Autore Topic: Effetto perverso dell’egualitarismo:competizione viscerale  (Letto 1600 volte)

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Offline jorek

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Effetto perverso dell’egualitarismo:competizione viscerale
« il: Ottobre 03, 2011, 11:07:42 am »
Un’intervista comparsa sul Figaro il 12/08/2011. Il giornalista Jean Sévillia parla con Pascal Bruckner).

 

Effetto perverso dell’egualitarismo : gli uomini hanno tutti diritto alla ricchezza e alla felicità, ma questa aspirazione comune provoca la guerra fra loro. L’analisi di un romanziere e saggista.

 

 

Come definisce l’invidia?

Pascal Bruckner: L’invidia è tanto il desiderio di ottenere ciò che appartiene agli altri quanto la voglia di spogliarli dei loro privilegi.

 

Questa caratteristica delle persone possiede dunque una dimensione sociale…

L’invidia è profondamente legata alla democrazia egualitaria. Questo sentimento era frenato, nella società dell’Ancien Régime, dallo stato sociale. Il commerciante poteva scimmiottare la nobiltà, come Monsieur Jourdain nel Borghese Gentiluomo, ma non poteva accedere a questa condizione, determinata dalla nascita. L’universo aristocratico manteneva una distanza insuperabile fra gli esseri umani. La Rivoluzione francese ha cambiato tutto, ravvicinando le condizioni, ed ha reso universale la concorrenza di tutti contro tutti. Se gli uomini, nelle nostre società, sono spesso agitati e inquieti è perché, in una democrazia, il successo di una minoranza e la depressione degli altri è intollerabile. Promettendo a tutti la ricchezza, la felicità, la pienezza, le nostre società legittimano anche la guerra felpata che gli uomini combattono gli uni contro gli altri, a volta a volta indispettiti o felici, secondo la loro sorte. Questo, insieme col veleno del paragone, al rancore che nasce dal successo spettacolare degli uni e dalla stagnazione degli altri, trascina ognuno in un circolo senza fine di appetiti e di delusioni. Non c’è peggiore ammaestramento di quello che s’infliggono gli individui in competizione quando aspirano collettivamente alle stesse cose. Tutti uguali, dunque tutti nemici. Ed è così che, secondo Stendhal, i tempi moderni registrano il trionfo dell’invidia, della gelosia e dell’odio impotente.

 

Che differenza c’è tra invidia e gelosia?

La gelosia riguarda la perdita di un essere che ci è caro e la cui tenerezza può esserci rapita. Gli anni Sessanta avevano creduto di potere eliminare questo sentimento mediante l’emancipazione dei costumi. Si è finito con l’accorgersi che esso si è dissimulato sotto altre strategie, ma rinasce continuamente malgrado gli sforzi impiegati per ucciderlo. La vita di coppia oscilla in permanenza fra questi due stati: vi si è gelosi della propria indipendenza e vi si è gelosi dell’altro o dell’altra. Ma questa brutta tendenza, con buona pace dei riformatori del cuore umano, non ha nessuna ragione di sparire. Al di là del desiderio di possesso, la gelosia segna la tragedia dell’alterità, il fatto che si va ad urtare sull’ineliminabile differenza dell’altro e sul fatto che ci sarà sempre fra noi un muro insuperabile. Se sono geloso soltanto delle persone che amo, tutto, al contrario, alimenta l’invidia: la beatitudine degli altri, la loro ricchezza, la loro posizione sociale e perfino la loro infelicità, la loro malattia, che li rendono più interessanti di noi.

 

Quali sono i sintomi dell’invidia?

Il più evidente riguarda i segni esteriori della ricchezza, in una società che valorizza più delle altre il successo economico. Quando le persone di ambienti differenti stanno insieme, lo stupore, ma anche la rabbia possono sgorgare dal loro confronto. “Essere povero a Parigi, diceva Emile Zola, è essere povero due volte”. La nostra miseria sarebbe più sopportabile se non vedessimo costantemente la felicità dei benestanti. Prendete una situazione tipica di questo periodo estivo: un porto turistico, Saint Tropez per esempio, dove la folla degli estivanti, in calzoncini e tongs, viene ad ammirare gli eletti e i prosperi che se la godono sui loro yacht. Urto brutale che può suscitare parecchie reazioni. Cioè: farò tutto per divenire un giorno uno di loro. Oppure: mi batterò perché nessuno abbia il diritto di ostentare la propria ricchezza in modo osceno dinanzi ai poveri. O ancora, posizione più saggia: sono felice della felicità dei milionari, ma non considero un successo l’ostentazione dei beni materiali.

 

Ma gli stessi ricchi sono presi nell’ingranaggio perverso della brama insaziabile nei confronti di quelli che hanno più di loro: accanto agli opulenti ordinari, ci sono le Grandi Belve la cui magnificenza urta i sentimenti degli altri. La stessa società che suscita l’invidia crea tuttavia dei meccanismi capaci di frenarla. Il primo, è il telegiornale. Lucrezio, nel De Rerum Natura, parlava del saggio che seduto sul bordo dell’alta roccia, guarda gli imprudenti perdere la vita in mare durante la tempesta. Questa formula, che è un elogio della moderazione e del sacro egoismo, descrive abbastanza bene la posizione del telespettatore del telegiornale delle venti. Se i media hanno l’ambizione di allarmarci riguardo alle tragedie del mondo, rinforzano anche il nostro sentimento di pace.  Quando il Giappone è devastato dallo tsunami, minacciato da un incidente nucleare, il telespettatore segue queste informazioni con un segreto compiacimento: è spaventoso, ma io sono al riparo. La mia vita è forse mediocre, ma essa è preferibile a quella delle popolazioni sinistrate. È orribile da dire, ma noi abbiamo a volte bisogno della disgrazia altrui per sentirci bene, confortati dalle nostre scelte. La seconda macchina per frenare l’invidia, è la stampa femminile. Da un lato essa ci squaderna sotto gli occhi persone belle, ricche e abbronzate, che sembrano avere ogni forma di successo, e nello stesso tempo essa registra con un certo sadismo il lento decadimento delle star, il loro imbruttimento, le loro rughe, i loro rotolini di grasso, i loro tormenti amorosi, i loro insuccessi professionali. Essa esalta lo splendore delle persone quanto il lato effimero di questo splendore: gli dei viventi regnano sovrani per qualche anno ma un giorno possono cadere dal loro piedistallo. Dopo tutto, i potenti di questo mondo non sono poi così contenti ed io non ho da desiderare il loro destino.

 

La nostra società non crea forse delle invidie artificiali?

Assolutamente sempre, ed è questo che spiega il suo fascino e il suo pericolo. Era già la discussione sul lusso fra Voltaire e Rousseau. Per il primo, il lusso rendeva gli uomini cortesi, brillanti, apriva il loro cuore ad ogni sorta di raffinatezza. Per Rousseau, al contrario, rappresentava la creazione d’appetiti fittizi che strappavano l’individuo a se stesso, ne facevano la preda dell’amor proprio. Oggi, il consumismo e le grandi città non cessano di suggerirci modelli di godimento, di piacere, di stili di vita di cui siamo privi.  Nei luoghi pubblici, nelle grandi arterie, incrocio degli sconosciuti il cui aspetto può attirarmi ma anche disturbarmi. Lo spettacolo della felicità degli altri non è sempre una fonte di compiacimento: può ferirmi quando è troppo ostentato, dimostrativo. Gli scoppi di risa di una comitiva gioiosa, risuonando nelle mie orecchie, mi rinviano alla mia solitudine, alla mia piccolezza.

 

Jules Renard diceva che non basta essere felici: è ancora necessario sapere che gli altri non lo sono. La felicità è un bene il cui prezzo è di non appartenere che a me. L’invidioso scruta con sadica bramosia la caduta delle persone che sono nello stesso tempo i suoi modelli e i suoi rivali. Ne trae un triste giubilo, non lontano dal risentimento, aspettando di trovare nuove persone che insieme corteggerà e detesterà.

 

La Seconda Guerra Mondiale ha aperto nel modo più drammatico un nuovo capitolo nella storia dell’invidia, conseguenza dell’Olocausto: la vittimologia. Tutti i popoli e le minoranze sognano di installarsi nella posizione inarrivabile dell’oppresso: potersi dire oggetto di una persecuzione, di un genocidio, significa beneficiare di una rendita morale che vi rende intoccabili, è accedere alla grande luce della riconoscenza. Da questo la concorrenza delle vittime che oppone discendenti di schiavi, ex colonizzati, ebrei, donne, proletari. L’affaire Strauss-Kahn ne è l’illustrazione perfetta, quella che oppone il maschio bianco, ricco e “perverso” alla cameriera africana piena di meriti. La colpevolezza del primo si deduce dal suo sesso e dalla sua ricchezza. Checché abbia fatto o non fatto, ha torto. Anche se la giustizia lo dichiarasse innocente, sarebbe colpevole. Incredibile rovesciamento: da mezzo secolo, la sofferenza è divenuta desiderabile, tutte le minoranze e tutti i popoli sognano di far parte dell’aristocrazia dei paria.

 

Si conosce l’origine delle proprie invidie? Si è coscienti di essere invidiosi?

Che se ne sia coscienti o no non cambia gran che: non si è per questo meno avidi. Ciò che suscita questa malattia tanto umana è la prossimità di coloro di cui si invidia il fisico, il salario, la vita amorosa, l’eleganza. Vivere costantemente accanto a persone più agiate, più dinamiche, che sottolineano i vostri limiti, non può che rendere più cocente la ferita narcisistica. C’è un ambiente in cui l’invidia regna sovrana, ed è quello dell’arte e della letteratura. Con un paradosso: questo ambiente, tradizionalmente orientato a sinistra, è anche quello in cui le leggi del mercato si applicano nel modo più spietato. Quando si è pittori, musicisti, attori, registi o scrittori, il valore è dovuto soltanto all’opinione degli altri. Quali che siano i vostri talenti, sarete stimato in funzione delle vostre vendite, dei vostri successi. Che essi calino ed ecco sarete considerati degli has been, sarete collocato nella categoria infamante dei perdenti. V’è uno iato fra la generosità politica ostentata dai grandi nomi del mondo dell’arte e dell’intellighenzia e la crudeltà senza limiti che caratterizza l’antagonismo fra artisti. In rialzo, in ribasso, come alla Borsa, la nostra quotazione sale e scende in un yoyo infernale che non controlliamo. Questa violenza agisce con totale evidenza nei circoli degli artisti sconosciuti, delle avanguardie dove non esiste previdenza sociale, reti di protezione, dove non c’è che l’approvazione o l’indifferenza del pubblico, il tribunale più versatile che ci sia. Come l’imperatore romano nei combattimenti dei gladiatori, è lui che alza o rovescia il pollice.

 

Qual è il contrario dell’invidia: il dominio di sé, l’ascesi?

L’impoverimento volontario per tutti è stato la risposta di un certo socialismo all’invidia suscitata dal capitalismo. L’applicazione di questo principio nell’ex Unione Sovietica ha provocato un gigantesco fallimento: invece di arricchire l’insieme della società, non ha condotto che a rendere anemico l’insieme del popolo. Questo discorso risorge oggi attraverso un certo ecologismo, negli slogan della “sobrietà felice”, dell’ “abbondanza frugale”, solo modo, ci dicono, per salvare il pianeta. La vera ricchezza non sarebbe nei beni, ma nei legami; spossessarsi materialmente corrisponderebbe ad arricchirsi spiritualmente. Non vedo per quale miracolo avremmo una vita culturale più ricca se le case fossero illuminate con le candele. Detto questo, uno dei torti di un certo liberalismo all’anglosassone è stato di disconoscere la forza dell’invidia. Le teorie liberali postulavano che l’egoismo dei singoli, quando era sottoposto al libero mercato, permetteva di concorrere alla felicità di tutti. Si dimenticava che, in una società come la nostra, i vinti non sono soddisfatti della loro sorte. Non tutti hanno risorse sufficienti per ripartire  su un’altra base se sono falliti. Gli americani e i francesi hanno due atteggiamenti diversi, nei confronti della sconfitta. In Francia è infamante e vi segna per tutta la vita; negli Stati Uniti, una giovane nazione in cui impera il culto dell’impresa, fa parte del corso normale della vita, è una tappa sul cammino del trionfo. Dipende anche dal fatto che abbiamo due usi diversi della ricchezza. Da noi, gli opulenti si nascondono, strategia della discrezione per non ferire  i meno abbienti; negli Stati Uniti si mostrano, strategia dell’ostentazione per suscitare l’ammirazione e incoraggiare gli altri a seguire il loro esempio.

 

Si può guarire dell’invidia?

Si esce dall’inferno dell’invidia attraverso l’ammirazione. L’altro non è soltanto un rivale il cui splendore vi ferisce, è anche un suggeritore nel senso che la parola ha in teatro. Ci suggerisce, ci sussurra mille modi di vivere in modo diverso, di tracciare nuove vie. Le folate velenose della gelosia possono allora ribaltarsi in emulazione, in curiosità, e divenire un veicolo di desideri invece che un ostacolo insuperabile. La società migliore è quella che sa mettere i vizi più inconfessabili al servizio del bene comune.

 

Traduzione di Gianni Pardo, 2 ottobre 2011

Ripreso da Zona di frontiera (Facebook) - zonadifrontiera.org (Sito Web)

03 ottobre 2011

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Re: Effetto perverso dell’egualitarismo:competizione viscerale
« Risposta #1 il: Ottobre 03, 2011, 14:39:20 pm »
Bell'articolo Jorek, complimenti.
Vera filosofia.
Attraverso il sentimento dell'invidia, si puo spiegare la storia del mondo.
In effetti, è quello che ho fatto io.  :P

http://www.metromaschile.it/forum/dialoghi-sulla-qm/aphorismen/msg15704/?topicseen#msg15704
http://www.metromaschile.it/forum/dialoghi-sulla-qm/aphorismen/msg23028/?topicseen#msg23028



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Re: Effetto perverso dell’egualitarismo:competizione viscerale
« Risposta #2 il: Ottobre 03, 2011, 15:42:18 pm »
Citazione
La seconda macchina per frenare l’invidia, è la stampa femminile. Da un lato essa ci squaderna sotto gli occhi persone belle, ricche e abbronzate, che sembrano avere ogni forma di successo, e nello stesso tempo essa registra con un certo sadismo il lento decadimento delle star, il loro imbruttimento, le loro rughe, i loro rotolini di grasso, i loro tormenti amorosi, i loro insuccessi professionali. Essa esalta lo splendore delle persone quanto il lato effimero di questo splendore: gli dei viventi regnano sovrani per qualche anno ma un giorno possono cadere dal loro piedistallo. Dopo tutto, i potenti di questo mondo non sono poi così contenti ed io non ho da desiderare il loro destino.

Questa punto è notevole, non ci avevo mai pensato. :doh:
(gli altri invece, si, anche perché ho letto vari libri sul tema, e bene o male son tutte cose risapute)

Il tempo di metabolizzarlo e ...
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Re: Effetto perverso dell’egualitarismo:competizione viscerale
« Risposta #3 il: Ottobre 03, 2011, 23:29:40 pm »
Articolo interessantissimo.........mi ha fatto venire la pelle d'oca perchè mi rispecchio in quasi tutte le considerazioni fatte............ e pensavo di essere io il malato......... invece quasi tutta l'umanità è così................... meno male.

C'è da dire però che l'invidia e la competizione sono il motore del progresso e dell'innovazione che ci hanno portati fino a qui, allontanandoci dalle caverne umide, dal freddo, dalla fame e dalle malattie (almeno per gli abitanti del mondo industrializzato): il paradosso è che un essere umano occidentale attuale che dovrebbe sentirsi un superprivilegiato rispetto ai suoi avi visto che il benessere materiale unito al progresso tecnologico gli garantiscono una qualità di vita impensabile anche per i ricchi del passato (si perchè i ricchi potevano essere pure pieni di soldi ma il loro tenore di vita era comunque molto basso per via dello scarso o nullo sviluppo tecnologico e scientifico - basti pensare alla cura di molte malattie oggi banali ma un tempo mortali  - ) magari si perita al pensiero che lui ha solo un'utilitaria mentre il suo vicino di casa una BMW (BMW che probabilmente - per effetto del progresso tecnologico -  sarà peggiore dell'utilitaria che comprerà l'invidioso tra 15 anni).
Sic transit gloria mundi.

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Re: Effetto perverso dell’egualitarismo:competizione viscerale
« Risposta #4 il: Ottobre 04, 2011, 00:46:49 am »

C'è da dire però che l'invidia e la competizione sono il motore del progresso e dell'innovazione che ci hanno portati fino a qui, allontanandoci dalle caverne umide, dal freddo, dalla fame e dalle malattie

C'è da dire che però, essendo quella (l'invidia) la pulsione alla base dell'ugualitarismo e del progresso: http://www.metromaschile.it/forum/dialoghi-sulla-qm/aphorismen/msg23478/#msg23478
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