Speciale Zadie Smith
Saggio I parte
Mai imparato il greco (prima parte)
di Zadie Smith
Questo testo è un estratto dall'intervento scritto da Zadie Smith per l'edizione 2006 del festival Le Conversazioni e originariamente pubblicato nel volumetto Le conversazioni. Scrittori a confronto (La conchiglia, 2006, a cura di Antonio Monda e Davide Azzolini).
In versione intergrale è apparso anche sul numero di Vanity Fair del 6 luglio 2006. Viene qui riprodotto per gentile concessione dell'autrice.
Nel momento in cui scrivo è la fine di novembre. Da un capo all’altro dell’Europa ci si prepara a un inverno che promette un clima ancora più brutale del solito. Altrove, sulle riviste femminili, alle donne si consiglia di scegliere con la massima attenzione l’unico cappotto invernale che si compreranno quest’anno. Dopotutto, quello è l’indumento con cui usciranno mille volte di casa; parlerà per loro e di loro per tutto il lungo periodo di freddo fino all’arrivo della primavera. La donna che fa una scelta errata in materia viene considerata sciocca, quasi deliberatamente irragionevole. In un altro posto ancora, sulla scena mondiale, c’è una guerra, di cui si discute la legittimità. I giornali pubblicano articoli sullo shopping prenatalizio accanto a pezzi sulla guerra e contro la guerra: ci viene richiesto di tener presente allo stesso tempo che non c’è abbastanza gente che fa shopping e che c’è troppa gente che muore.
È la stagione delle feste. Le donne si stanno preparando. Ogni giorno dell’anno le donne si vestono, si truccano e si guardano allo specchio nell’ingresso. La differenza è che durante la stagione delle feste prendono piede nuove illusioni di potenza. È opinione diffusa che da qualche parte ci sia una donna che entra in una festa affollata e ognuno dei presenti interrompa le proprie attività per voltarsi a guardarla. Ogni stagione c’è una battaglia per stabilire chi sarà la più bella di tutte. Dell’andamento di questa battaglia riferiscono anche i giornali, abbondantemente, anche se in maniera un po’ obliqua. Si parla di regimi di bellezza.
Gli uomini non li notano, questo tipo di discorsi: rappresentano un sussurro al di sotto della cultura. Un rumoreggiare al di sotto della scena mondiale, che dice qualcosa solo alle donne che lo sanno ascoltare, il che significa, in Occidente, tutte le donne. Questo sussurro continua ininterrotto fra le guerre lontane e le notizie di carestie. Viene considerato un fronzolo innocuo seminascosto nelle pagine di costume e società. Nel secolo scorso c’erano donne a cui sembrava importante far venire alla luce il collegamento sotterraneo fra i sussurri delle pagine di costume e i cupi titoli in bianco e nero che appaiono sulle pagine precedenti del giornale, di solito sotto forma di statistiche: quante donne si infliggono tagli dove nessuno li può vedere; quante tubature nelle scuole si disintegrano sotto il peso del vomito femminile che sono costrette a trasportare; quante ragazze preadolescenti mettono da parte i loro soldini, fin da adesso, in previsione del massiccio e superfluo intervento di chirurgia plastica con cui progettano di salutare l’età adulta. In questo secolo, certi collegamenti sono considerati noiosi, e vengono fatti solo dalla gente noiosa. Lasciar intendere che è in corso una guerra fra uomini e donne, o una guerra fra le donne e loro stesse, significa ostentare un vergognoso attaccamento ideologico ai sogni del secolo scorso. Esistono questioni più urgenti di cui preoccuparsi: in Oriente, milioni di donne vanno in giro velate da capo a piedi.
Viceversa, è unanimemente riconosciuto che qui, in Occidente, la guerra è finita. Il regime, allo stato attuale dei fatti, viene definito benevolo, democratico e piacevole. I massicci e superflui interventi di chirurgia plastica vengono ribattezzati accrescimento. In inglese, augmentation: «il processo dell’ingrandire» – ma è la seconda definizione, meno nota, data dall’Oxford English Dictionary quella che le donne percepiscono meglio: «l’atto o il processo del crescere in stima o dignità; esaltazione, nobilitazione». Questo ci dicono le donne, e, di fronte a questa esaltazione, le femministe – molte delle quali oggi rifiutano di farsi definire tali – si sentono obbligate a credergli, perché cos’altro è una femminista se non una donna che ascolta quello che le dicono le altre donne?
Comunque sia, risulta difficile ascoltare i racconti di prima mano delle donne. Qualunque cosa facciano fra il momento in cui si alzano e quello in cui escono di casa, tendono a tenerlo segreto. È il cosiddetto «mistero della femminilità». Viene dato come il motivo per cui una donna non dovrebbe mai farsi la ceretta al labbro superiore di fronte all’uomo con cui convive. La gente chiama questi preparativi femminili rituali. Ma i veri rituali umani sono collettivi: sta esattamente in questo il loro significato e il loro valore. I rituali femminili, viceversa, sono clandestini e silenziosi. Ah, certo, i mezzi di informazione creati dalle donne e per le donne fanno un gran parlare. Un gran parlare. Ma chiariamo una cosa: credere che i mezzi di informazione creati dalle donne e per le donne dicano veramente qualcosa sulla vita delle donne è come ascoltare i ditirambi nella speranza di comprendere la vita quotidiana dell’antica Grecia. La narrativa femminile – tanto spesso compianta, ricordata con nostalgia, rimpianta e fatta oggetto di teorie – in verità è qui, in questo monumentale, appassionato, folle, turbolento palazzo di narrazioni tendenti al dilemma insolubile che ci siamo costruite da sole. Il palazzo si chiama industria della bellezza – ma questo significa dargli un nome e separarlo dal tessuto dell’esistenza quotidiana delle donne, il che è sbagliato. Perché esso coincide con la vita. È ormai diventato un’opera narrativa abbastanza grande da poterci vivere dentro.
Viene spesso fatto notare, in particolare dagli uomini, che sono le donne stesse a dirigere le riviste e i saloni di bellezza, che sono le donne stesse ad aprire volontariamente il proprio corpo alle sacche di silicone, a togliersi le sopracciglia per poi ridisegnarsele con la matita, a radersi i peli del pube e a schiarirsi quelli dell’ano, ad aspettare per due ore e mezza che gli si asciughino le unghie finte di plastica che si sono appiccicate sopra quelle vere, a mettersi nei capelli agenti cancerogeni a base di ammoniaca per rinforzarli, a compiere la misteriosa, lunghissima operazione di pulitura, tonificazione e idratazione che la pelle maschile, pur essendo altrettanto umana, non sembra richiedere. Quando gli uomini fanno notare tutto questo, gli pare di aver tirato fuori un’argomentazione a cui è impossibile ribattere. E le donne, a loro volta, trovano difficile spiegare tutte le complessità del caso, le contraddizioni e la follia e il disprezzo di sé che io ritrovo in me stessa come in tutte le altre. È facile pensare che per dare una risposta esauriente ci vorrebbe una vita intera. Ma in realtà ci sono modi molto più concisi per descrivere la situazione: le donne vivono nel mondo di quella scimmia – descritta da Nabokov – a cui uno scienziato dà carta e penna solo perché possa disegnare le sbarre della sua stessa gabbia.
Continua...
(Traduzione di Martina Testa)
© Zadie Smith, 2006
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