La madre può disconoscere il figlio alla nascita.
Il padre no.
direi che non è male come discriminazione
Perdonami, ma non ho capito. Cosa intendi per "disconoscere"?
E' questo che oggi divide uomini e donne.
Stai praticamente dicendo che se la tua scorta viene uccisa nell'atto di salvarti la vita, tu non provi riconoscenza.
(...)
Questa è una logica teorizzata nel femminismo in termini di: conflitto necessario.
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Manca l'equilibrio, perché la logica è quella dello scontro. Tu dici di volerlo superare, ma è un ordine di idee che ci sovrasta e come vedi è difficile sottrarsi.
Parlando ad un uomo gli dicevo di questa tua necessità di definire i morti vittime del lavoro come declinazione di un ipotetico *sacrificio di genere*. Mi ha risposto "che culo!", nel senso che anche lui riteneva, come me, che non c'è nulla di che rivalersi di una strage di innocenti generata per questioni di sfruttamento e profitto. Inoltre mi diceva che non si sente depauperato o svilito in quanto uomo, che il riconoscimento per se stesso è determinato da una scala di valori differente e che non sente minacciata la sua identità maschile in alcun modo perché egli innanzitutto intende riferirsi a se stesso come ad una persona.
Per quello che mi riguarda sono abituata a considerare le relazioni in una dimensione di condivisione, scambio e sinergia e non di contrapposizione. Non ambisco a tutele e non valorizzo un uomo in quanto uomo sulla base di un suo ipotetico estremo sacrificio. Io spero che nessuno debba compiere un "sacrificio" mai. Spero che nessuno debba mai morire per nessun altro/a. Spero che nessuno debba sacrificare alcunché della propria vita per me, uomini o donne che siano. E se c'è da difendersi piuttosto proverei a difendermi da sola. E i motivi comunque di riconoscenza sono tanti, infiniti, nei confronti di uomini e donne che per me hanno fatto e fanno tanto senza che si debba evocare l'estremo sacrificio del dono della vita che contestualizzo in una cultura che riconosce il valore di un uomo solo in quanto intrepido guerriero, soldato, in poche parole uno che viene mandato a morire per motivi altri che non siano la mia "salvezza".
In quel senso per me eroe è chi lascia le armi, toglie la divisa, smette di combattere, mostra paura, fa obiezione di coscienza, si rifiuta di uccidere.
Non intendo mettere in discussione i tuoi valori di riferimento ma sono cresciuta in una città che ad ogni angolo sfoggia monumenti in ricordo di uomini e donne vittime della mafia, eroi caduti in una guerra per la legalità e la giustizia. La retorica costruita su questo è stata opprimente e riduceva tutti, non solo le donne, a cittadini/e bisognosi di tutela che da soli/e, autonomamente, non avrebbero mai saputo affrancarsi dalla schiavitù. Un concetto che rimanda ad una dimensione coloniale dei problemi: qualcuno salva qualcun altro, muore per te e la riconoscenza diventa motivo di egemonizzazione culturale, di colonizzazione e di uso in ogni senso e nel frattempo ti viene vietato di esprimere sovranità territoriale o sovranità autodeterminata, per la tua stessa vita.
Tutto ciò è stato palese giusto nel 1992 quando dopo le grosse stragi di mafia la gente, me inclusa, scendeva in piazza arrabbiata contro anni di ammazzatine, collusione, connivenze, complicità a più livelli, che vedevano connessioni tra pezzi dello Stato e altre entità che ci hanno reso succubi di politiche tremende, e fu in quell'occasione che arrivarono camion e camion di militari che venivano dal nord a sedare e reprimere la rivoluzione popolare, a militarizzare l'isola fingendo che tanto servisse a "tutelare" noi.
La stessa cosa la puoi vedere nelle piazze in cui gli operai vanno a manifestare per rivendicare il proprio diritto al posto di lavoro dove vengono monitorati, repressi da persone che teoricamente dovrebbero "tutelarli".
L'elemento tutelare diventa spesso motivo di oppressione e determina una perdita di autonomia.
D'altro canto i miei miti di riferimento erano anche alcuni uomini che nella mia formazione sono stati determinanti. Peppino Impastato, Pippo Fava, figure di giornalisti, idealisti, uomini e donne che hanno combattuto per affermare il proprio diritto con strumenti eccezionali quali la satira, il giornalismo, l'informazione, la cultura. Uno dei miei eroi è mio padre, onesto, meraviglioso e infaticabile lavoratore, che correggeva i miei scritti quando a sei anni cominciavo a immaginare storie, che mi portava libri per darmi strumenti per realizzare le mie aspirazioni, che mi ha sempre insegnato, assieme a mia madre, che l'istruzione e la cultura sono strumenti meravigliosi di autodifesa e che innanzitutto, nella vita, bisogna poter contare su se stessi/e. Una delle mie eroine è mia madre, straordinaria combattente che ha lavorato per tutta la vita e che mi raccontava le storie della mia geneaologia per compensare la mia sete di narrazioni. C'era lui che intruppava tutta la famiglia, figli inclusi, per costruire una casa mattone su mattone fatta con le nostre mani e c'era lei che al tempo in cui in Sicilia l'acqua corrente arrivava ogni venti giorni caricava bidoni da trenta litri, uno per ogni braccio, e faceva due piani per andare a riversare l'acqua nella vasca che ci consentiva di poterne fruire. A casa mia si faceva e si fa ancora a gara a chi fa di più e questo prescinde dal genere. Se c'è un "sacrificio", che non è più tale perché diventa un dono, è reciproco ed è diretto alle persone che ami. Perché ciò che fai per le persone che ami non lo evocherai mai, si spera, come motivo per rivendicare una proprietà su di loro o per rivalerti di un qualunque orgoglio di genere.