraria si aggiri tra i 4 e i 6 milioni.
«Almeno 50 milioni di persone sono passate nel Laogai», dice: «non c’è persona in Cina che non abbia un parente o un conoscente che c’è stato». Le prigioni sono divenute fabbriche da export per una deliberata politica del regime. In un documento ufficiale del governo, intitolato «sulle attuali condizioni dell’economia Laogai» (1990) si ammette: «nel nostro paese, l’economia Laogai è una branca dell’economia. La proprietà socialista dei mezzi di produzione sotto controllo del popolo».
Parimenti deliberato lo sforzo di rendere queste aziende schiavistiche altamente competitive e dedicate all’esportazione. Si legge nello stesso documento: «tra e merci prodotte dal Laogai, alcune sono già state classificate come prodotti superiori a livello nazionale; e alcune hanno raggiunto un avanzato livello di qualità mondiale. Molti prodotti sono anche esportati in varie parti del mondo, guadagnando non solo notevoli cifre in valuta estera, ma un’ottima reputazione per la nazione».
Infatti: i pezzi meccanici prodotti dai forzati nella prigione numero 3 di Taiyuan, alias «Fabbrica di compressori a gas Taiyuan», hanno conquistato la certificazione ISO9001. Ovviamente, i «lavoratori» dei lager non costano nulla: il massimo della «competitività». Niente salario. I premi di produzione cui possono sperare, se superano le «quote», sono miglioramenti della razione alimentare. Quanto alle condizioni di lavoro, sono ovviamente peggiori delle peggiori fabbriche cinesi con lavoratori liberi.
Un esempio di fabbrica libera, la Kingmaker della provincia del Guangdong, che produce fra l’altro le scarpe inglesi di marca Clarks: orario di lavoro medio di 81 ore settimanali, nonostante persino le leggi cinesi impongano la settimana di 44 ore. Paga oraria: 3,375 yuan (34 centesimi di euro, 70 lire). Le ore straordinarie, che per legge dovrebbero essere compensate il 50% in più, sono pagate meno: 2,5 yuan l’ora, circa 20 centesimi di euro, 40 lire.
Ovviamente, i lavoratori della Kingmaker sono esposti a collanti e coloranti tossici senza alcuna protezione, a parte delle mascherine chirurgiche. Le gigantesche esportazioni cinesi (198 miliardi di dollari solo quelle verso gli USA) sono per lo più il frutto di lavoratori che guadagnano 40 centesimi l’ora, lavorano 13 ore al giorno, e non hanno né assistenza sanitaria né sussidio di disoccupazione. Quando, per lo più sui 40 anni d’età, cominciano ad avere difficoltà a tenere i ritmi di lavoro, sono licenziati in tronco senza alcuna liquidazione.
Ebbene, nei lager è peggio. Nel campo di lavoro femminile di Xi’an presso Pechino, per completare un ordine di una ditta straniera, le donne detenute hanno dovuto lavorare dalle 5 del mattino alle 3 della notte seguente a fabbricare coniglietti di pezza.
Al centro di detenzione di Lanzhou, diecimila detenuti sono stati costretti a pelare i semi di zucca e melone (poi messi in vendita come accompagnamento dell’aperitivo) con le unghie e coi denti, per oltre 10 ore al giorno, e all’aperto: alla fine quasi tutti avevano perso le unghie, molti i denti, e parecchi erano congelati. Il tutto, come al solito, senza paga.
Ma ancor peggio è nei campi di lavoro estrattivi: nelle miniere di carbone già i lavoratori «liberi» muoiono per esplosioni e crolli con preoccupante frequenza; si può solo immaginare cosa accade (e non viene rivelato) nei lager. Nella prigione di Tongren, ribattezzata «Mercurio Tongren», i detenuti estraggono il mercurio dal minerale, il cinabro: un metallo altamente tossico, ma per i forzati non sono previste protezioni. Muoiono come mosche, ma l’azienda ha venduto all’estero il prodotto per quasi due milioni di dollari nel ’96.
Del forzato cinese non si butta via niente. In vita viene usurato da ritmi infernali di lavoro in ambienti pericolosi. Quando è condannato a morte, viene ripulito degli organi interni. Si conosce il caso di una sedicenne, chiamata Li e arrestata per «delitti controrivoluzionari», a cui è stato tolto un rene il giorno prima dell’esecuzione. Senza anestesia. In certi casi, quando occorrono cornee da trapianto, il detenuto non viene ucciso con un proiettile in testa, ma al cuore. Benvenuti nel Laogai cinese, il Gulag S.p.A. Questa è la Cina altamente competitiva. E questi sono i metodi con cui fa concorrenza alle nostre industrie.
Maurizio Blondet
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E questo è l’articolo pubblicato dall’ANSA (nella sezione APPROFONDIMENTI) il 19/04/2007 alle ore 18:53 – inviato Fabrizio Finzi…