http://27esimaora.corriere.it/articolo/la-tata-mi-annuncia-che-e-incintae-io-reagisco-come-un-capo-azienda/La mia è una sorta di confessione pubblica, una faticosa ammissione di colpa. Di punto in bianco l’altro giorno la mia tata, collaboratrice domestica, angelo del focolare che vive con me e i miei due gemellini di due anni, mi ha annunciato tra il lusco e il brusco che è incinta. Uno choc. Un moto di rabbia. Un vergognoso pensiero di repulsione per la maternità. Una minacciosa promessa a me stessa: non assumerò mai più nessuno sotto i 50 anni (Nannini esclusa). Uno sconfortante presagio: e ora che faccio? Qui c’è l’estate di mezzo, come mi organizzo? E se “questa” sta male? Certo se sta male-male si metterà in maternità anticipata, l’Inps provvederà a lei e io troverò una sostituta (che non è proprio facile); se sta bene lavorerà fino a quando se la sentirà. E se sta così così? Come faccio a stare tranquilla ad affidarle due bambini, a una incinta che sta così così e non può sollevare pesi?
Ho finto con lei di essere contenta, ma non lo ero affatto. Mi sono sentita anche un po’ raggirata. E da giorni la guardo con occhi diversi. E di questo mi vergogno profondamente. Non pensavo che io, donna, madre di due bambini, potessi avere una reazione così. Io che da anni porto avanti una battaglia sui diritti per la maternità, che sostengo che le donne che fanno figli vengono viste come dei pesi nella società e dunque penalizzate, ora mi comporto così?
La legge che ci tutela c’è eccome, ma troppo spesso è un’atmosfera culturale che si respira, una strisciante sensazione che ti circonda nell’ambiente di lavoro quella che ti pesa e ti fa sentire diversa. Il senso brutale è: “hai fatto dei figli e ora te li smazzi tu”. Non pretendere anche di voler lavorare come prima perchè saresti una pessima madre. E se invece lo vuoi fare, arrangiati e non piagnucolare sui sensi di colpa. (Ora in questa sede non sto a riflettere sul fatto che in Italia c’è un problema culturale per cui i figli sono “solo” faccenda delle madri che li partoriscono e non una questione sociale che ci riguarda tutti e come tale andrebbe vissuta, ma ripeto ora non è il caso. Magari vi tedio in un altro post).
Qui volevo manifestare il mio smarrimento (con me stessa) per aver pensato come un capo d’azienda, come un maschio all’antica, per aver vissuto anche io – almeno per un po’ – la maternità come un intralcio, nell’aver esclamato dentro di me: che palle , questa, ora mi creerà solo problemi. Cioè quello che ho provato sulla mia pelle e che sto combattendo, ora lo sto mettendo in atto io???? Come siamo fragili ed egoisti. Giuro sto provando a ribaltare la situazione e a vivere questa sua maternità come una gioia. La sto ovviamente aiutando in tutto quel che posso dal punto di vista sanitario e altro. Cerco di alleggerirle il lavoro. Ma che fatica!. Eppure bisogna farlo.
Ecco se tutti, noi donne per prime, i capi d’azienda (che spesso sono padri e hanno figli piccoli o nipoti), provassimo a farci passare quel (lecito) quarto d’ora di incazzatura col mondo, e rovesciassimo la questione, guardando come possiamo aiutare, ciascuno a suo modo, ciascuno nel suo piccolo, una vita che nasce, e aver così contribuito un pochino a costruire una società migliore, magari tutto apparirebbe più semplice. Forse…
P.S. Per dovere di cronaca e per evitare eccessi di sdolcinature: è chiaro che la capacità di assorbimento del problema che ha una grande o media impresa, rispetto a quella che ha una piccola impresa o un singolo è affare totalmente diverso. Questo giusto per non creare alibi alle grandi aziende la cui portata del problema è certamente diverso da quella di una madre che “perde” la tata. Giusto per essere chiari….