questo lo consiglio a ethans, per consolarlo dall'ultima delusione procuratagli dagli opeth. Obbligatoria la lettura della recensione
Diabolism of Conversation
Fury N Grace
2011, Underground Symphony
Heavy
Pubblicata in data: 16/01/2012
Tired of the everyday grind? Ever dreamed of a life of romantic adventure?
Non so voi, ma io sì, sono stanco. Stanco, schiantato e annichilito da quell’incessante flusso di banalità che ci divertiamo a chiamare, non senza un certo disprezzo snob, ‘mainstream’; ma stanco, schiantato e annichilito anche dal quello che con non minore snobistica devozione osiamo ancora definire ‘underground’ – terreno già tanto fertile negli anni che furono (forse per via della generosa proporzione di letame che lo componeva), oggi arido, sterile, avaro di oasi, sì che quale granello di sabbia ogni nuova piccola promessa inesorabilmente scivola e ci sfugge tra le dita.
Veniamo da un decennio di reunion e revival, incapace non già di proporre il nuovo bensì di affermarlo e sostenerlo e svilupparlo; dal patetico pigro tentativo di riportare in auge una decade di lacca e coriandoli che, nel bene e nel male, appartiene al passato, né merita l’accanimento terapeutico post-mortem al quale ci ostiniamo a sottoporla. Veniamo da un decennio di vampiri, che hanno conficcato gli avidi canini nei tagli migliori del mainstream anni ‘80 e dell’underground anni ’90 per tramutarli in hamburger, fast food, snack da buttar giù come caramelle di diverso colore ma identico sapore. Veniamo, per giunta, da un decennio che è riuscito a dare gli stessi suoni a Nightwish e Amon Amarth, a Kamelot e Nevermore, a Epica e Amorphis, e a convincerci che è stata cosa buona e giusta.
Il grosso del cosiddetto heavy (?) metal (???) de’ giorni nostri è, per chi scrive, Stephenie Meyer e Fabio Volo: produzioni industriali, posticce, adolescenziali, usa e getta, che in un mondo retto e giusto non sopravviverebbero a un viaggio in treno, e forse nemmeno a quello, ovvero pretestuosi minestroni intellettualoidi rigurgitati da VIP pensionandi o pensionabili, che non si capisce se ci sono, ci fanno, o semplicemente non sono ancora stati avvertiti dei propri indefettibili limiti. Viviamo in anni dominati, ancora, dai pronipoti di sua maestà il denaro, netturbini di quelle che il Poeta chiamava, con la statuaria superbia di chi scrive per restare, immondizie musicali – le quali senza sosta sommergono la nostra intelligenza, o ciò che ne resta, mentre come lobotomizzati assistiamo, e anzi spesso contribuiamo col nostro, affinché i perversi alchimisti del music business possano tramutare indisturbati il nostro buon vecchio rugginoso metallo in volgare plastica.
Tutto questo gratuito veleno per dirvi ciò che chiunque abbia avuto la buona creanza di inserire ‘Diabolism Of Conversation’ nel lettore sa già.
‘Macabro’ ci butta fuori da questa discarica di materiali irriciclabili a calci nelle gengive. Fatevi un favore: procuratevi un coccolone ascoltando quell’assalto all’arma bianca che è l’attacco strumentale da 0:10 a 1:21, e se già qui vi siete persi spegnete tutto e pigliate fiato, perché per quello che deve ancora arrivare probabilmente non avete ancora il fisico.
Più adrenalina? Macché, ‘Diabolism…’ non la fa così facile. ‘Diabolism…’ ha delle storie da raccontare. ‘Diabolism…’ attacca contemporaneamente il fegato e il cervello, sicché l’uno non può andare avanti senza l’altro e noi, abituati come siamo a vivere un organo per volta, rimaniamo lì quasi inebetiti, a fare i conti con i nostri lapalissiani limiti estetici ed estatici.
Perché ‘Diabolism…’ è in effetti una (dis)continua involuzione dal dinamico allo statico, un catena di anelli diseguali, un’escursione da folli alpinisti dell’orrore che ci costringe a progressive privazioni – di epinefrina e di ossigeno, di tecnicità e armonia. Un passaggio da ‘Macabro’ e ‘Privilege Of Death’, l’inafferabile perché troppo rapido e vorticoso, a ‘Von der Vermählung des Salamanders mit der grünen Schlange’ e ‘Gavotte For The Ghost In The Oven’, l’insostenibile perché troppo greve e crudo.
‘Diabolism…’ è perdita di equilibrio, fisico e mentale; è battaglia ritmica da berserkir della composizione, epica e dissennata e senza ritorno – ‘In Midnight Gardens Burns The Veil Of Evening Fears’, un titolo al quale non gliene frega evidentemente una mazza di essere ricordato, perché alla memoria già manda la furia imperiosa degli strumenti, ragnarok di unisoni e a solo dal quale nemmeno un dio uscirebbe incolume.
‘Diabolism…’ è una macina di pietra che trita riff come fossero noccioline; un maglio minaccioso che incalza i Black Sabbath perché correrano più forte e ammonisce i Carcass perché s’ammansiscano – ‘The Serpent’, che nelle sue continue mute di pelle confonde, e ipnotizza, e avvolge fra le spire di una melodia che avvolge, placida, per improvvisamente stritolare, un attimo prima di azzannare dritto alla gola.
‘Diabolism…’ è un corno di guerra, è la benedizione di una voce ruvida e aspra, che incita e chiama a raccolta la truppa dei neuroni sul punto di gettare gli scudi; un canto che come spinoso filo di Arianna ferisce l'anima e guida il passo in un dedalo armonico inestricabile; un inno al dimenticato, al perduto, all’immemorabile – ‘Of Human Details’, le zanne agli Abstrakt Algebra conficcate nella carne immortale di Opeth e Cathedral, per suggerne il sangue denso e ustionante come magma.
‘Diabolism…’ è il sepolcro nel quale riposano insieme amori perduti, mondi inconciliabili, memorie che attanagliano le viscere e costringono alla veglia; un notturno elettrico, una brumosa elegia dell’anacronistico – ‘The Darkening Of A Violet Plumage’, e come fare a non sentirci le lacrime per la caduta dei giganti, per la fine amara di chi scrisse la poesia di ‘Bloody Kisses’ e ‘September Sun’?
‘Diabolism…’ è l’apparenza di un solido campo di battaglia, la rivelazione di una palude di argilloso pantano, trappola letale per l’incauto che aveva preso la via con troppa baldanza, e troppo pesantemente armato, sì da cacciargli in gola le note più basse, più oscure, quelle che attendono sotto la superficie dell’evidente, e letali riempiono i polmoni di chi non sa danzare su di esse con piede leggero – ‘Architecture’, otto minuti di apnea in una scala a precipizio nel bizzarro e nell’angosciante.
‘Diabolism’ è ironia, è gioco di testi e riferimenti, allusioni e citazioni, è poesia di suoni e parole, è risata solenne, beffarda, disperata – ‘Gavotte For The Ghost In The Oven’, la fine del viaggio, l’apoteosi del grottesco, il veleno che entra in circolo e confonde la mente mentre, poco a poco, prosciuga le forze.
‘Diabolism…’ è heavy metal, semplicemente, portato a un livello che non avete idea.
Sarebbe un insulto chiamarlo underground – oggi dire underground è dire il deserto – questa roba è nutrimento per l’affamato di musica, è letteratura su pentagramma, Dostoevskij che incontra Poe, ci fa a botte e poi gli offre un sorso di assenzio.
Prendetevi tempo: il vostro cervello ne ha bisogno per capire, il vostro fegato per assimilare. Non avrete vita facile qui, non avrete il piacere effimero del rapido ascolto: per quello c’è il vostro negozio di sfiducia sotto casa. Se invece credete che la musica sia altro che un passatempo per colmare i tempi morti, altro che un sottofondo per riempire orecchie distratte, altro che un motivetto da canticchiare sotto la doccia – bene, avete trovato pane per i vostri denti.
Perché con questo disco i Fury N’ Grace una cosa molto chiara vogliono ficcarci in testa. Non importa quanto alta e inespugnabile appaia la muraglia dei mercenari della musica come mezzo. Per gli strenui custodi della musica come fine è ancora troppo presto per issare bandiera bianca.
“E ora i viaggiatori in quella valle,
attraverso le finestre soffuse di rosso lucore,
vedono vaste forme muoversi fantastiche
al suono di una melodia discorde;
mentre, simile a un fiume rapido e irreale,
attraverso la pallida porta,
una folla ripugnante si riversa precipite, senza sosta,
e ride; ma più non sorride.”
(E.A.P.)
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