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miiiiiiii....non gi bosso gredereee!!!!http://www.ilfoglio.it/osservatriceromana/51ARCHIVIO › L'OSSERVATRICE ROMANA
28 marzo 2012
Un detto piuttosto volgare recita così: se ti vuoi liberare di tua moglie, fai prima a ucciderla che a divorziare. Chi ammazza, dopo al massimo una decina d’anni – se viene scoperto, e spesso invece il dubbio lo assolve anche in flagranza – torna libero. Il femminicidio, d’impeto o premeditato, conviene. Chi ingaggia battaglie sanguinose per separarsi magari passa la vita a discutere di alimenti, figli, case in comune. Un inferno, una condanna a vita. Il delitto, invece, nei tre gradi di giudizio – accelerato, patteggiato, confezionato ad hoc – va più rapido. Più se ne parla, più sembra a molti l’unica soluzione. Prima si fa sparire la disgraziata, poi la si butta chissà dove e poi si fa finta di piangere. Il copione è scritto: le famiglie di lei e di lui unite al funerale e separate in tv e in tribunale dopo qualche settimana. Un mistero cosa fosse quell’unione prima della morte: magari era davvero insostenibile. E il divorzio? Le separazioni? Come mai tanta gente li teme come il luogo del rovesciamento di accuse, segreti piccoli e grandi che andrebbero custoditi nell’alcova e sarebbero invece offerti al pubblico dominio? Il moltiplicarsi di delitti casalinghi con un ritmo – almeno televisivamente – bisettimanale allarga la discussione oltre i confini del femminismo ovvio e consueto.
Ovvero. Quanto diventano insopportabili i matrimoni italiani? Se fossimo persone serie, di questo si parlerebbe senza invocare ogni volta la debolezza e la fragilità delle mogli (il 99 per cento delle signore che conosco ha una forza che potrebbe schiantare il marito con una battuta), sempre e comunque vittime. Possibile che sia sempre così? Quante donne si tengono il violento accanto per anni – tacendo – illuse di salvarlo dal suo demone? Se davvero tutti i casi di uxoricidio prevedessero una vittima designata, saremmo circondati da carnefici che improvvisamente impazziscono, e non è vero, non risulta. Meglio morta che divorziata: mettiamoci una pietra sopra. E’ il divorzio all’italiana dei tanti film del Dopoguerra. La cosiddetta civiltà della separazione, del divorzio, la famiglia allargata che se la spassa in vacanza: esistono davvero, al di là delle inchieste dei settimanali? Forse, in qualche remota provincia americana. Non qui da noi. Anche nelle migliori famiglie – dal caso Gucci alle mille schermaglie degli Agnelli è chiaro che l’alta società si comporta come il basso napoletano e forse anche peggio – le rotture sentimentali finiscono in tragedia. Botte, denunce, agguati e telefonini strappati. I gossip metropolitani raccontano molto, anche attorno a personaggi insospettabili. Dunque, al di là della cronaca e delle relative omelie sulle femmine preda del “maschio cattivo”, solleciterei una bella riflessione su quanto noi (donne) siamo diventate insopportabili, insostenibili, nemiche, avversarie. Portare l’altro all’esasperazione – confessiamolo – è un’arte, una capacità, una maledizione tutta rosa. Il gioco delle violenze non è a senso unico. Finché non ammetteremo questa grande verità non ne usciremo vive.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Barbara Palombelli