Ethans :
Ricordo di aver letto un articolo in cui venne allo scoperto e ammise il suo passato con Salò. Potrei anche sbagliarmi eh?
fu costretto ad ammetterlo. perse un processo in cui aveva citato un tipo che aveva riesumato la storia, con tanto di fatti
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La guida risponde
DAGLI ARCHIVI DEL SECOLO D'ITALIA: DARIO FO,QUAND'ERA REPUBBLICH
In questi giorni si torna a parlare dei reduci dalla Repubblica sociale italiana. Una pagina della storia omessa o cancellata, riguarda il Nobel per la letteratura, Dario Fo. Questa è la ricostruzione, così come venne riportata dal Secolo d'Italia nel novembre 2000. LA VERA STORIA DI DARIO FO NELLA RSI Il primo a parlare di Dario Fo volontario nella Repubblica fascista di Mussolini fu Giorgio Pisanò, l'illustre giornalista, storico e uomo politico scomparso il 24 ottobre del 1997. Ne fece il nome nella sua opera in tre volumi «Storia della guerra civile in Italia», uscita per la prima volta nel 1964, indicandolo come appartenente al battaglione «A. Mazzarini» della Gnr (Guardia Nazionale Repubblicana). Pisanò era, a quell’epoca, un «intoccabile», come i parìa dell'India. Aveva la lebbra fascista. Qualsiasi cosa dicesse o scrivesse, lasciava indifferente l'establishment (non che le cose siano molto cambiate).
Il secondo fu Giancarlo Vigorelli, famoso scrittore e critico, in un «corsivo» pubblicato su “Il Giorno” del 6 giugno 1975. Era andato in scena il «Fanfani rapito», una corrosiva comica di Fo, nella quale si descriveva il segretario democristiano nell’atto di partorire un piccolo mostriciattolo fascista. “Anche Fo - scrisse Vigorelli - sa di avere in pancia l’incubo dei propri trascorsi fascisti “.
Non l’avesse mai scritto. Fo querelò per diffamazione il critico e il direttore del quotidiano dell’Eni Gaetano Afeltra. La querela si concluse con una rimessione, perché “II Giorno” aveva pubblicato un’adeguata rettifica in cui poteva leggersi che Dario Fo “viveva all’interno di una famiglia nota per l’attivo impegno nella lotta partigiana e fu partecipe personalmente di questo impegno allora e in seguito. La sua momentanea e forzata presenza nella sezione addestramento della contraerea dell’aeronautica di quel tempo, senza la partecipazione ad alcuna azione militare, seguita da diserzione, non implicò quindi alcuna adesione su nessun piano, ad una concezione ideologica che egli ha da sempre combattuto con impegno militante”. Bé, effettivamente, dare del fascista ad uno che ha fatto dell’antifascismo la sua professione è grossa.
All’epoca ci fu un po’ di maretta. Il deputato democristiano di Novara Michele Zolla, molto vicino a Oscar Luigi Scalfaro, presentò un’interrogazione al ministro della Difesa per sapere se rispondesse a verità che Fo aveva militato nel battaglione «A. Mazzarini» della Gnr. Nessuna risposta, qualche insulto all’indirizzo di Zolla sui giornali di sinistra, silenzio della grande stampa, già allineata.
Fo era una potenza. Aveva scritto «Morte accidentale di un anarchico» accusando Luigi Calabresi (da lui ribattezzato “il commissario Cavalcioni”)di avere “defenestrato” dalla questura di Milano l’anarchico Pino Pinelli all’indomani dell’attentato di piazza Fontana (12 dicembre 1969, 16 morti, 90 feriti). E poco dopo Calabresi era stato “giustiziato”. Aveva attaccato, con una conferenza-stampa convocata al palazzo di Giustizia di Milano, il p.m. genovese Mario Sossi, reo di aver fatto arrestare l’ex-comandante partigiano Giambattista Lazagna (caso Feltrinelli). E poco dopo Sossi era stato sequestrato dalle Brigate Rosse. Per l’ultrasinistra, Dario Fo era un idolo. Frattanto, le Brigate Rosse avevano incominciato ad ammazzare, e la gente aveva paura.
In questo clima, il 9 giugno 1977 il compianto collega Gianni Cerutti pubblicò, sul settimanale da lui fondato e diretto, «II Nord», di Borgormanero (Novara), la lettera articolo di un collaboratore, Angelo Fornara, nella quale si poteva leggere che a Fo “non conviene ritornare a Romagnano Sesia dove qualcuno lo potrebbe riconoscere: rastrellatore, repubblichino, intruppato nel battaglione “Mazzarini” della Guardia Nazionale della Repubblica di Salò”.
Fo non perdona. Scocca la querela per diffamazione “con ampia facoltà di prova”.
Il processo si celebra a Varese, dove è stampato «II Nord». La prima udienza si svolge il 7 febbraio 1978.Fo racconta che, non ancora diciottenne (è nato a Sangiano, Varese, il 24 Marzo 1926), collaborava con il padre, esponente della Resistenza nel Varesotto. Preso tre volte dai tedeschi, e sempre scappato, si era arruolato volontario nei paracadutisti di Tradate, ma lo aveva fatto per non destare sospetti, anzi d’accordo con i partigiani amici del padre. Tanto che il suo sogno era sempre stato quello di unirsi alla formazione militare Lazzarini, la banda partigiana terrore dei nazifascisti sulla riva orientale del Lago Maggiore. Falso quindi che sia stato repubblichino, falso che sia stato rastrellatore, falso, falsissimo, che sia stato «intruppato nel battaglione “A. Mazzarini” della Gnr».
Nel frattempo, il giornalista e storico Luciano Garibaldi ha condotto una ricerca sulla strana vicenda e ne pubblica i risultati in un ampio reportage sul settimanale «Gente» in edicola il 4 marzo 1978. Cè la foto di Dario Fo in divisa da parà repubblichino. Cè il ritratto da lui fatto dei suoi camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («sono apocrife e sono state aggiunte da altri», dirà il comico). Soprattutto ci sono le testimonianze di una decina di ex-camerati di Tradate, tra cui l’ex-sergente maggiore istruttore dei paracadutisti fascisti, Carlo Maria Milani (“L’allievo paracadutista Dario Fo era con me durante il rastrellamento della Val Cannobina per la riconquista dell’Ossola, il suo compito era portare le bombe”), e - assolutamente esplosiva - quella del leggendario comandante partigiano Giacinto Lazzarini, si, proprio lui, il mito della giovinezza di Fo.
Lazzarini, a quell’epoca sessantaseienne, è un superdecorato e probabilmente tutti pensavano fosse morto (in effetti la sua formazione era stata sterminata dai fascisti durante la battaglia di Gera di Voldomino, Varese, il 7ottobre 1944: 54 morti). Nell’intervista afferma: “Le dichiarazioni di Dario Fo destano in me non poca meraviglia. Dice che la casa di suo padre era a Porto Valtravaglia, era un “centro” di resistenza. Strano. Avrei dovuto per lo meno saperlo. Poi dice che “era d’accordo con Albertoli” per raggiungere la mia formazione. Io avevo in formazione due Albertoli, due cugini, Giampiero e Giacomo. Caddero entrambi eroicamente alla Gera di Voldomino, e alla loro memoria è stata concessa la medaglia di bronzo al valor militare. Forse Fo potrà spiegare come faceva ad essere d’accordo con uno dei due Albertoli di lasciare Tradate nel gennaio 1945, quando erano entrambi caduti quattro mesi prima. Senza dire, poi, che i cugini Albertoli erano tra i più vicini a me e mai nessuno dei due mi parlò di un Dario Fo che nutriva l’intento di unirsi alla nostra formazione”.
«Ad ogni, modo - dice ancora Lazzarini - se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non lo ha detto subito, all’indomani della Liberazione? Sarebbe stato un titolo d’onore, per lui. Perché mai tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?».
L’inchiesta di Luciano Garibaldi ha l’effetto di rendere incandescente il processo di Varese. Milani e Lazzarini vengono citati e ascoltati dal tribunale. Milani ha un duro confronto con Fo, al termine del quale viene denunciato dagli avvocati del futuro Nobel per falsa testimonianza. Lazzarini, un autentico eroe della resistenza, è ascoltato l’11 aprile.
Finalmente, dopo 34 anni, Fo ha l’occasione di trovarsi faccia a faccia con colui che, stando alla biografia “La storia di Dario Fo”, di Chiara Valentini, fu l’idolo della sua gioventù, il leggendario comandante Lazzarini, il Che Guevara del Varesotto, il Chiapas dei nazifascisti. Che fa? Lo abbraccia? No. Lo fa ricoprire di contumelie dal suo amico ed ex-partigiano Leo Wachter, il quale, tirando la corda, dice al tribunale: “Lazzarini? Mai sentito nominare”. Con fierezza colma di sdegno, Lazzarini, al presidente che gli chiede se per caso egli usasse un nome di copertura, risponde. “No, il mio nome era Lazzarini, il bandito Lazzarini!”.
Il processo dura un anno e si conclude, dopo oltre dieci udienze, il 15 febbraio 1979, con una sentenza che assolve per intervenuta amnistia il direttore, de “II Nord” e condanna il collaboratore per la sola asserzione “Fo intruppato nel battaglione “A. Mazzarini” della Gnr”.
Nella sentenza si legge tra l’altro: “E’ certo che Fo ha vestito la divisa del paracadutista repubblichino nelle file del Battaglione Azzurro di Tradate. Lo ha riconosciuto lui stesso - e non poteva non farlo, trattandosi di circostanza confortata da numerosi riscontri probatori documentali e testimoniali - anche se ha cercato di edulcorare il suo arruolamento volontario sostenendo di avere svolto la parte dell’infiltrato pronto al doppio gioco. Ma le sue riserve mentali lasciano il tempo che trovano”. E ancora: “Deve ritenersi accertato che delle formazioni fasciste impegnate nell’operazione in Val Cannobina facessero sicuramente parte anche i paracadutisti del Battaglione Azzurro di Tradate. ( … ) Non è altrettanto certo, o meglio è discutibile, che vi sia stato impiegato Dario Fo. Ma (…) la milizia repubblichina di Fo in un battaglione che di sicuro ha effettuato qualche rastrellamento, lo rende in certo qual modo moralmente corresponsabile di tutte le attività e di ogni scelta operata da quella scuola nella quale egli, per libera elezione, aveva deciso di entrare.
E’ legittima dunque per Dario Fo non solo la definizione di repubblichino, ma anche quella di rastrellatore”.
La sentenza non fu appellata e dunque è definitiva. Per la giustizia, Fo è stato repubblichino, paracadutista e rastrellatore. Quanto all’ex-sergente maggiore Carlo Maria Milani, processato per falsa testimonianza , fu assolto dal pretore di Varese il 16 maggio 1980 con formula piena; perché il reato non sussiste. Sentenza anch’essa definitiva.
Agostino Bertani
La trasgressione impossibile
FLAVIA PERINA
POTREBBE essere un racconto di Pirandello. Il racconto di un uomo sempre controcorrente, che sul marciare controvento ha costruito una clamorosa e onoratissima carriera diventando il simbolo stesso della demolizione delle regole e del rovesciamento degli schemi, che tuttavia non riesce ad ammettere - neanche per un attimo, nemmeno con se stesso - la prima e la più assoluta delle sue trasgressioni: l’adesione a una “causa sbagliata”, poi diventata nell’arco degli anni un autentico tabù sociale e storico. Potrebbe essere un racconto di Pirandello, e invece è la vicenda di Dario Fo, tornata d’attualità sull’onda della polemica sulle “confessioni” di Roberto Vivarelli riguardo all’adesione alla Rsi. Anche Dario Fo vestì la divisa della Rsi. Anche lui è stato interpellato di recente sui motivi di quella scelta. A oltre cinquantanni di distanza, da uno così uno che sul “coraggio di dire di no” ha costruito una carriera da Nobel, ci si poteva aspettare un fulminante “outing”. E vero, l’ho fatto. Invece è arrivato un deprimente contorcimento. Deprimente sia per il compagno di”Guerra di popolo in Cile” sia per il camerata di”Battaglioni del Duce battaglioni”.
“A differenza di Vivarelli che, sebbene per poco, ci credette – ha spiegato Dario Fo al “Corriere” - io aderii alla Rsi per ragioni molto più pratiche: cercare di imboscarmi, portare a casa la pelle”. Fo dice di aver scelto l’artiglieria contraerea di Varese perché tanto “non aveva cannoni” ed era facile prevedere che gli arruolati sarebbero presto stati rimandati a casa. Quando capì che invece rischiava di essere spedito in Germania “a sostituire gli artiglieri tedeschi massacrati dalle bombe”, trovò un’altra scappatoia. Si arruolò nella scuola paracadutisti di Tradate. Frequentò il corso. E “finito l’addestramento, fuga finale. Tornai nelle mie valli, cercai di unirmi a qualche gruppo di partigiani, ma non ne era rimasto nessuno”.
E’ una versione ben differente da quella che lo stesso Fo fornì vent’anni fa, e di cui diamo conto nell’articolo qui a fianco. All’epoca il giullare di “Mistero buffo” sosteneva addirittura di essere entrato nella Rsi su incarico di formazioni partigiane. Smentito in processo, è stato probabilmente costretto a “emendare” i suoi ricordi. Resta da chiedersi come mai nemmeno dopo mezzo secolo, nemmeno dopo il Nobel, nemmeno dopo l’incrinatura del tabù che ha ossessionato due generazioni di italiani, un pluri-settantenne del calibro di Fo, ormai al riparo dalle intemperie della discriminazione, riesca a riconciliarsi con le scelte della sua giovinezza. Delle due l’una: o la gabbia creata dalle vestali del “politicamente corretto” è infrangibile, o è molto fragile – debole, succubo conformista - lui.
da “il Secolo d’Italia” venerdì 10 novembre 2000