http://www.ilsecoloxix.it/p/cultura/2012/05/25/APnEDXaC-queste_fragili_cosi.shtml#axzz1wA2e14LwQueste vite così fragili
Simone Regazzoni
Genova - Nel corso di un’intervista, Clint Eastwood ha dichiarato: «Adesso viviamo in mezzo a una generazione di femminucce, dove tutti quanti si sono abituati a dire: “Beh, come possiamo trattare la faccenda da un punto di vista psicologico?”. Ai vecchi tempi ti limitavi a restituire il pugno al bullo che te l’aveva dato e lo mettevi fuori combattimento».
Quella che, secondo gli standard del politicamente corretto, suona come un’affermazione pericolosamente diseducativa, e profondamente maschilista, in verità, nello stile dell’ex ispettore Callaghan, coglie un aspetto centrale della costellazione culturale in cui viviamo: il tentativo di neutralizzare qualsiasi conflitto, di evitare al soggetto la minima esperienza traumatica, di proteggerlo da qualsiasi rischio. Non a caso le ossessioni principali del nostro tempo sono la salute e la sicurezza, e il soggetto per eccellenza è la vittima che aspira a protezione e risarcimento: materiale o simbolico. Coerentemente con tutto ciò, l’unico atto politico concepibile, oggi, sembra quello del manifesto-appello in difesa di una qualche vittima.
Per comprendere fino a che punto queste idee abbiano inciso sulla vita della nostra società, è sufficiente vedere come la generazione cui appartengo, quella nata negli anni Settanta, che in parte si è ribattezzata “generazione Trenta-Quaranta” (TQ), ha articolato, pubblicamente, il discorso sulla propria posizione marginale nella società italiana: si è autorappresentata come vittima della generazione dei padri che avrebbero escluso dalla vita politica e produttiva del paese ben due generazioni di figli.
Quello che emerge è precisamente il quadro desolante di una, o meglio, più generazioni di “femminucce”, per usare le parole di Eastwood, che non hanno saputo lottare per guadagnarsi il proprio posto e, di conseguenza, il rispetto dei padri.
È in questo quadro culturale che si possono provare ad articolare alcune riflessioni intorno alla serie di drammatici suicidi che si sono susseguiti in questi mesi e che, in modi differenti, sono legati all’attuale situazione di crisi economica. Se è vero che, dal punto di vista statistico, non c’è nessun dato che possa far parlare di un allarme suicidi legati alla crisi, è altrettanto vero che non ci si può esimere dall’analizzare una drammatica tendenza in atto fin dal 2009.
Lo psicanalista Massimo Recalcati ha provato a dare una lettura del fenomeno dei suicidi in termini di rivendicazione: «Oggi le persone si ammazzano non per liberarsi dal lavoro, ma per rivendicare – seppure in modo distruttivo – la loro dignità di uomini, per poter realizzare la propria essenza umana attraverso il lavoro. È questo – il diritto al lavoro – il solo specchio anti-suicidio efficace».
Ma è davvero possibile parlare di questi suicidi come di una “rivendicazione”? È possibile, in altri termini, fare di questi suicidi un atto di protesta simile a quello dei monaci tibetani che si sono dati fuoco contro l’occupazione cinese? Il suicidio come risposta distruttiva a una crisi economica che produce sofferenze e traumi nel soggetto non sembrano parlare il lessico della protesta estrema e della rivendicazione: parlano piuttosto quello della crisi e del tracollo del soggetto di fronte a sofferenze e traumi che non riesce a sopportare e di fronte a cui il suicidio sembra l’unica via di fuga.
Ecco che allora ci si può chiedere se l’orizzonte culturale in cui viviamo non abbia prodotto qualcosa come un soggetto fragile, un soggetto che, prima ancora di essere attivo, agente, si percepisce come vittima, cosicché di fronte a situazioni di difficoltà e crisi, di fronte un trauma, non ha la forza d’animo per reagire.
In fondo, si potrebbe dire che un certo malessere esistenziale, legato all’attuale periodo di crisi, sia il sintomo della fragilità di soggetti a cui è stata tolta l’esperienza, intesa come un confronto senza protezioni e difese con il mondo. È solo in questo confronto che si costituisce il soggetto e che si impara a vivere. Ci sono generazioni nate e vissute al riparo dal mondo, ma in questo modo sono state private di esperienza e non hanno maturato quella forza necessaria per sopportare il peso dell’esperienza. La crisi è la prima esperienza del mondo degna di questo nome per molti: ed è talmente traumatica da generare un eccesso intollerabile di sofferenza.
Si parla molto, fra le altre cose, di crisi morale del nostro tempo, facendo riferimento, con ciò, al venir meno di norme e valori che dovrebbero orientare l’azione dei soggetti. In verità quello di cui si sente davvero la mancanza non sono le norme morali bensì una virtù immorale cara agli antichi e liquidata da molti contemporanei come una specie di residuo arcaico: il coraggio. Il coraggio è una virtù immorale perché anche un soggetto malvagio può essere coraggioso. Ma nondimeno è una virtù di importanza capitale.
Cos’è il coraggio? Troppo spesso confondiamo il coraggio con l’assenza di paura: mentre il coraggio non è altro che la forza di sopportare la paura. Il che significa che il coraggio è la forza necessaria per fare esperienza, per imparare a vivere, nonostante le sofferenze, le difficoltà, le paure che, in un momento o nell’altro, la vita si trova a dover fronteggiare.