Autore Topic: Sono infelice e la colpa è tua  (Letto 10625 volte)

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Offline yamamax

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Re: Sono infelice e la colpa è tua
« Risposta #15 il: Maggio 14, 2012, 10:39:11 am »
Anch'io sono stato a volte infelice per cause non solo mie ... ma fregato un ca.zo a nessunA.
Ergo...basta imparare la lezione e agire di conseguenza.

Offline skorpion72

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Re: Sono infelice e la colpa è tua
« Risposta #16 il: Maggio 14, 2012, 11:00:58 am »
E infatti mi riferivo in generale, avoja a dirti che mangiare minestrone ti fa bene, se non ti piace nemmeno un po' - in quello che può essere in potere decisionale femminile in qualche modo lo si impone- non ti rende felice, ergo vale per entrambi i sessi.

D'accordo sul fatto che certe cose possono capitare ad entrambi i sessi, ma vorrei chiederti un paio di cose: sono più gli uomini o le donne a tenere spesso il muso, e a cercare ogni pretesto per lanciare frecciatine, stoccate, risposte di traverso per metterti a tacere, perché è infelice e vuole prendersi rivincite? Se una donna si lamenta che è infelice di lui risulta anche a te che molto più facilmente ottiene solidarietà, mentre se a farlo è lui è più facile che le risposte che riceve stanno a dargli la colpa perché ognuno è artefice del suo destino, e gli viene più spesso chiesto cosa ha fatto lui per migliorare la situazione? Risulta anche a te, o è solo una mia impressione?
I discorsi delle femministe fanno sempre molto "rumore"...il problema è che puzzano anche da morire

Offline Cassiodoro

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Re: Sono infelice e la colpa è tua
« Risposta #17 il: Maggio 14, 2012, 11:15:44 am »
Non mi ricordo da dove l'ho trovato.... l'avevo salvato come "Psicologia delle Donne - Luigi Anepeta".... è un po lungo ma può essere interessante.

Il non avere bisogno di niente e di nessuno è la soluzione immaginaria cui mirano le anoressiche per sfuggire ai condizionamenti socio-culturali che gravano sulla condizione femminile  . (1)
Apparentemente, il contrario accade a molte donne la cui esperienza è ossessivamente incentrata sulla ricerca e sul mantenimento di una relazione con l'uomo, all'interno della quale depositare il loro "disperato" bisogno di amore e di conferme, e che, ciononostante, vivono sempre sul filo del rasoio: del panico, della solitudine cosmica e dello svuotamento di senso dell'esistenza se la relazione non c'è o viene meno, dell'insoddisfazione, della precarietà e dell'angoscia di abbandono se c'è.
Il problema del rapporto con l'altro sesso è un'altra epidemia psicologica, tipica del nostro mondo, che induce sempre più spesso le donne a rivolgersi alla psicoterapia per capire cosa non funziona in loro e/o  nei partners. Con gran soddisfazione - verrebbe da dire - degli psicoterapeuti che, facendosi carico del problema, colgono due piccioni con una fava. Si guadagnano il pane, data la domanda crescente di aiuto, e si mettono al riparo dall'affrontare situazioni psicologicamente più spinose. En passant, si dà pure la possibilità che la dipendenza si trasferisca nel rapporto terapeutico e che la cura si trasformi in un vitalizio. L'intento speculativo da parte degli analisti c'è, altro se c'è, ma spesso viene alibizzato in nome della complessità del problema.
Le difficoltà relazionali vengono, infatti, ritenute l'indizio di un disturbo profondo dell'identità personale, di una ferita primaria nel rapporto con la madre o col padre, di una fissazione edipica, di un infantilismo di fondo, di una competitività inconscia con l'uomo o, addirittura, di un'aggressività latente: di problemi cioè che, per essere rimediati (parzialmente), richiedono tempo, comprensione, pazienza e il biberon della disponibilità terapeutica che, di solito, eroga conferme in misura direttamente proporzionale all'onorario. Le interessate, compiaciute dell'attenzione di cui si sentono investite, offrono prove continue della gravità del loro disagio.
Hanno tutte un contenzioso aperto con i genitori: col padre freddo e distaccato o, viceversa, possessivo e geloso, con la madre rifiutante, che, casomai, ha sempre privilegiato il figlio maschio, o, viceversa, iperprotettiva e invadente. Hanno tutte un rapporto ambivalente col partner, che oscilla sempre tra l'amore e l'odio, con una confusione tale che stargli accanto fa soffrire ma separarsene è ancora peggio.  Hanno tutte una concezione negativa dell'uomo (tranne quello "giusto", che dovrebbe cadere da un altro pianeta) e ancor più delle donne (che ritengono civette, infide, egocentriche, se non addirittura "vipere").
Su questo sfondo comune, si definiscono esperienze di disagio le più diverse.
Alcune donne, pure aspirando ad avere una relazione, non riescono a trovarla e rimangono angosciosamente sole. Dato il numero di interazioni tra persone di sesso diverso che caratterizza il nostro mondo, la cosa è sorprendente. Anche loro se ne rendono conto, e di fatto, andando in giro, si chiedono esasperate quale misterioso potere abbiano dei "cessi" per risultare felicemente accoppiate con uomini di bell'aspetto. Naturalmente, la solitudine non è casuale.
 A volte dipende dal fatto che i soggetti, senza rendersene conto, lanciano dei messaggi metacomunicativi (2)  che scoraggiano anche i partners più intraprendenti: Quali messaggi? Il più frequente, e del tutto misconosciuto, è l'inaccessibilità, vale a dire il mostrare di non avere alcun bisogno di relazione.

A. s'innamora di un collega di lavoro, che sembra manifestare qualche attenzione nei suoi confronti. Dopo un anno, però, non sono riusciti a scambiare che poche parole, né mai sono usciti a prendere un caffè insieme (che, di solito, in quell'ambiente, rappresenta l'avvio di una frequentazione). L'uomo è formalmente gentile nei suoi confronti, ma sta sulle sue. A. dice: o è un inibito (ma non sembra), o è omosessuale (id.) o semplicemente è un idiota. Lei, infatti, ha cercato di farglielo capire in tutti i modi che si aspetta che prenda l'iniziativa. In tutti i modi? Certo, per esempio guardandolo intensamente di sottecchi mentre lui guarda da un'altra parte. Una volta, pare, gli sguardi si sono incrociati. Per una settimana, però, per rimediare al cedimento, A. ha mantenuto un atteggiamento freddo e distaccato, astenendosi anche dal rituale buongiorno.
Un altro messaggio efficacissimo nel demotivare un eventuale partner è la tagliola della serietà, vale a dire il fare intendere che se uno fa un primo passo deve avere intenzioni serie e, comunque, già con quel passo si compromette.
S. è particolarmente avvenente, ma, giunta a 28 anni, non è riuscita a mettere su uno straccio di rapporto. D'accordo, gli uomini non sono affidabili. Forse però, tra i tanti che hanno fatto delle avances, qualcuno benintenzionato probabilmente c'era. Di fronte  a qualunque avance, S. ha fatto sempre lo stesso discorsetto: io non ho bisogno di avventure, non mi interessano le storie fini a se stesse, sono una donna ultratradizionale, voglio mettere su famiglia. Sono scappati tutti, meno uno, un bel ragazzo cattolico che ha detto che la pensava allo stesso modo. S. però non ci ha creduto, perché gli uomini sono fatti tutti allo stesso modo.
Altre donne, che protestano un desiderio infinito d’amare e d’essere amate, di maternità e di famiglia, rimangono sole perché il loro interesse non si accende mai quando incontrano (e ce ne sono) qualcuno disposto a farsi incastrare, mentre si rivolge costantemente e intensamente verso le anguille. Che cosa ci può essere - pensano, senza rendersene sempre conto - di più esaltante che conquistare un  uomo che non vuole sapere di perdere la sua libertà? Certo la conquista è un po' difficile, e quasi sempre non si realizza. Ma il peggio è che, se per caso l'anguilla, dopo essere sgusciata da tutte le parti per mesi o per anni, dà qualche cenno di cedimento, l'esaltazione del trionfo cede rapidamente il campo ad una completa perdita di interesse.
T., trentenne, è perdutamente innamorata di un uomo che ha chiarito esplicitamente di non nutrire alcun interesse nei suoi confronti. Gli sta dietro tre anni, pensando a lui giorno e notte, inviandogli lettere e messaggi cellulari, regali per il compleanno. E' convinta che, se lui cedesse, toccherebbe il cielo con le dita. Dopo tre anni, il miracolo si realizza con la complicità dell'estate. L'uomo la invita a cena. T. esulta e si prepara all'incontro col cuore in tumulto. Poi, seduta di fronte a lui al ristorante, scopre che il tizio le è del tutto indifferente.
Strano amore - verrebbe da dire - questo che si rivolge sempre e solo a che non ne vuole sapere della relazione. Strano ma non incomprensibile. L'oggetto dell'amore è infatti colui che, non avendo bisogno della relazione, appare forte, autonomo e autosufficiente. Per continuare a suscitare l'interesse, tale deve rimanere.
Altre donne, invece, vivono letteralmente aggrappate al partner. Uomini disposti a farsi carico della dipendenza femminile per mascherare la propria, ne esistono a bizzeffe. Ma l'aggrappamento, anche quando è condiviso,  non porta mai alla serenità. Perpetuamente bisognose di conferme, le donne dipendenti ne chiedono in continuazione. Il problema è che non ne ricevono mai abbastanza, non ricevono mai quelle di cui hanno veramente bisogno, e comunque non ci credono.
Diffidenti, esse leggono sempre nei comportamenti del partner (nello sguardo, nel sopracciglio, nella piega della bocca) la terribile minaccia dell'abbandono. Dedicano gran parte del tempo libero a ruminare ansiosamente sullo stato del rapporto, a capire come è fatto l'altro, che cosa sente veramente per loro. La ruminazione consente sempre di recuperare, nell'archivio dei ricordi, qualche comportamento ambiguo.
L'insicurezza le rende ora inclini ad elemosinare l'amore ora a mettere alla prova il partner, in nome della logica per cui se si fa maltrattare e non si sottrae al rapporto, questo conferma che è veramente innamorato. Il problema è che il mettere alla prova è una strategia che, per essere rassicurante, costringe ad alzare sempre il tiro. Per questa via, ovviamente, anche un santo arriva all'esasperazione.Un uomo sposa una donna sei mesi dopo averla conosciuta di cui è profondamente innamorato.
Avvenente, sensibile e colta, la donna, però, è di una diffidenza patologica. Quotidianamente lo tormenta con i suoi dubbi, e, di fronte alla fermezza con cui lui ribadisce di amarla, si esaspera, lo congiura di dire la verità, di non prenderla in giro. La cosa va avanti per 15 anni, le crisi "isteriche"
sono sempre più violente. Come fai - dice lei - a stare con una come me? Alla fine, per completare l'opera, lo tradisce e glielo comunica. E' il colpo di grazia. Pure attaccatissimo alla famiglia e alle figlie, l'uomo sente che non si può più andare avanti. Dunque, non la ama? No, non l'ama più. La reazione della donna è sorprendente. Non batte ciglio, lo guarda fisso negli occhi con uno sguardo freddo, e gli dice: carogna, ti ci sono voluti quindici anni per tirare fuori la verità.
Drammi di questo genere riconoscono una sola possibile spiegazione. Se un soggetto femminile, a livello inconscio, ha un'immagine negativa di sé tale per cui ritiene di non essere amabile, e dunque di non potere essere amata, neppure il padreterno può riuscire a farle cambiare idea.
L'immagine interna negativa, frequentissima a livello femminile, per via della rabbia accumulata secolarmente alla quale si aggiunge quella accumulata per esperienza personale, determina, a livello relazionale, tre conseguenze disastrose: un bisogno divorante di conferme, che si traduce in una persecuzione nei confronti del partner; l'incapacità di credere nelle conferme che si ricevono e quindi di capitalizzarle, raggiungendo un minimo di tranquillità (perché le conferme vengono cancellate dall'immagine interna); e, da ultimo, come detto, la tendenza a mettere alla prova il partner. Paradossalmente, però, questi deve accettare di essere messo alla prova fino ad un certo punto, perché se si lascia maltrattare troppo, rivela la sua debolezza. Che se ne fa una donna insicura e bisognosa di conferme di un uomo debole?  
La prova di questo la si ricava dalla storia precedente. Dopo tre mesi di separazione, nel corso dei quali l'ex-marito si è comportato con estrema dignità, la donna gli chiede un incontro. Riconosce di avere sbagliato tutto, gli dice di avere scoperto di non potere fare a meno di lui, e di essere ormai convinta del suo amore. Che non c'è più.
L'immagine interna negativa spiega anche la tendenza di parecchie donne a immettersi in rapporti masochistici, vale a dire a capare dal mazzo o uomini claustrofobi che hanno sempre un piede sulla via di fuga (senza peraltro mai fuggire) o uomini che, per mascherare la loro dipendenza, le maltrattano. E il peggio è che non si rendono quasi mai conto che si tratta di claustrofobi o di esseri che hanno la fobia della dipendenza, a cui offrono la possibilità di sentirsi padreterni.
C. sta da quattro anni con uno strano tizio che, tranne che farci l'amore, la ignora. E' capace di buttarla fuori di casa subito dopo il rapporto, di farle trovare il letto sfatto come se fosse stato con un'altra donna, di scomparire per settimane e settimane. C. ne fa un dramma. Lo aspetta sottocasa, si getta ai suoi piedi, lo scongiura. Ottiene naturalmente di essere tratta come un cane. Nonostante tutti gli amici sappiano della loro relazione, quando escono in gruppo l'uomo mantiene nei confronti di C. un atteggiamento freddo e distaccato. La ignora, scherza con le altre donne, racconta le sue avventure. E' un pallone gonfiato, arrabbiato con le donne perché non riesce a sottrarsi elle grinfie della madre. Per C. invece è dio in terra e tale rimane per quattro anni. Sopravviene poi la stanchezza, la depressione, l'orgoglio. C. per qualche tempo non si fa sentire e, naturalmente, viene tempestata di telefonate. Per non prendere atto di come stanno le cose, si cala di nuovo di corsa nel ruolo dell'amante elemosinante e disperata.
Donne che intrattengono rapporti masochistici ce ne sono tante, ma i loro comportamenti sembrano fatti con lo stampino.
Passano gran parte del tempo a ruminare ossessivamente sulla relazione. Il tempo libero dall'ossessione solitaria viene dedicato al telefono. Parte delle telefonate servono a mantenere il contatto col partner, a controllare che non sia sparito nel nulla, a prolungare indefinitamente la comunicazione perché mettere giù la cornetta è impossibile e se l’altro accenna a farlo è un dramma. Altre comunicazioni interminabili si realizzano con le amiche, parecchie delle quali hanno lo stesso problema. La comunità delle donne, che è stata sempre viva nel corso della storia, è oggi una realtà via cavo, incentrata sul chiacchericcio sentimentale. Tra amiche ci si dice tutto. Si riferisce per filo e per segno un incontro, un dialogo, un litigio e si chiede all'amica: che ne pensi?
Naturalmente, nessuna donna sa come risolvere il proprio problema, ma sa come risolvere il problema di un'altra. Fioccano pertanto consigli tipo: "è un mascalzone, lascialo perdere", "fatti desiderare", "è troppo sicuro di te, fingi di tradirlo", "staccalo dalle gonnelle della mamma", ecc.
Nonostante le strategie, le ruminazioni, le consultazioni con le amiche, il sostegno terapeutico, quando si affaccia all'orizzonte la possibilità della perdita del rapporto, l'effetto è catastrofico. Si apre la voragine del vuoto cosmico, della solitudine infinita e irrimediabile, del venire meno del senso della vita, della perdita della propria identità. "Lui" insomma è fonte di vita e di morte. Il potere maschile, per cui gli uomini giungono a sentirsi padreterni anche quando non valgono un fico secco, è prodotto dalla dipendenza femminile.
Nel modo in cui le donne riferiscono i loro vissuti d'abbandono riecheggiano gli accenti strazianti delle mistiche medievali nei momento in cui, diminuendo la produzione d'endorfina dovuta all'estasi, avvertivano la perdita di contatto con Dio.
La dipendenza femminile dal partner, di fatto, è una sorta di religione privata (o - è lo stesso - di oppio) che ingombra tutto l'orizzonte dell'esperienza soggettiva. Al culto dell'uomo, alcune donne sacrificano l'intelligenza, gli interessi, il lavoro. Nulla è più patetico e drammatico, nell'ambito dello SMT, di una donna (ce ne sono parecchie) tra i 35 e i 40 anni che, dopo avere sprecato il suo tempo e il suo denaro in un'interminabile analisi, sta ancora lì a tentare di costruire l'ennesimo rapporto di coppia con le ombre del decadimento fisico che incombono e il bisogno di maternità irrealizzato. Qual è il senso di questo dramma, vissuto con assoluta buona fede ma che, visto dell’esterno, ha qualcosa di inesorabilmente ridicolo?
Anzitutto, la dipendenza femminile è una schiavitù che viene regolarmente scambiata per amore. Molte donne ricavano dall'intensità della sofferenza la misura del loro sentimento, che è sempre all'apice della scala Mercalli. Non è normale - si chiedono - che l'amare comporti una paura terrificante di perdere il rapporto con l'amato? La paura sì, il terrore no.
Tutti i rapporti umani sono intrinsecamente precari. Indipendentemente dalla volontà dell'altro di rimanere nel rapporto, un incidente stradale o un tumore può mandare a farsi fottere qualunque passione. Entrare e stare in relazione richiede di accettare questo dato. Che cosa lo rende invivibile e intollerabile?
Primo, il fatto che, a livello inconscio, una possibilità – la perdita del rapporto - si trasforma in un'oscura necessità, in un pericolo destinato fatalmente a realizzarsi. Secondo, che un eventuale rifiuto viene vissuto come se esso definisse inappellabilmente l'essere rifiutabile, non amabile e senza valore, sancendo la fine di ogni speranza di relazione. Terzo, che il partner in questione di fatto è sempre poco o punto affidabile, vale a dire poco incline ad accettare il legame.
Il primo punto è già noto. L'ansia che trasforma una possibilità in fatalità va ricondotta all'aspettativa inconscia del male, che è inequivocabilmente un'angoscia punitiva. L'abbandono temuto è fatale in quanto esso, inconsciamente, è vissuto come meritato. In nome di che? In nome del fatto che la donna sente la sua dipendenza come insopportabile. Di fatto, la vive ma inconsciamente la rifiuta e vorrebbe liberarsene. Per ciò essa tende a rifuggire da uomini disposti a farsene carico e la rivolge costantemente verso uomini che la frustrano. In questo non è in gioco il masochismo, anche se la conseguenza è un dolore pressoché perpetuo, bensì la necessità di soffrire fino al punto di potere dire: basta, non ne voglio più sapere degli affetti! Il problema è che il basta non si realizza mai.
Se, infatti, liberarsi dalla dipendenza significa arrivare all’autosufficienza, a sentire di non avere più bisogno di niente e di nessuno, il bisogno di relazione rivendica i suoi diritti sotto forma di aggrappamento.
Dietro la dipendenza, né più né meno che nell'anoressia, c'è dunque il fantasma dell'autosufficienza, intesa come condizione ottimale di forza e di autonomia. Che senso ha questo qui pro quo senza scampo? Prima ancora che psicologico, il significato è storico.
Gli antropologi dibattono ancora sul fatto se le primitive società umane abbiano avuto un assetto matriarcale o patriarcale. Non sapremo mai nulla di certo. A lume di naso, viene però naturale pensare che, finché gli uomini vivevano di caccia e di raccolta, le donne godessero di un qualche primato. Il loro ventre perpetuava prodigiosamente l’esistenza di comunità di poche decine di persone, e la loro attività produttiva, la raccolta, provvedeva per il 75% ai fabbisogni alimentari del gruppo. Esse inoltre rappresentavano il tramite attraverso cui le comunità s’imparentavano e si rafforzavano. E’ difficile pensare che, all’epoca, potessero essere considerate inferiori agli uomini.
Con l’avvento dell’agricoltura, è presumibilmente avvenuta una drammatica riorganizzazione sociale. E non tanto perché il ruolo produttivo della donna è diventato complementare a quello dell’uomo, dotato di maggiore forza fisica. Col surplus, si sono avviate le razzie e le guerre, e la storia si è attestata sul registro della legge del più forte. In conseguenza di questo, le donne, che hanno avuto sempre poca predisposizione per le armi, si sono repentinamente ritrovate nel ruolo di esseri deboli e vulnerabili, bisognose di protezione maschile. Nel corso dei secoli, questa percezione di debolezza e di vulnerabilità, originariamente dovuta a fattori oggettivi, è stata interiorizzata. Alle circostanze oggettive, che in una qualche misura persistono (ancora oggi, nella nostra società, una donna che si avventura per la città alle tre di notte senza avere accanto un compagno è esposta al rischio di subire una violenza), si è dunque associato un vissuto in conseguenza del quale, in assenza di un punto di riferimento maschile, la donna si sente insussistente e sospesa nel vuoto.  
Condizionate dunque storicamente a concepire il proprio essere in funzione della relazione con l'uomo, parecchie donne pagano a questa remota tradizione culturale il tributo di un bisogno permanente e angoscioso. Quelle che lo accettano, non hanno difficoltà a realizzarlo perché trovano con facilità un uomo che se ne fa carico e richiede, in cambio della protezione, di essere accudito e servito.
Alcune donne, però, questo bisogno quanto più lo sentono intensamente tanto più lo odiano perché leggono in esso l’espressione di un’intollerabile debolezza. Infatti, non appena lo depositano in un rapporto fanno di tutto – richiedendo continue conferme, diffidando, aggrappandosi – per avere dal partner la prova che è intollerabile. Come se non bastasse, l’altro con cui si rapportano, per risultare attraente, deve essere immune da una qualunque debolezza, vale a dire dotato – ai loro occhi – della capacità di potere fare a meno del rapporto. Ma se il partner è forte e autosufficiente perché mai deve accettare di stare in relazione? Un giorno o l'altro è inevitabile, dunque, che si sottrarrà ad essa.
Che c'entra l'amore con tutto questo? Ben poco. Il problema è che oggi si confonde l'amore con una prova di forza, il cui obiettivo è di giungere a definire chi dei due è il più debole. E, alla luce del guai ai deboli, è implicito che colui che si ritrova in una situazione di dipendenza debba essere destinato al sacrificio, mattato insomma.
Tanto è vero questo che se le donne affette da un bisogno esasperato di conferma s'imbattono in uno che le ama, è premuroso e esprime manifestamente il suo attaccamento, o non provano alcun interesse o, dopo averlo sfruttato un po', lo abbandonano per mettersi all'inseguimento dell'uomo forte che le respinge e le maltratta. L'unica alternativa, che permette di portare avanti la relazione, è non credere nelle conferme, pensare che l'altro dice di volere bene ma, in fondo in fondo, non è vero.
L'angoscia dell'abbandono, insomma, implica una perversione dell'affettività, una subordinazione della logica degli affetti ad una logica di potere, alla logica del più forte che, se è veramente tale, non ha bisogno di relazione. Interpretare questa logica alla luce delle vicissitudini infantili, del rapporto col papà e con la mamma, è ridicolo. Può darsi benissimo che un bambino, la cui dipendenza lo vincola inesorabilmente ad un contesto familiare inadeguato, manipolativo o conflittuale, giunga a vedere in essa una dimensione da cui liberarsi per sempre e nella quale non intende ricadere. Come pure che egli confonda la dipendenza naturale, dovuta all'incapacità di cavarsela da solo, all'insufficienza della personalità, con l'affettività e giunga ad odiare anche questa. Circostanze del genere possono però produrre una tendenza all'isolamento, la caduta ricorrente in rapporti di dipendenza, un orientamento inconsapevole verso l'autosufficienza, ecc, ma non l'odio nei confronti della debolezza e tanto meno nei confronti dei deboli.
La logica del più forte non appartiene al privato, ma al pubblico, vale a dire alla storia. Antica quanto il cucco, essa persiste anche nella nostra società. Cos’altro significa il principio della concorrenza, che governa il libero mercato, se non che il più debole merita di essere eliminato?
Chiedersi come e perché questa logica sia giunta ad investire l'affettività, pervertendola, è un problema che qualcuno dovrà risolvere. Un filosofo (3)  ci ha provato, ma in un libro troppo prematuro per potere essere capito.
Il problema della dipendenza femminile è una delle espressioni della perversione degli affetti che vige nel nostro mondo, dovuta al fatto che anche l’affettività è stata riciclata nella logica del più forte, che, in sé e per sé, non ha nulla a che vedere con la logica degli affetti. Questa, infatti, muove dal presupposto che l'uomo, qualunque uomo è un essere bisognoso, finito e precario, che ha bisogno di solidarizzare, vale a dire di condividere la sua esperienza con qualcun altro.
Il termine solidarietà, depurato da pietismi e patetismi cristiani, è un gran bel termine. Il solido a cui fa riferimento non è ovviamente in opposizione a liquido, bensì a fragile, debole, vulnerabile. E come viene fuori il solido dall'affettività bisognosa? Semplice. Posto che due esseri umani accettino la loro umana debolezza, precarietà e finitezza, mettendola in comune possono giungere a sentirsi entrambi più forti. E non solo perché possono aiutarsi nei momenti di difficoltà. Se avviene all’insegna del volersi bene, quella messa in comune realizza un altro effetto straordinario. Le persone possono giungersi ad esporsi l’una all’altra senza difese e a sentire che nessuno dei due ne approfitterà. Venendo meno il riferimento al vulnus, la vulnerabilità scompare, e dal cilindro dell’umana debolezza vengono fuori due conigli che, ad onta delle dicerie, non tremano più come foglie.
E gli uomini - chiederà qualcuno -, gli uomini problemi relazionali non ne hanno? Altro se ne hanno, particolarmente in Italia, laddove le madri, stravedendo per i figli maschi, eseguono di solito su di loro, inconsciamente, una sorta di vendetta rituale. Privilegiandoli e accudendoli, in realtà li castrano, rendendoli per sempre dipendenti da una figura femminile. E il peggio è che gli uomini scambiano per privilegio l'handicap che da ciò discende: l'ignoranza del linguaggio della vita quotidiana (far la spesa, cucinare, lavare, stirare, accudire la casa, ecc.), che è una forma di analfabetismo (4) . Per fortuna, però, ci sono ancora infinite donne pronte a risolvere i loro problemi e a rimetterli sull'altare.

(1)  Devo richiamare un tema portante di Abracadabra. Quando si parla di condizionamenti socio-
 culturali, cercare di ricavarli da ciò che una società pensa di sé o dalla superficie del modo di vivere quotidiano è piuttosto sterile. I condizionamenti più incisivi scorrono a livello di inconscio sociale, e si ritrovano, se ci s'impegna a trovarli, nelle pieghe dell'inconscio individuale. E' il nesso tra inconscio sociale e inconscio individuale la chiave dello SMT.
Ignorando questo, ciò che rimane è sofferenza  e stupidità.
(2)  La metacomunicazione riguarda l'insieme dei messaggi non verbali che vengono comunemente scambiati nei rapporti interpersonali. Tradizionalmente, tali messaggi vengono identificati con la mimica, lo sguardo, il tono della voce, i gesti, l'atteggiamento corporeo, ecc. Al di là di questi aspetti comportamentali, che spesso sfuggono al controllo della coscienza o hanno un significato diverso da quello che il soggetto attribuisce ad essi, occorre considerare che, nelle relazioni interpersonali, si danno anche comunicazioni da inconscio a inconscio.
(3)  Foucault, Microfisica del potere, Einaudi, Torino
(4)  En passant, sarebbe importante, per sormontare il conflitto storico tra uomo e donna, decidere, senza dilungarsi in troppi discorsi, di realizzare una piccola ma rivoluzionaria riforma pedagogica. Acquisito il fatto che, quale che sia la loro diversità, uomo e donna vivono nel quotidiano, sarebbe importante "obbligare" le famiglie e le scuole a trasmettere e a fare acquisire le competenze minimali che servono appunto a cavarsela nel quotidiano, senza nessuna distinzione di sesso. Le attitudini maggiori che vengono attribuite a questo riguardo alle donne, come ovviamente le scarse propensioni maschili sono di fatto un condizionamento culturale. Sormontandolo, si ridurrebbe nettamente il numero delle depressioni delle casalinghe e i vedovi camperebbero di più.
"Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante" - "Ah sì? E cosa ha capito?" - "Che vola solo chi osa farlo"

Offline Giulia

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Re: Sono infelice e la colpa è tua
« Risposta #18 il: Maggio 15, 2012, 01:57:14 am »
   

D'accordo sul fatto che certe cose possono capitare ad entrambi i sessi, ma vorrei chiederti un paio di cose: sono più gli uomini o le donne a tenere spesso il muso, e a cercare ogni pretesto per lanciare frecciatine, stoccate, risposte di traverso per metterti a tacere, perché è infelice e vuole prendersi rivincite? 
Dipende dal carattere, se nella vita sei come la protagonista del telefilm  "Awkward", tendi ad abbozzare quasi sempre, ma un po' con tutti, solo che ci si pone il problema delle diversità solo quando vi è una diversità da considerare e quella è marcatissima nei rapporti uomo-donna. 
personalmente tendo a impormi un po' di più quando di un uomo non me ne fotte nulla, ma in quel caso il tipo di rapporto è praticamente pari a zero, altrimenti ho un carattere molto accondiscende e l'ho dovuto capire a mie spese che questo mi portava a non essere felice insieme ad un uomo.
Certo lo si dice appena lo si comprende, ma da lì a quel momento non si può più tornare in dietro.
 
Citazione
Se una donna si lamenta che è infelice di lui risulta anche a te che molto più facilmente ottiene solidarietà, mentre se a farlo è lui è più facile che le risposte che riceve stanno a dargli la colpa perché ognuno è artefice del suo destino, e gli viene più spesso chiesto cosa ha fatto lui per migliorare la situazione? Risulta anche a te, o è solo una mia impressione?
No, a me non risulta questo. Non mi risulta che un disagio un malessere sia raccontato il più delle volte, certo può esserci anche una reazione sbagliata, ma il più delle volte per lo meno nella mia esperienza è il rumore di un albero che cade in mezzo ad una foresta.
 

Offline skorpion72

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Re: Sono infelice e la colpa è tua
« Risposta #19 il: Maggio 15, 2012, 09:03:36 am »
No, a me non risulta questo. Non mi risulta che un disagio un malessere sia raccontato il più delle volte

Basta vedere, per esempio, le bacheche su Facebook, basta che una dice che il suo uomo l'ha fatta soffrire ed è tutta una sfilza di "Oh poverina, ti capisco, gli uomini sono tutti st...zi", mentre è molto più raro che lo faccia un uomo, e comunque le reazioni nei suoi confronti sono molto meno empatiche e comprensive, in altri termini se c'è da dare una stoccatina è moooolto più facile che la prenda lui
I discorsi delle femministe fanno sempre molto "rumore"...il problema è che puzzano anche da morire

Offline Onestà intellettuale

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Re: Sono infelice e la colpa è tua
« Risposta #20 il: Maggio 15, 2012, 09:15:32 am »
Basta vedere, per esempio, le bacheche su Facebook, basta che una dice che il suo uomo l'ha fatta soffrire ed è tutta una sfilza di "Oh poverina, ti capisco, gli uomini sono tutti st...zi", mentre è molto più raro che lo faccia un uomo, e comunque le reazioni nei suoi confronti sono molto meno empatiche e comprensive, in altri termini se c'è da dare una stoccatina è moooolto più facile che la prenda lui

Questo perché, per un pregiudizio sessista, la nostra società concede, soprattutto in pubblico, un bonus di credito di genere alla donna che accusa il proprio uomo di alcuni difetti standard (insensibilità, immaturità, inadeguatezza, egoismo).

Ovviamente non vale il contrario.

Offline cancellatow

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Re: Sono infelice e la colpa è tua
« Risposta #21 il: Maggio 15, 2012, 09:18:18 am »
Basta vedere, per esempio, le bacheche su Facebook, basta che una dice che il suo uomo l'ha fatta soffrire ed è tutta una sfilza di "Oh poverina, ti capisco, gli uomini sono tutti st...zi", mentre è molto più raro che lo faccia un uomo, e comunque le reazioni nei suoi confronti sono molto meno empatiche e comprensive, in altri termini se c'è da dare una stoccatina è moooolto più facile che la prenda lui


Grazie al cax che è così, è normale che le donne dicano che son tutti str.... ci hanno a che fare, è risentimento.
Che non lo facciano gli uomini non è normale o meglio lo è quando non sei + uomo ma schiavo

Offline skorpion72

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Re: Sono infelice e la colpa è tua
« Risposta #22 il: Maggio 15, 2012, 09:25:06 am »
Grazie al cax che è così, è normale che le donne dicano che son tutti str.... ci hanno a che fare, è risentimento.
Che non lo facciano gli uomini non è normale o meglio lo è quando non sei + uomo ma schiavo

Se lo facessero gli uomini l'impianto delle risposte sarebbe il seguente:

"Se tu pensi che le donne sono tutte così non ti lamentare se stai da solo o se ti lasciano"
"E tu che hai fatto per non farla scappare?"
"Se ti lamenti così non hai le p...e"

etc. etc. etc.
I discorsi delle femministe fanno sempre molto "rumore"...il problema è che puzzano anche da morire

Offline cancellatow

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Re: Sono infelice e la colpa è tua
« Risposta #23 il: Maggio 15, 2012, 09:30:25 am »
Se lo facessero gli uomini l'impianto delle risposte sarebbe il seguente:

"Se tu pensi che le donne sono tutte così non ti lamentare se stai da solo o se ti lasciano"
"E tu che hai fatto per non farla scappare?"
"Se ti lamenti così non hai le p...e"

etc. etc. etc.


Il problema ti ho detto non è l'uomo che si lamenta ma l'uomo che non empatizza con gli altri uomini
Quello che hai scritto in questo post mi sta bene se lo dice una donna verso un uomo, come mi sta bene se lo dice un uomo verso una donna, non mi sta bene a sesso unico :lol:
Francamente non insulto una donna che lo dice a un uomo, ma un uomo che lo dice ad un altro uomo

Offline Onestà intellettuale

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Re: Sono infelice e la colpa è tua
« Risposta #24 il: Maggio 15, 2012, 09:39:44 am »
Questo perché, per un pregiudizio sessista, la nostra società concede, soprattutto in pubblico, un bonus di credito di genere alla donna che accusa il proprio uomo di alcuni difetti standard (insensibilità, immaturità, inadeguatezza, egoismo).

Ovviamente non vale il contrario.

Corollario è che questo bonus è tanto più consistente quanto meno circostanziata è l'accusa.

Offline Giulia

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Re: Sono infelice e la colpa è tua
« Risposta #25 il: Maggio 15, 2012, 11:53:17 am »

Basta vedere, per esempio, le bacheche su Facebook, basta che una dice che il suo uomo l'ha fatta soffrire ed è tutta una sfilza di "Oh poverina, ti capisco, gli uomini sono tutti st...zi", mentre è molto più raro che lo faccia un uomo, e comunque le reazioni nei suoi confronti sono molto meno empatiche e comprensive, in altri termini se c'è da dare una stoccatina è moooolto più facile che la prenda lui
Su FB ho esperienze diverse, si parla di politica, di attualità, non di robe private. Poi in genere al tipo di empatia che si riceve, beh direi che fa conto solo quella che ognuno riceve, no alla somma dei vari eventi che sono per lo più ipotizzati.
 

Offline Giulia

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Re: Sono infelice e la colpa è tua
« Risposta #26 il: Maggio 15, 2012, 12:01:21 pm »

Il problema ti ho detto non è l'uomo che si lamenta ma l'uomo che non empatizza con gli altri uomini

Anche questo è vero. Però se l'esperienza intima e privata non ha presa all'esterno, forse viene criticato perché è un atteggiamento considerato poco maschile.

Offline cancellatow

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Re: Sono infelice e la colpa è tua
« Risposta #27 il: Maggio 15, 2012, 12:55:40 pm »

Anche questo è vero. Però se l'esperienza intima e privata non ha presa all'esterno, forse viene criticato perché è un atteggiamento considerato poco maschile.


Ni. Dipende pure di che ti lamenti
Lamentarsi che le donne son tutte zoccole non è poco maschile :lol:

Offline Giulia

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Re: Sono infelice e la colpa è tua
« Risposta #28 il: Maggio 16, 2012, 01:40:55 am »
Ni. Dipende pure di che ti lamenti
Lamentarsi che le donne son tutte zoccole non è poco maschile :lol:
Se fosse vero e se fossero maschili, più che lamenti sarebbero gemiti e mugolii di piacere :w00t:

Offline cancellatow

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Re: Sono infelice e la colpa è tua
« Risposta #29 il: Maggio 16, 2012, 08:15:39 am »
Se fosse vero e se fossero maschili, più che lamenti sarebbero gemiti e mugolii di piacere :w00t:


 :lol:
Mi sa che il concetto di zoccola maschile è diverso da quello di zoccola femminile
Bisognerebbe fare a cambio, nessuno si lamenterebbe delle zoccole :lol: