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Figli da mantenere, anche con lavoro a tempo indeterminatoRoma, la sede della Corte di CassazioneRoma - I figli trovano un lavoro con regolare contratto: con i contributi e busta paga nemmeno troppo `leggera´. Ma questo non basta a riossigenare chi è tenuto a versare l’assegno alla ex moglie per provvedere alle esigenze dei ragazzi. L’avvertimento arriva dalla Cassazione. Per mettere fine all’esborso mensile, infatti, l’impiego - dicono i supremi giudici - deve essere consono alle aspettative maturate con il titolo di studio, anche quando si tratta di un modesto diploma da ragioniere, non di una laurea prestigiosa. Per di più la retribuzione dei figlioli, anche se è quella prevista dalla legge, deve essere di una certa consistenza. Per fare l’esempio del caso affrontato dalla Suprema Corte, 600 euro per un lavoro fisso part-time, mentre si vive ancora con la mamma sotto un tetto già pagato, non esimono il padre, anche se è un povero pensionato, dal versare il contributo per la figlia. Così la Cassazione ha respinto il ricorso di Antonio R., un artigiano in pensione di Perugia, stufo di versare 150 euro mensili per la figlia venticinquenne dato che la ragazza da tempo ha un posto fisso, come commessa part-time e uno stipendio, appunto, di 600-650 euro al mese. Dato che Teresa è ragioniera, per la Cassazione, l’impiego non è adeguato al titolo di studio e Antonio deve rassegnarsi. Le ragioniere - nel mercato del lavoro, osservano i supremi giudici - non vanno più a ruba come una volta, devono aspettare l’occasione giusta. Inoltre una simile busta paga non basta all’ autosufficienza, anche se si vive ancora con mamma. «L’obbligo di versare il contributo per i figli maggiorenni - rileva la Cassazione - cessa solo quando il genitore provi che hanno raggiunto l’indipendenza, percependo un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali condizioni di mercato». Solo se il genitore dimostra che il figlio si è «sottratto volontariamente allo svolgimento di una attività lavorativa adeguata», allora può bloccare il mantenimento. Inutile pure il tentativo di Antonio di far presente che, con l’andata in pensione, il suo reddito si è assottigliato e non è certo colpa sua se Teresa «si era rifiutata» di proseguire l’attività paterna. L’uomo i deve accontentare del fatto che in primo grado, il Tribunale, ha dimezzato gli originari 300 euro di assegno. Per quanto riguarda in concetto di autosufficienza, i supremi giudici spiegano che «deve essere accertata anche sulla base di una corrispondenza, quanto meno tendenziale, fra le capacità professionali acquisite e le reali possibilità offerte dal mercato del lavoro, tenendo naturalmente conto, dell’assenza di colpevoli inerzie o rifiuti ingiustificati e, soprattutto, dell’entità dei proventi dell’attività esercitata nella ragionevole attesa di una collocazione nel mondo del lavoro adeguata alle capacità professionali e alle proprie aspirazioni, se ed in quanto concretamente e meritevolmente coltivate, nonché prive di qualsiasi carattere velleitario».http://www.ilsecoloxix.it/p/italia/2011/06/29/AOcXshg-lavoro_indeterminato_mantenere.shtml