Autore Topic: MECCANISMO DELL'UTOPIA  (Letto 1469 volte)

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Offline Animus

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MECCANISMO DELL'UTOPIA
« il: Agosto 11, 2010, 18:14:42 pm »
Riporto questo splendido capitolo (in versione quasi integrale) di  E. Cioran tratto da "Storia e utopia", scritto quando in Francia (era il 1960) e non solo in Francia, stava iniziando quella grande rivoluzione culturale che negli anni successivi sedurra' la quasi totalita' del mondo occidentale.
Buona  lettura.

MECCANISMO DELL'UTOPIA


Qualunque sia la grande città dove il caso mi porta, mi meraviglio che non vi si scatenino tutti i giorni sommosse, massacri, una carneficina inaudita, un disordine da fine del mondo.
Come possono coesistere tanti uomini in uno spazio così ridotto, senza distruggersi, senza odiarsi mortalmente?
Per la verità si odiano, ma non sono all'altezza del loro odio.
Questa mediocrità, questa impotenza salva la società, ne assicura la durata e la stabilità.
Di tanto in tanto vi si produce qualche scossa di cui i nostri istinti approfittano; poi, continuiamo a guardarci negli occhi come se nulla fosse accaduto e a coabitare senza sbranarci troppo manifestamente.
Tutto rientra nell'ordine, nella calma della ferocia, altrettanto temibile, in ultima istanza, del caos che l'aveva interrotta.
Ma mi meraviglio ancora di più che, essendo la società quella che è, qualcuno si sia sforzato di concepirne un'altra, del tutto diversa.
Da dove può provenire tanta ingenuità, o tanta follia?

...

In cerca di nuove prove, e proprio nel momento in cui disperavo di trovarne, ebbi l'idea di buttarmi sulla letteratura utopistica, di consultarne i «capolavori», di impregnarmene, di crogiolarmi in essi. Con mia grande soddisfazione, trovai di che saziare il mio desiderio di penitenza, il mio appetito di mortificazione. Quale pacchia passare alcuni mesi a censire i sogni di un avvenire migliore, di una società «ideale», a consumare l'illeggibile! Aggiungo subito che questa letteratura ributtante è ricca di insegnamenti e che, a frequentarla, non si perde del tutto il proprio tempo. Vi si distingue fin dal principio il ruolo (fecondo o funesto, come meglio piace) che svolge, nella genesi degli avvenimenti, non la felicità, ma l'idea di felicità, idea che spiega come mai, dato che l'età del ferro è coestensiva alla storia, ogni epoca si metta a divagare sull'età dell'oro. Se si mettesse termine a queste divagazioni, ne seguirebbe una stasi totale. Agiamo soltanto sotto il fascino dell'impossibile: quanto dire che una società incapace di generare un'utopia e di votarvisi è minacciata di sclerosi e di rovina. La saggezza, che nulla affascina, raccomanda la felicità data, esistente; l'uomo la rifiuta, e soltanto questo rifiuto ne fa un animale storico, voglio dire un amatore di felicità immaginata.

«Presto sarà la fine di tutto; e vi saranno un nuovo cielo e una nuova terra», leggiamo nell'Apocalisse. Eliminate il cielo, conservate soltanto la «nuova terra» e avrete il segreto e la formula dei sistemi utopistici; per maggior precisione, bisognerebbe forse sostituire «città» a «terra», ma è solo un particolare; ciò che conta è la prospettiva di un nuovo avvento, la febbre di un'attesa essenziale, parusia degradata, modernizzata, da cui nascono questi sistemi, così cari ai diseredati. La miseria è effettivamente il grande ausilio dell'utopista, la materia su cui lavora, la sostanza di cui nutre i suoi pensieri, la provvidenza delle sue ossessioni. Senza di essa, rimarrebbe disoccupato; ma la miseria lo occupa, lo attira o lo molesta, a seconda che sia povero o ricco.

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Il delirio dei miserabili è generatore di avvenimenti, fonte di storia: una folla di esagitati che vogliono un altro mondo, quaggiù e subito. Sono loro che ispirano le utopie, è per loro che si scrivono. Ma utopia, ricordiamocelo, significa da nessuna parte.
E dove sarebbero queste città, che il male non sfiora, in cui si benedice il lavoro e nessuno teme la morte? Vi si sarebbe costretti a una felicità fatta di idilli geometrici, di estasi regolamentate, di mille meraviglie ripugnanti, quali necessariamente presenta lo spettacolo di un mondo perfetto, di un mondo fabbricato. Con risibile meticolosità, Campanella ci descrive i Solariani immuni da «gotta, reumatismi, catarro, sciatica, coliche, idropisia, flatuosità»... Tutto abbonda nella Città del Sole, «perché ognuno tiene a distinguersi in ciò che fa. Il capo preposto a ogni cosa è chiamato: Re... Donne e uomini, divisi in brigate, si danno al lavoro, senza mai infrangere gli ordini dei loro re, e senza mai mostrarsi stanchi, come faremmo noi. Essi guardano ai loro capi come a padri o a fratelli maggiori». - Si ritroveranno le stesse insulsaggini nelle opere del genere, particolarmente in quelle di un Cabet, di un Fourier o di un Morris, tutte sprovviste di quella punta di acredine, così necessaria alle opere, letterarie o d'altro genere.
Per concepire una vera utopia, per dipingere con convinzione il quadro della società ideale, ci vuole una certa dose di ingenuità, anzi di scempiaggine, che, se troppo evidente, finisce con l'esasperare il lettore. Le sole utopie leggibili sono quelle false, quelle che, scritte per gioco, divertimento o misantropia, prefigurano o evocano i Viaggi di Gulliver, bibbia dell'uomo disingannato, quintessenza di visioni non chimeriche, utopia senza speranza. Con i suoi sarcasmi, Swift ha smaliziato un genere fino al punto di distruggerlo.

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La cosa che colpisce di più nei racconti utopistici è la mancanza di fiuto, d'istinto psicologico. I loro personaggi sono automi, finzioni o simboli: nessuno è vero, nessuno supera la condizione di fantoccio, di idea smarrita in mezzo a un universo senza punti di riferimento. I bambini stessi vi diventano irriconoscibili.

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«Le nostre speranze nella condizione futura della specie umana si possono ridurre a questi tre punti importanti: la distruzione della disuguaglianza fra le nazioni, i progressi dell'uguaglianza in uno stesso popolo, infine il perfezionamento. dell'uomo» (Condorcet).
Fedele alla descrizione di città reali, la storia, che constata dappertutto e sempre il fallimento piuttosto che il compimento delle nostre speranze, non ha ratificato nessuna di tali previsioni.

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In una città perfetta ogni conflitto cesserebbe; le volontà vi sarebbero strozzate, placate o rese miracolosamente convergenti; vi regnerebbe soltanto l'unità, senza l'ingrediente del caso o della contraddizione. L'utopia è un miscuglio di razionalismo puerile e di angelismo secolarizzato.

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Angelo decaduto mutato in demiurgo, Satana, preposto alla Creazione, si erge davanti a Dio e si rivela, quaggiù, più a suo agio e perfino più potente di lui; lungi dall'essere un usurpatore, egli è il nostro padrone, sovrano legittimo che la spunterebbe sull'Altissimo, se l'universo fosse ridotto all'uomo. Abbiamo dunque il coraggio di riconoscere da chi dipendiamo!
Le grandi religioni non hanno sbagliato su questo punto: ciò che Màra offre a Buddha, Arimane a Zoroastro, il Tentatore a Gesù, è la terra e la supremazia sulla terra, realtà che è effettivamente in potere del Principe del mondo.

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Finché il cristianesimo appagava gli animi, l'utopia non poteva sedurli; da quando esso incominciò a deluderli, l'utopia cercò di conquistarli e di insediarvisi. Vi si era dedicata già ai tempi del Rinascimento, ma non doveva riuscirci che due secoli più tardi, in un'epoca di superstizioni «illuminate». Così nacque l'Avvenire, visione di una felicità irrevocabile, di un paradiso guidato, in cui il caso non ha posto e la minima fantasia appare come un'eresia o una provocazione. Farne la descrizione significherebbe entrare nei particolari dell'inimmaginabile. L'idea stessa di una città ideale è una sofferenza per la ragione, un'impresa che onora il cuore e squalifica l'intelletto.

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Edificare una società in cui, secondo un'etichetta terrificante, i nostri atti sono catalogati e regolati, e, per una carità spinta fino all'indecenza, ci si interesserà ai nostri pensieri più riposti, significa trasferire le angosce dell'inferno nell'età dell'oro o creare, col concorso del diavolo, un'istituzione filantropica. Solariani, Utopiani, Armoniani - i loro nomi spaventevoli assomigliano alla loro sorte, incubo che attende anche noi, in quanto noi stessi l'abbiamo eretto a ideale.
Per magnificare i vantaggi del lavoro, le utopie dovevano fare il rovescio della Genesi. Su questo punto in particolare, esse sono l'espressione di un'umanità sprofondata nella fatica, fiera di compiacersi delle conseguenze della caduta, la più grave delle quali resta l'ossessione del rendimento.

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Incapaci di trovare il «regno di Dio» in se stessi, o piuttosto troppo scaltri per volervelo cercare, i cristiani lo hanno collocato nel divenire: hanno pervertito un insegnamento allo scopo di garantirne la riuscita. Del resto, Cristo stesso alimentò l'equivoco: da un lato, rispondendo alle insinuazioni dei farisei, predicava un regno interiore, sottratto al tempo; dall'altro, dichiarava ai suoi discepoli che, essendo prossima la salvezza, avrebbero assistito, loro e la «generazione presente», alla consumazione di tutte le cose. Avendo capito che gli uomini accettavano il martirio per una chimera, ma non per una verità, egli si è adeguato alla loro debolezza. Se avesse agito diversamente avrebbe compromesso la propria opera. Ma ciò che in lui era concessione o tattica è negli utopisti postulato o passione.

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Come una nazione, per distinguersi dalle altre, per umiliarle e schiacciarle, o semplicemente per acquistare una fisionomia unica, ha bisogno di un'idea insensata che la guidi e le proponga fini incommensurabili con le sue capacità reali, così una società si evolve e si afferma soltanto se le si suggeriscono o le si inculcano ideali sproporzionati a ciò che essa è. L'utopia assolve nella vita delle collettività la funzione assegnata all'idea di missione nella vita dei popoli. Le ideologie sono il sottoprodotto, si direbbe l'espressione volgare, delle visioni messianiche o utopistiche.
In se stessa un'ideologia non è né buona né cattiva. Tutto dipende dal momento in cui la si adotta. Il comunismo, ad esempio, agisce su una nazione virile come uno stimolante; la spinge in avanti e ne favorisce l'espansione; su una nazione vacillante la sua influenza potrebbe essere meno felice. Né vero né falso, esso precipita certi processi, e non per causa sua, ma per mezzo suo la Russia ha acquistato il vigore attuale. Svolgerebbe la stessa funzione, una volta insediato nel resto dell'Europa? Vi rappresenterebbe un principio di rinnovamento?

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Dopo aver denunciato gli aspetti ridicoli dell'utopia, veniamo ai suoi meriti e, poiché gli uomini si adattano così bene allo stato sociale e ne distinguono a fatica il male immanente, facciamo come loro, associamoci alla loro incoscienza.
Le utopie non saranno mai lodate abbastanza per aver denunciato i misfatti della proprietà, l'orrore che rappresenta, le calamità di cui è causa.

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La rivoluzione si rivela dunque utile in quanto agente di distruzione; fosse pure nefasta, una cosa la riscatterebbe sempre: essa soltanto sa di quale sorta di terrore servirsi per scuotere questo mondo di proprietari, il più atroce dei mondi possibili. Ogni forma di possesso (non dobbiamo temere di insistervi!) degrada, avvilisce, lusinga il mostro assopito nel fondo di ognuno di noi. Disporre anche soltanto di una scopa, considerare qualsiasi cosa come proprio bene, significa partecipare all'indegnità generale. Che fierezza scoprire che nulla ti appartiene, che rivelazione!

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Quando non se ne può più dei valori tradizionali, ci si orienta necessariamente verso l'ideologia che li nega. Ed essa seduce molto più per la sua forza di negazione che non per le sue formule positive. Volere lo sconvolgimento dell'ordine sociale significa attraversare una crisi più o meno segnata da temi comunisti.

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Attualmente, le coscienze possono manifestarsi soltanto in due forme di rivolta: comunista e anticomunista. Tuttavia, come non accorgersi che l'anticomunismo equivale a una fede rabbiosa, inorridita, nell'avvenire del comunismo?
Quando suona l'ora di un'ideologia, tutto concorre al suo successo, perfino i suoi nemici; né la polemica né la polizia potranno arrestarne l'espansione o ritardarne la vittoria; essa vuole e può realizzarsi, incarnarsi; ma più vi si avvicina, e più corre il rischio di esaurirsi; instaurata, si svuoterà del suo contenuto ideale, estenuerà le sue risorse per degenerare, alla fine, in chiacchiera o in spauracchio, compromettendo le promesse di salvezza di cui disponeva.

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Lo sviluppo riservato al comunismo dipende dal modo in cui spenderà le sue riserve di utopia. Finché ne disporrà, tenterà inevitabilmente tutte le società che non ne avranno fatto l'esperienza; arretrando qui, avanzando là, investito di virtù che nessun'altra ideologia detiene, farà il giro del globo, sostituendosi alle religioni defunte o vacillanti, e proponendo dovunque alle folle moderne un assoluto degno del loro nulla.
Considerato in sé, esso appare come l'unica realtà cui si possa ancora sottoscrivere, se si conserva anche un solo briciolo di illusione sull'avvenire: ecco perché, in gradi diversi, siamo tutti comunisti...

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I nostri sogni sull'avvenire sono ormai inseparabili dai nostri terrori. La letteratura utopistica era insorta, ai suoi inizi, contro il Medio Evo, contro l'alta stima in cui esso teneva l'inferno e contro il gusto che professava per le visioni da fine del mondo. Si direbbe che i sistemi così rassicuranti di un Campanella e di un Tommaso Moro fossero concepiti al solo fine di screditare le allucinazioni di una santa Ildegarda. Oggi, riconciliati col terribile, assistiamo a una contaminazione dell'utopia con l'apocalisse: la «nuova terra» che ci si annuncia assume sempre più la figura di un nuovo inferno. Ma, quest'inferno, noi lo attendiamo, ci facciamo anzi un dovere di accelerarne l'avvento. I due generi, l'utopistico e l'apocalittico, che ci sembrano così dissimili, si fondono, stingono adesso l'uno nell'altro per formarne un terzo, meravigliosamente adatto a rispecchiare la sorta di realtà che ci minaccia e alla quale diremo tuttavia di sì, un sì corretto e senza illusioni. Sarà il nostro modo di essere irreprensibili davanti alla fatalità.


Da "Storia e utopia",
E. Cioran
Ti sentirai più forte, un uomo vero, oh si , parlando della casa da comprare, eggià, e lei ti premierà, offrendosi con slancio.  L'avrai, l'avrai, con slancio e con amore … (Renato Zero)

Ha crocifissi falci in pugno e bla bla bla fratelli (Roberto Vecchioni)

Offline Archiloco

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Re: MECCANISMO DELL'UTOPIA
« Risposta #1 il: Agosto 11, 2010, 21:42:13 pm »
A proposito di utopia riporto una frase di Stanley Kubrick che rilasciò in un intervista sul film "Arancia Meccanica".

"Ogni tentativo di creare istituzioni sociali su una falsa visione della natura dell'uomo è probabilmente destinata a fallire".

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Re: MECCANISMO DELL'UTOPIA
« Risposta #2 il: Agosto 11, 2010, 22:09:42 pm »
"Ogni tentativo di creare istituzioni sociali su una falsa visione della natura dell'uomo è probabilmente destinata a fallire".

Mai frase fu più azzeccata di questa per descrivere il cambiamento (funesto)  della nostra società.