A ridaje, stare lì a in cagliarsi sulle parole, significa questo, no significa quell'altro
Non c'ha senso, caxxxo, sono discussioni steeerili. (oltre che banali)
Toh, volete portare avanti una discussione interessante?
Leggetevi questo e commentatelo.
Il termine “figlicidio” indica l’uccisione del proprio figlio da parte della madre o del padre.
Il Codice penale italiano non riconosce al figlicidio un’entità giuridica autonoma, come fa per il reato di infanticidio nell’art. 578, ma lo identifica nel reato di omicidio.
In questo ambito verrà dato particolare rilievo all’uccisione del proprio figlio da parte della madre, che risulta essere più frequente rispetto al figlicidio compiuto dal padre.
http://psichiatria-forense.elsevier.it/cont/sfoglia-alcune-pagine/12/visualizza-capitolo-esemplificativo.asp?chp=35&sct=1650ASPETTI ANTROPOLOGICIL’uccisione del proprio figlio, che nella nostra cultura suscita una condanna sociale, morale e giuridica, può presentare per alcune culture non solo una condizione tollerata, non socialmente e giuridicamente condannata, ma anche una condizione incoraggiata dai valori culturali, molto differenti tra loro a seconda dei contesti, e da particolari legislazioni.
Già nell’antica Roma il pater familias aveva il diritto di vita e di morte sui propri figli e su questi esercitava lo ius vitae ac necis in totale acritica autonomia.
Le guerre, fin dall’antichità, ci hanno dato numerosi esempi di uccisioni di bambini, a volte attuate con modalità sistematica e finalizzata all’eliminazione preventiva di future ribellioni. Lo stesso Erode avrebbe ordinato la “strage degli innocenti” per eliminare un possibile futuro rivale.
In alcuni Paesi (per esempio Cina e India) l’uccisione dei figli è stata favorita da particolari legislazioni che hanno avuto come razionale il controllo della crescita demografica.
Nei secoli passati, negli ambienti rurali l’uccisione dei figli era socialmente tollerata allorquando il figlio costituiva “una bocca da sfamare non utile al lavoro nei campi”; lo stesso accade ancora oggi in specifici contesti socioculturali.
Gli esempi potrebbero continuare numerosi, con motivazioni differenti, e spaziare geograficamente in diverse tribù dell’America meridionale, dell’Africa, dell’Australia, a testimoniare che l’infanticidio e il figlicidio possono trovare in alcune culture dei giorni nostri, come nei tempi passati, un’accettazione sociale.
http://psichiatria-forense.elsevier.it/cont/sfoglia-alcune-pagine/12/visualizza-capitolo-esemplificativo.asp?chp=35&sct=1671COMPORTAMENTO VIOLENTO DELLA MADRE MALTRATTANTE
COMPORTAMENTO OMISSIVO DELLE MADRI NEGLIGENTI
COMPORTAMENTO VENDICATIVO
UCCISIONE DEL FIGLIO NON DESIDERATO
UCCISIONE DEL FIGLIO CAPRO ESPIATORIO
RIPETIZIONE DELLA VIOLENZA PLURIGENERAZIONALE
UCCISIONE DEL FIGLIO IN UN CONTESTO DEPRESSIVO
UCCISIONE ALTRUISTICA DEL FIGLIO
UCCISIONE COMPASSIONEVOLE DEL FIGLIO
UCCISIONE DEL FIGLIO ATTRAVERSO LE CURE DANNOSE
http://psichiatria-forense.elsevier.it/cont/sfoglia-alcune-pagine/12/visualizza-capitolo-esemplificativo.asp?chp=35&sct=1672UCCISIONE DEL FIGLIO CAPRO ESPIATORIOAlcune madri uccidono il proprio figlio perché lo considerano responsabile del loro fallimento esistenziale. Il figlio diviene responsabile del negativo cambiamento del proprio corpo (definito “sformato dalla gravidanza”), della carriera mancata, delle relazioni sociali trascurate, dei comportamenti edonistici sostituiti dai doveri di accudimento materno, della sessualità coartata per soddisfare i bisogni del bambino ecc. Ne deriva che nell’ambito di una distorta valutazione della propria esistenza, queste madri concretizzano sul figlio la pluralità di cause che hanno determinato un presunto fallimento, ovvero una drammatica insoddisfazione della propria vita. È da segnalare che spesso tale distorta valutazione della realtà è grossolanamente contaminata da elementi depressivi, che portano a generalizzare alcuni reali aspetti negativi della vita individuale, e/o da elementi a impronta paranoidea, che contribuiscono alla trasformazione del bambino in un vero e proprio elemento persecutorio.
Caso clinico
P.U., 22 anni, madre di un bambino di 5 mesi. Nella famiglia di origine P.U. ha vissuto in un clima di protezione e accudimento senza il minimo confronto con le responsabilità, anche piccole, della vita quotidiana. Divenuta madre, verbalizza molto presto le difficoltà nel ricoprire il ruolo materno. Tuttavia, oltre le fisiologiche difficoltà verbalizzava sempre più la convinzione che il bambino la faceva sentire «una fallita, non solo come madre, ma in tutta la vita […], e solo lui è responsabile di tutto questo». P.U. tenta di uccidere il bambino gettandolo in una pentola di acqua bollente. Solo l’intervento dei carabinieri, chiamati dalla stessa P.U., salva il piccolo, che riporta gravi ustioni.