Autore Topic: femminicidio #4  (Letto 4565 volte)

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femminicidio #4
« il: Dicembre 12, 2012, 09:47:19 am »
  http://cosimotomaselli.blogspot.it/2012/12/femminicidio-4.html

Femminicidio #4

 
Mentre infilo in bocca il croissant di crema e cioccolata, con smisurata lentezza, ne pregusto il sapore prima ancora di sentirlo. Tra le gioie della vita, una buona colazione al mattino, nella pasticceria di fronte alla chiesa di questo paese friulano.
Nel frattempo scorro i titoli del giornale.
Politica, nazionale e internazionale. Ancora Obama, Berlusconi, Monti. Cose note, ragionamenti sempre uguali.
Nelle pagine interne leggo di un altro femminicidio. Il centodiciottesimo quest'anno. Qualcuno dice. Non so come li hanno contati, ma per me va bene che siano centodiciotto o millecentodiciotto. Fa lo stesso.
Chissà, penso, potrebbe essere una soluzione anche per il mio problema, non si sa mai.
In effetti, come un incubo, un pensiero oscuro, mi perseguita e pervade ogni cosa che faccio. Mi sveglio al mattino con una sensazione sgradevole, e la sera faccio fatica ad addormentarmi.
Chi l'avrebbe detto tre anni prima, quando ci eravamo conosciuti alla festa di compleanno di un compagno di corso?
Chiara era una matricola, o quasi. Piccolina, due seni come mandarini. Cosce e polpacci da montanara. Non era bellissima, è vero. Ma a letto era una bomba. E soprattutto ci eravamo finiti meno di due ore dopo esserci conosciuti.
Dopo qualche giorno si era trasferita nel nostro appartamento, quello che condividevo con due amici. Ed era cominciato un rapporto a quattro difficile da raccontare e da credere. Sembrava che non le bastasse mai, in tre non bastavamo a soddisfarla. Era sempre pronta, a qualunque ora del giorno o della notte.
Girava per la casa nuda e dormiva talvolta in un letto, talvolta in un altro. Mai nel suo.
Quella follia era durata quasi un anno. Eravamo la favola dell'università. Ma era veramente favoloso. Una di quelle storie che sogni di vivere almeno una volta nella vita.
Finché un giorno raccontò, scura in volto, che era incinta.
Vabbè, che problema c'è? Pensai. Ci vuole poco per una IVG. Perché era triste?
Ma lei non aveva nessuna intenzione di abortire. Ci colse tutti di sorpresa: chi l'avrebbe mai detto? Abbiamo vissuto insieme per quasi un anno, giorno e notte, abbiamo fatto le vacanze insieme, parlato di tutto, e di lei non sapevamo nulla.
Qualche giorno dopo si trasferì a casa dei suoi, in Friuli, lasciando l'università.
La nostra vita cambiò all'improvviso e radicalmente. Per qualche giorno vivemmo nel rimpianto e nel ricordo. Poi passammo oltre.
Una sera, mi telefonò chiedendomi se avevo intenzione di riconoscere il figlio.
Che colpo. E perché mai?
Anzitutto come faceva a dire che era mio figlio? Era andata a letto con tutti noi tre, e non escluderei anche con altri. Come faceva a dire che era mio? Lei diceva che ne era sicura, ma a me la sua sicurezza non dimostrava nulla. Proprio nulla.
Riconoscere un figlio? Non ero ancora laureato, mi trovavo con la vita ipotecata, impegnata prima ancora di avere iniziato a viverla. Non riuscivo neppure a pensare a quella ipotesi. Cosa significava? Avrei dovuto mandargli dei soldi, suppongo. E andare a trovarlo ogni tanto, magari.
In ogni caso era una cosa che non riuscivo assolutamente ad accettare: si trattava di divertimento, solo di divertimento. Se avessi voluto un figlio, avrei fatto altro.
In Aprile nacque una bambina. La chiamò Sofia. Mi telefonò il giorno stesso del parto. Insisteva che era mia figlia.
Sembrava un incubo, io dovevo laurearmi a Luglio, avevo altro a cui pensare.
Quella faccenda era diventata una barzelletta. Io e i miei amici tiravamo a sorte su chi poteva essere il padre e ridevamo fino a vomitare, sbronzi di birra e whisky.
Ad ogni modo fino a Luglio non ci pensai più. Ero impegnato nella tesi e negli ultimi esami, per cui che andasse al diavolo.
Ma in ogni cosa che facessi si insinuava un tarlo oscuro, ogni cosa era come un tronco perso nelle sabbie mobili, come una mela marcita da dentro. Mi concentravo a fatica e sempre con un senso di colpa dentro.
La sera stessa della laurea lei mi telefonò per complimentarsi e ricordarmi i miei obblighi. Ero stanco della giornata e dei festeggiamenti, in un angolo della stanza faceva bella mostra la corona di alloro e il cappello nero a punta dei dottori. La mandai al diavolo e le urlai che non era mia figlia.  Sbattei giù il telefono.
Il giorno dopo richiamò e attaccò senza preliminari: «se non mi credi, fai l'esame del DNA». Chiusi la comunicazione senza rispondere e pensai, per quel giorno e per quelli che seguirono, a godermi il meritato riposo premio di tanti anni di studio.
In Agosto andai con la famiglia all'Elba, come facevamo da sempre ad eccezione dell'ultimo anno, quando avevo fatto le vacanze con Chiara. E Chiara non era una di quelle che porti a conoscere i tuoi.
La notte di San Lorenzo conobbi Laura, ovviamente guardando le stelle cadenti dal terrazzo della pensione.
Figlia di un pezzo grosso, ebbi subito il sospetto che qualcuno avesse manovrato per farci incontrare. Scoprii infatti in seguito che mio padre e suo padre si conoscevano da giovani.
In ogni caso contava poco: era una ragazza fantastica. Alta, slanciata, un seno da paura. Occhi neri come il carbone, su un corpo caldo di siciliana.
La famiglia di lei era cattolica vecchio stampo, e lei aveva solo un pizzico di fantasia, quel minimo di contestazione che non guasta il rapporto con i genitori, i quali accoglievano con compiacimento le sue uscite progressiste e populiste, con una spolveratina di femminismo.
Nel giro di pochi giorni mi presi una di quelle cotte che ti fanno vedere il mondo in un'altra luce. All'improvviso afferrai con precisione che la laurea serve per lavorare. E che lavorare serve per guadagnare. E che i soldi servono per comprare casa e mantenere una famiglia.
Tornai perciò a casa prima della fine di Agosto, già con una serie di idee e progetti per mettermi al lavoro nel giro di poco tempo.
All'inizio di Settembre Chiara si presentò a casa mia con la bambina in braccio. Ero a casa da solo, verso le nove del mattino. Stavo per uscire quando suonò il campanello. Vedermela di fronte fu come un mattone sulla testa. Mi si annebbiò la vista e mi mancò il respiro, mentre cercavo qualcosa da dire o da fare.
Lei mi guardava fisso sporgendomi la bambina: «tua figlia».
Appena mi ripresi le dissi con cattiveria che la smettesse di rompermi i co...ni e che per quel che mi riguardava poteva essere figlia di mezza facoltà. Lei tranquilla: «togliti il dubbio, fai l'esame».
Avevo appena letto che in parlamento era passata una legge che equipara i figli naturali ai figli legittimi. Pur non avendo preso visione con precisione del dibattito, credo che ciò significasse che un qualunque figlio, o la madre per lui, può pretendere dal padre di essere riconosciuto e trattato come i figli nati nel matrimonio.
Perciò mi convinsi che fosse una faccenda da risolvere, al più presto. E con la minore pubblicità possibile. Figurati se Laura o i suoi genitori vengono a sapere di questa storia, o anche solo di questo sospetto. Perciò le dissi di togliersi dai piedi e che mi sarei fatto sentire. La presi per le spalle e la indirizzai verso la porta d'ingresso.
Due settimane dopo la raggiunsi al suo paese, in Friuli. Andammo insieme a Udine dove facemmo i prelievi, io e la bambina. Quell'esame costava uno sproposito, ma se mi toglieva un pensiero era una cifra che pagavo volentieri.
Mi trovai molto in imbarazzo a spiegare a Laura e ai miei genitori di quella giornata clandestina. Mi inventai un progetto da discutere con un cliente potenziale, progetto che poi finsi fosse sfumato nel nulla. Mi sentivo molto in imbarazzo nel costruire quella storia inverosimile e temevo che mi scoprissero.
Ma tutto filò liscio, contro ogni previsione.
Tornai a casa e non ci pensai più. In effetti me ne dimenticai proprio, fino al giorno in cui arrivò una lettera azzurra dell'Ospedale di Udine indirizzata a me. La bella giornata di Novembre, fredda ma piena di sole, si oscurò all'improvviso, come per un tetro presentimento. Andai in camera, chiusi la porta e aprii la lettera con le mani che tremavano.
Il mondo mi cadde addosso leggendo il linguaggio asettico con cui mi confermavano che i nostri profili genetici, il mio e quello di mia figlia, erano compatibili.
Chiusi tutto in un ripostiglio oscuro della memoria per una settimana, ma sapevo bene che non potevo nascondere la testa come gli struzzi. Dovevo agire.
Mi telefonavo spesso con Laura e ci vedevamo tutti i fine settimana. O saliva lei, o scendevo io. Pranzavo a casa dei suoi, pranzi magnifici e vini memorabili. In Sicilia l'inverno non è come da noi, è quasi estate. Salire e scendere dall'aereo era come passare da una stagione all'altra.
Facevamo già progetti per il matrimonio, grosso modo eravamo orientati per la primavera, massimo l'estate dell'anno dopo. Io avevo già iniziato a fare i primi lavori, e dove non arrivavano i fatti suppliva la fantasia e a presunzione. Ero sicuro che ce l'avrei fatta, comunque. Anche il mio futuro suocero ne era convinto: al punto che mi aveva organizzato un appuntamento con alcuni suoi conoscenti, persone influenti, accidenti.
Così siamo arrivati a Dicembre. Mi sono deciso alla fine a salire in Friuli. Ho inventato delle altre scuse, un altro progetto, infilato la lettera azzurra in una tasca, e sono salito in auto la macchina. Questa mattina presto, che era ancora notte. In quattro ore sono arrivato. Al centro del paese, di fronte alla chiesa, c'è questa magnifica pasticceria. Mi sono fermato ed ho fatto colazione prima di andare a casa sua. Qui leggo della questione dei femminicidi e mi domando se sia una soluzione.
I suoi non ci sono. La bambina si agita nella culla vocalizzando suoni inconcludenti. Mi fa entrare e ci sediamo.
Le chiedo che intenzioni ha. Lei insiste perché riconosca la figlia. Le chiedo se è fuori di testa. Ci eravamo divertiti, per un anno, va bene. Ma un figlio è un'altra cosa. Adesso poi che mi sposo, è proprio l'ultima cosa che posso fare.
«Ti sposi? Con chi?» chiede lei.
«Che ti importa? Non la conosci! E non sono affari tuoi!» rispondo contrariato. Urlando.
«Non saranno affari miei quando tu avrai fatto il tuo dovere con tua figlia» ribatte lei. Urlando.
Con le donne è impossibile discutere. Per natura ti vogliono far sentire in colpa, il tuo punto di vista o non c'è o è sbagliato.
Lei alza la voce, io la alzo di più, ci parliamo addosso, la bambina piange.
In cucina c'è un coltello. Ed è ben affilato.
Forse è la soluzione sbagliata.
Ho bisogno di pensare, di un attimo di silenzio.
Ma lei urla. Io di più.
«Sei una puttana, ti sei fatta tutta la facoltà!»
«Ma questa puttana ti piaceva, allora!»
«Si ma come puttana. Ma tra una puttana e una madre c'è un abisso!»
Sono in un vicolo cieco, lo so. Devo pensare.
«Puttana!»
«Stronzo! Irresponsabile!»
«Lasciami parlare!»
«No, tu piuttosto, ascoltami!»
Non vedo soluzioni. La vista si annebbia. Mi manca il respiro.
Cosa posso fare?
In cucina c'è un coltello. È affilato.
 
Dio cè
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Re:femminicidio #4
« Risposta #1 il: Dicembre 12, 2012, 11:08:36 am »
  http://cosimotomaselli.blogspot.it/2012/12/femminicidio-5-e-6.html



Femminicidio #5 e #6

 
Amore mio.
Ecco, vorrei dirti solo questo, quando ti sveglierai tra un paio di ore: amore mio.
Non cercarmi, non mi farò trovare.
Non telefonarmi: il cellulare, come vedi, è qui, sopra questa lettera.
Non piangere. O forse, al contrario, piangi, piangi forte. Il pianto per le donne è come le urla e i pugni sul tavolo per gli uomini: un modo per pretendere i diritti che si arrogano. Ma io non sarò qui a provare compassione per te, perciò: piangi pure.
Ma non rimpiangermi, non vale la pena.
Abbiamo passato insieme trenta anni della nostra vita, i nostri anni migliori. Quando eravamo giovani, belli, entusiasti, pieni di speranze.
Ciò che ti tolgo, andandomene ora, è la parte meno gustosa della torta. L'autunno, la canuzie, la pelle che si affloscia, gli acciacchi nuovi ogni giorno. Per cui sii intelligente, almeno una volta, non rimpiangere quello che perdi.
Sai perché me ne vado, non te lo ripeto.
Solo che, ecco, un morso mi prende lo stomaco e mi verrebbe da darti un pugno. Un bel pugno forte, ben piazzato, come nei film.
Perché non vado dalla mia amante. Né me ne vado per la mia amante. Me ne vado per te, perché non ne posso più del tuo amore. Mi soffoca, mi toglie il respiro.
Non ne posso più di dover giustificare ogni telefonata che ricevo e ogni sms che invio. Sono stufo di doverti spiegare perché sono rimasto in ufficio un'ora in più o perché non ti ho risposto subito al telefono. Ne ho le scatole piene delle tue litigate se mi metto un po' di profumo sulla barba.
Voglio alzarmi al mattino ed essere libero di pensare come organizzarmi la serata. Libero di fare qualunque cosa senza pensare a come tu la interpreti, al doppio senso che tu ci leggi. Libero di amare senza doverlo dimostrare. Di amare il cielo sereno e gli orizzonti lontani, il tempo che passa e il futuro che mi attende.
È il tuo amore che mi consuma.
Adesso poi che hai scoperto il sesso, mi consumi ancora di più.
Lo ammetto: quando ci siamo sposati eri un pezzo di figliola, da paura. Sposandoti sapevo che il tempo ti avrebbe consumata, che novità è? Pensavi forse che non avessi due neuroni connessi? Lo sapevo e ti ho sposata lo stesso, perché so che ogni stagione ha i i propri frutti. In primavera le ciliege, in estate i fichi, in autunno uva e nespole. E d'inverno il ricordo e la nostalgia: tra tutti forse i frutti più preziosi.
Perciò la tua ansia oggi è del tutto fuori luogo: ti guardi le tette e parli di interventi miracolosi, con un tono di rimprovero, come se fossero avvizzite per colpa mia. E come se per me facesse qualche differenza.
E, se faccio cilecca e non mi si alza subito, ne fai una tragedia dove mescoli tutto, le tue tette e i tuoi sospetti sulla mia amante.
Ma anch'io sono cambiato: trenta anni fa una bionda o un paio di tette mi facevano sussultare. Ricordo: una volta accompagnavo un frate in autostrada, all'improvviso dietro una curva compare una prostituta con tette come angurie. Credo di essere avvampato e mi è mancata la parola. Che figura da chiodi!
A quel tempo sembrava che le belle donne fossero come i vietcong, ti circondavano per ogni dove. C'era la Schiffer e la Cambell su ogni manifesto e ogni rotocalco a turbare sonno e veglia. Poi la Parietti, la Ventura, la Hunziker.
Con il tempo sono cambiato. Mi dicono che a Sanremo Belen ha mostrato una farfallina tatuata all'inguine. Credo di aver anche visto qualche passaggio, trasmesso e ritrasmesso, di quella apparizione. Non mi ha smosso un solo pelo.
Ebbene, che male c'è? Mi sta bene così, la vita è una breve, affannosa corsa verso un traguardo stupendo, assaporiamo un piccolo antipasto in attesa del vero pranzo di nozze. Non mi dispiace l'autunno e ancor meno l'inverno.
Ma non posso sopportare ancora i tuoi sospetti: se non faccio l'amore con te non è perché lo faccio o vorrei farlo con un'altra più giovane e bella di te. È perché anche a me è calato qualcosa mentre a te calavano le tette.
Ma per me quello è calato mentre qualcosa si alzava, quello che calava era quasi un premio, una vittoria, un sottrarmi allo strapotere del sesso. Nelle osterie si userebbe un altro linguaggio, ma io non sono mai stato uomo da osteria, perciò lo penso e non lo scrivo.
Mi angosci quando dici che vorresti darmi il viagra. Ma dai! Trenta anni fa dovevi avere questa passione per il sesso. Allora dovevi accorgerti che ero sempre affamato, che le ragazze che incontravo, quelle con cui lavoravo, mi prendevano in giro dandomi dell'arrapato. Ci provavo con tutte, dicevano. Già, perché le donne sentono la fame di sesso, sentono chi non ne fa abbastanza e anziché capire che proprio quello è il loro terreno ideale, se ne allontanano ridendo, disgustate.
Adesso, amore mio, sei un po' fuori tempo. Non ci sono più ciliege, né fichi. Solo qualche nespola sotto la neve, prima dell'inverno.
Non sono più i giorni della passione. Potrebbero forse essere i giorni di un diverso, altro amore. Quello di due complici che si lanciano senza paura nella steppa sconosciuta. Non abbiamo più nulla da perdere, la nostra vita è alle spalle. Potremmo gettarci perciò con spavalderia incontro all'ignoto.
Ma per farlo insieme, amore mio, avresti dovuto amarmi davvero.
Trent'anni fa  non capivi  quanto avessi fame di sesso, del puro e semplice, banale sesso fisico, mi trattavi a volte, mi sembrava, come un pervertito, un malato, un ossessionato.
Perché Agostino dice che non si capisce se non ciò che si ama. Ed è vero, senza dubbio. Ma è anche vero che non si ama se non ciò che si conosce. Io mi sono sempre sentito un estraneo ai tuoi occhi, sarà per questo, forse, che non mi sono sentito amato, se quello che tu chiami amore a me sembrano smancerie.
Oggi non è cambiato nulla. Allora mi disprezzavi perché ce l'avevo sempre duro, oggi perché non mi viene più.
Eppure non è del tutto così. Te lo voglio dire andandomene, sapendo che non ti guarderò più negli occhi. Tu lo temevi, lo sospettavi, ed era così. Vicino a lei a me si drizzava subito.
Non lo so perché. Si dice che al cuore non si comanda, ma qui si tratta di qualcosa di più profondo, materiale, carnale del sentimento. Vederla, sentirne l'odore, il contatto con la sua pelle. Non lo so.
A me risveglia ricordi di montagne selvagge, di gente crudele e generosa, tristi poeti di un tramonto malinconico, al di là del mare. Tu vieni da una stirpe padana. Io in lei risento forse il richiamo di antichi comuni antenati, guerrieri pazzi e disperati, nomadi non ancora del tutto soggiogati all'aratro.
Ma al di là di ogni ferormone, un uomo è la propria ragione. So bene che questo per me è come l'estate di San Martino, l'ultimo bacio dell'estate. Non metto via il cappotto e non mi preparo ad andare in spiaggia. So che l'inverno ormai è alle porte.
Io la amo, vedi, più di quel che tu ami me. Perciò so anche che non posso averla. Devo lasciarla andare, devo obbligarla ad andare altrove.
Quando ci siamo sposati, io ho promesso fedeltà non solo a quella magnifica donna che eri, ma anche a questa vecchietta che sei diventata, perché l'uomo se è uomo ascolta la propria ragione. Così adesso la mia ragione mi dice chiaramente che il suo bene di lei è dimenticarmi.
Se avessimo un figlio adesso, lo crescerei come se fossi suo nonno. Lei farebbe da badante al suo compagno. Lo so, lo so bene. Non mi faccio illusioni.
Ma vado avanti spavaldo. Come il seminatore, quando va, piange portando la semente da gettare. Questo amore del mio autunno, questa mia passione fuori tempo, è la mia semente. So che non è molto. Ma so che il frutto non dipende da me. Perciò vado e piango, ma al fondo del mio pianto c'è una letizia solida. So che così faccio il mio e il suo bene.
Non so se hai capito qualcosa di me o solo quello che tu vuoi capire. Forse il tuo viso è contorto in una smorfia di disgusto e dolore, delusione.
Ripassano nella mia memoria infinite litigate: quando ti arrabbi dici di me cose terribili, come se fossi il concentrato di tutti i mostri della terra. Poi, senza soluzioni di continuità, come la cosa più naturale del mondo, mi abbracci e dici di amarmi. Spiegami come è possibile mettere insieme le due cose. Come fai ad amarmi e odiarmi allo stesso tempo? Ti accorgi, hai perlomeno un vago sospetto che le due cose non stanno insieme?
Ma io non riesco a mettere insieme i pezzi rotti: quando dici che mi ami, mi risuonano nella mente le terribili offese di poco prima. Se io sono quel mostro, che significa il tuo amore? È forse la catena del tuo cagnolino?
Ecco, sono sicuro che sei arrivata a leggere fin qui e non hai capito nulla. A maggior ragione non posso più tornare: sarebbe troppo doloroso scoprire come hai frainteso anche queste semplici cose che ti ho scritto. Quello che per me è evidente, per te è altro, oltre ogni mia fantasia.
Le cose per me belle e luminose, tu riesci ad interpretare come inganni diabolici.
Addio, amore mio.
Vado, nel vento leggero che ti racconterà per sempre gli orizzonti lontani e sgombri del mio ultimo viaggio.
Dio cè
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Online Massimo

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Re:femminicidio #4
« Risposta #2 il: Dicembre 12, 2012, 12:01:39 pm »
Amen

Offline COSMOS1

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Re:femminicidio #4
« Risposta #3 il: Dicembre 12, 2012, 12:07:17 pm »
intendi dire che ormai sono proprio irrimediabilmente fuso?

si, forse hai ragione
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Re:femminicidio #4
« Risposta #4 il: Dicembre 12, 2012, 13:32:09 pm »
Volevo dire che per quanto siano fondate le tue ragioni e sinceri i tuoi sentimenti per il femminismo e
la maggior parte della popolazione femminile le tue saranno solo delle scuse e degli schermi dietro i
quali nascondere la tua malafede, la tua mediocrità e la tua inadeguatezza. Ergo, di fronte alle donne
e a qualsiasi donna tu ti devi solo genuflettere, chiedere perdono, confessare le tue colpe e sperare
(ma solo sperare, sia chiaro) la sua comprensione e la sua misericordia. Quello che deciderà di darti
sarà per te solamente grasso che cola. E un'ultima cosa: mentre blateri le tue scuse, procura di non
annoiarla troppo per non indispettirla. Sarà più propensa a perdonarti. Perchè - è chiaro -  in quanto
maschio non puoi essere altro che colpevole. E non puoi auspicare che un giudizio di assoluzione.
Visto che oggi è la donna che assolve dai peccati, non il prete. E comunque sempre e solo giudizi
devi aspettarti dalle donne. A questo le abbiamo abituate. E a questo non vogliono rinunciare.   

Offline COSMOS1

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Re:femminicidio #4
« Risposta #5 il: Dicembre 12, 2012, 13:49:05 pm »
 ;)

hai perfettamente ragione
infatti io non scrivo per giustificarmi con le donne

è prima di tutto un bisogno mio di tirare fuori pensieri che mi covano dentro
in secondo luogo è un tentativo di confrontarmi con gli altri uomini che vivono la mia stessa condizione
se da questo nascerà un dialogo e un confronto e le donne, assistendo dalla finestra, impareranno qualcosa, ben venga. Ma non ci credo nè ci spero
 :D
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Offline Vicus

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Re:femminicidio #4
« Risposta #6 il: Dicembre 12, 2012, 14:59:08 pm »
Leggendo questo pezzo, non ho potuto non pensare: ah se le donne fossero un minimo più umili e avessero un briciolo del senno che credono di avere!
La loro presunta saggezza è egoismo e pigrizia mentale: non è altro che la ripetizione di cliché sociali che, loro così “mature”, si bevono come lattanti.
Quando capiranno che chi si crede saggio deve darne l’esempio tollerando il prossimo, e mettere se stesso al servizio degli altri?
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Offline Fazer

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Re:femminicidio #4
« Risposta #7 il: Dicembre 12, 2012, 15:52:53 pm »
Leggendo questo pezzo, non ho potuto non pensare: ah se le donne fossero un minimo più umili e avessero un briciolo del senno che credono di avere!
La loro presunta saggezza è egoismo e pigrizia mentale: non è altro che la ripetizione di cliché sociali che, loro così “mature”, si bevono come lattanti.

Infatti ringraziamo di cuore femministe e protoquemmisti per averci mostrato il vero volto dell'altra metà dell'inferno.
Non avendo (più) bisogno di indossare questa o quella maschera, si sono mostrate per quello che effettivamente sono.
Molta delusione, molta, molta delusione.  :(
E quanto dolore, una volta aperti gli occhi... :cry:

Offline JAROD72

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Re:femminicidio #4
« Risposta #8 il: Dicembre 12, 2012, 17:49:23 pm »
Anche striscia la notizia ha dato la notizia per bocca della svizzerotta hunziker. Il giorno prima ha parlato l'avvocatessa super milionaria bongiorno e ha ribadito che per gli uomini che uccidono ci vuole l'ergastolo. Ve lo ricordate il caso sollecito? Da chi era difeso? Quindi c'è da ridere.

Non dimentichiamo poi la solita stupidata della carfagna che ha ribadito anch'essa l'ergastolo per gli uomini.

Per me la michelle comunque rimane la peggiore. Dire le cose attraverso la satira è proprio rivoltante.

Offline COSMOS1

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Re:femminicidio #4
« Risposta #9 il: Dicembre 14, 2012, 11:05:32 am »
Femminicidio #7

http://cosimotomaselli.blogspot.it/2012/12/femminicidio-7.html#more

  Ebbene, cara Lorenza, grazie per avermi detto che nella mia ultima lettera avevo sbagliato un sacco di congiuntivi.
Non riuscivo a vederli, l'ho riletta un sacco di volte senza vederli. Poi sono andato a mangiare, ho ripreso il lavoro, in una pausa ho buttato un occhio, ed eccoli là, come lucertole dispettose tra un sasso e un tubo di ferro, sotto il sole a picco.
È vero, sono tante le cose su cui possiamo passare, ma sui congiuntivi no.
Tu lo sai che non sono uno scrittore, non scrivo per farmi leggere né per diventare famoso.
Scrivo per disperazione, perché ho bisogno di buttare fuori le passioni che rumino.
È da tanto che tanti riflettono sulla violenza. Oggi, leggendo i giornali e ascoltando la TV, sembra che ci sia una unica violenza superstite: la violenza contro le donne.
È una finzione, un falso, una caricatura. Ma se appena lo dici, che non c'è solo la violenza contro le donne, già ti accorgi di dire una cosa banale, evidente.
Perché la violenza non è solo quella che si vede, quella che fa notizia. La violenza è come l'acqua nella quale nuotano i pesci dei nostri progetti e delle nostre iniziative, come l'aria che respiriamo.
La violenza è la continuazione del dialogo con altre parole.
Perciò, per sfuggire a quest'aria mefitica, scrivo. Getto bottiglie al mare, mi sembra così di parlare a qualcuno. Continuo a parlare, sfuggo alla violenza perché ho ancora parole da dire.
Non so se qualcuno di là raccoglie le mie bottiglie.
Perciò mi hai fatto contento dicendomi che avevo sbagliato i congiuntivi: ma allora hai letto, almeno tu hai letto!
Voi scrittori trattate noi artigiani veneti come buzzurri, ignoranti analfabeti. Ve la ridete delle nostre giornate lavorative di quattordici ore. Quando fate i complimenti al miracolo dell'economia veneta, alla locomotiva della piccola media impresa, con una brioche in mano e il caffettino fumante davanti, sono complimenti che suonano tristemente. Quasi una burla, direi.
Noi non rispondiamo e continuiamo con le nostre giornate, come i nostri padri e i padri dei nostri padri. Non posso dire come i nostri figli, non lo so ma non credo di poterlo dire. Perché mentre noi lavoravamo, qualcuno faceva loro il lavaggio del cervello e li convinceva che i soldi cadono dal cielo, e che i soldi migliori sono quelli meno sudati.
In ogni caso, qualunque sia il mondo che verrà dopo il nostro, al momento il nostro è così. Perciò tu comprendi che per me scovare quelle maledette bestioline, i congiuntivi intendo, è questione di tempo e non solo. Anche allenamento, certo, perché io non faccio lo scrittore.
Ti ringrazio allora e già che ci sono ti dico anche che ti ammiro.
Siamo su sponde diverse, non condivido le tue idee né la tua prassi, ma ti ammiro. Quasi invidio la fede che hai nella bontà della tua battaglia.
A volte mi viene il pensiero che sarebbe giusto che io avessi una fede tanto forte nelle mie giuste battaglie quanto quella che tu hai nelle tue battaglie sbagliate. Poi ci ragiono su e concludo che non ci sono battaglie giuste: il massimo della giustizia oggi è combattere contro le battaglie sbagliate. Sì, questo forse vale la pena, su questo a volte qualcosa investo.
Nella classifica della gravità degli errori, devo dire, tu sei scesa di parecchio. La prima volta che ci siamo conosciuti ti avevo messa al vertice. Poi mi sono accorto che c'è molto di peggio: tutti coloro e tutte coloro che afferrano qualunque bandiera porti, o possa eventualmente portare, profitto.
Su questo ho l'impressione che siamo nella stessa barca. Anche tu sputi sulle opportuniste che fanno del femminismo un investimento.
Nella tua battaglia assomigli ad una Giovanna d'Arco, te lo dico con ammirazione ma non riuscirei mai a fare altrettanto. Perché non basta voler credere. La fede e la ragione devono andare di pari passo. Non si può prendere una qualsiasi bandiera perché si ha bisogno di una bandiera, di una battaglia, di uno scopo.
E alla fine devo ammettere che la tua fede nel femminismo la trovo un po' patetica. Ammiro il tuo battagliare, meno la tua bandiera.
Perché è vero. C'è una violenza contro le donne, come c'è una violenza contro gli uomini. Noi tutti siamo attori e vittime di questa violenza universale. Di questo mondo senza parole dove conta solo il potere, la forza. La forza senza la parola è violenza. La parola fa dell'essere umano un animale che può intendersi con gli altri animali parlanti sulla base di ragionamenti e principi che vanno oltre lui, che possono mettere d'accordo amici e nemici, per i quali ciascuno può sacrificare volontariamente il proprio interesse e anche se stesso.
Il nostro mondo ha fatto della parola uno strumento e anziché servirla se ne serve per i propri interessi.
Così hanno inventato quelle due nuove parole: femmicidio e femminicidio, senza curarsi della precisione della definizione. Adequatio rei et intellectus, diceva il dottore angelico. Ma che cosa è cosa: femmicidio e femminicidio non corrispondono a cose, ma ad intenzioni, a voglia di potere, a frustrazioni mai sopite, a programmi disonesti per la conquista del Palazzo.
La leva con cui hanno scardinato il linguaggio ha il fulcro su un pronome: “voi”. Senti dire: “voi uomini”, ti guardi attorno e indietro per capire di chi parlano e ti accorgi che parlano di te e dell'altro e dell'altro ancora, di una marea di persone che non hanno nulla in comune salvo, forse, un pisello.
E ti domandi come mai ci siano alcuni che, pur avendo anche loro, forse, il loro pisellino, sono già saltati nel coro che declama il: “voi uomini”. Quelli che sono nel coro, loro sì hanno qualcosa in comune tra loro: hanno cravatte colorate, giacche alla moda, scarpe lucide, mani ben curate.
Quando senti dire “voi uomini”, ti viene da dire “voi donne”. Così si comincia a parlare, e dopo ore, a volte giorni, ti domandi perché dentro sei sempre più disperato, cosa c'è che ti rode. Il fatto è che ti hanno trascinato nel loro errore, perché non esiste il “voi uomini” come non esiste il “voi donne”, e se a volte dici che una donna è più portata ai rapporti affettivi che al ragionamento, ci devi stare attento perché non è sempre così. C'è anche una Montalcini, per intenderci.
Alla fine ti accorgi che non sono parole, che credevi di parlare, ma ripetevi ossessivamente “papè satan”, perché il “voi” è una bugia, non c'è una classe, un soggetto che corrisponda alla parola “uomini” o “donne” e che abbia virtù morali o interessi materiali comuni. Non c'è, abbiamo frustato l'acqua per nulla, questo è il fatto. Nessuna punizione e nessun premio dato ad un uomo o ad una donna in quanto uomo o donna, fa fare un solo passo avanti a me o a chiunque altro o all'umanità nel suo complesso.
Se c'è una battaglia da fare, che valga la pena fare, è contro questo mezzogiorno di vuoto, questa moda di parlare senza pensare, questo vivere alla giornata, questa rincorsa ossessiva e demenziale ai propri interessi particolari.
Talvolta mi domando cosa saresti tu senza il femminismo, senza il tuo impegno politico e sociale. Mi sento allora in colpa, perché forse quelle bandiere sbagliate ti fanno migliore di come saresti senza. Perché la mia battaglia contro le battaglie e contro le bandiere non mi rende neppure un centesimo di quello che vali tu.
Alla fine sto qui, un po' incerto, cercando di non farmi travolgere dalla disperazione e dalla depressione, di ritrovare parole che risuonino di verità. Di eternità.
Alla fine sto qui e le parole che cerco, le cerco anche per te.
 
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Re:femminicidio #4
« Risposta #10 il: Dicembre 14, 2012, 11:13:27 am »
Femminicidio #8

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  In dicembre a Torino fa freddo. Accidenti se fa freddo. Non tanto perché le ore diurne sono poche, soprattutto per il vento gelido che scende dalle vette alpine, bianche all'orizzonte.
Soprattutto fa freddo in questa roulotte, improvvisato alloggio da qualche anno. Da quando Andrea ha perso la casa. O meglio da quando il giudice ha affidato le figlie alla moglie, la casa alle figlie, quindi casa e figlie e moglie di là, lui di qua.
La roulotte non ha riscaldamento. Andrea esce intirizzito e va al bar a prendere un cappuccio sfregando le mani intirizzite. Per fortuna sono uno scout, si congratula tra sé. Scout una volta, scout per sempre.
Il motto degli scout scelto da Baden Powel era “Estote Parati”: siate pronti perché non sapete né il giorno né l'ora. Per fortuna sono uno scout, e mi sono preparato. Non sapevo a cosa, non lo avrei mai immaginato che le adunate con i calzoni corti sotto la neve mi sarebbero servite ad affrontare con ottimismo questo inverno. D'altra parte se il padrone di casa sapesse a che ora arriva il ladro, non si farebbe cogliere impreparato. Bisogna essere preparati, con la cintura ai fianchi, vegliare, perché non sappiamo né il giorno né l'ora.
Per lui il giorno e l'ora è stato quando quel deficiente del giudice ha sentenziato che la moglie aveva il diritto di chiedere separazione e divorzio e le figlie avevano il diritto alla casa e a vivere con la madre. Ogni singolo passaggio è incontestabile, è l'insieme che è assurdo. Assurdo di cui non si accorge nessuno, neppure l'avvocato di Andrea.
Si sfrega le mani sopra il cappuccino fumante per assorbire un po' di calore, poi lo beve di un sorso. Scende il caldo giù nella pancia: il paradiso deve essere di poco più bello.
Poi torna alla roulotte per la toilette mattutina. Chiede per favore al barista che gli riempia un bottiglione d'acqua: quella che ha lui è ghiacciata. Con quel bottiglione si fa la barba, si lava i denti, fa una pulizia generale sommaria. Orgoglioso di essere uno scout.
La vita realizza i sogni della giovinezza. Per lui lo scoutismo era stato tutto e tutta la sua vita ne dipende anche oggi. Aveva conosciuto la moglie perché era andato in Polonia, al pellegrinaggio a Czestochowa, a ferragosto, la festa dell'Assunzione di quindici anni prima.
Prima della caduta del muro, gli avevano raccontato, al pellegrinaggio estivo partecipava tutta la Polonia, era la manifestazione dell'orgoglio nazionale. Dopo l'89 pian piano era diventato un ritrovo di preti e nostalgici. Ma era ancora un grande evento, un evento di popolo come da noi in Italia è difficile vedere.
Con il suo gruppo scout fecero la tratta più lunga, trecento chilometri a piedi da Lublino al santuario della Madonna Nera, in tenda. In quei dieci giorni conobbe Malgorzata, Margherita.
Le donne polacche sono fantastiche. Bionde, in carne, romantiche, determinate. Margherita era la sintesi di ciò che lui considerava il meglio della Polonia, dello spirito triste e nostalgico della Polonia. Nei suoi occhi e nella sua voce rivedeva l'orgoglio e la passione dei re santi jagelloni, della lunga attesa di una rinascita nazionale, il sacrificio dei suoi ufficiali massacrati dai sovietici.
Si innamorarono guardandosi negli occhi, perché Margherita imparò l'italiano solo dopo e quando si sposarono non lo parlava ancora bene. Lui il polacco non lo aveva mai imparato. Solo qualche parola, per ringraziare dziekuje, per dire buon giorno dzien dobri. Così.
Era stato un grande amore, soffriva Andrea al ricordo.
Si sono sistemati a Torino, in una casa lasciata dai genitori di lui. Lui lavorava, lei imparava l'italiano, ebbero due figlie.
Avevano un bel giro, gli scout sono una grande famiglia, a cena avevano spesso amici. Anche lei aveva qualche contatto con connazionali polacchi in città. Ma raramente, quando si prende una strada, si sanno pesare tutte le difficoltà. All'inizio ogni sentiero è bello, talvolta anche la meta. Ma tra l'uno e l'altra c'è la fatica.
Margherita era spesso sola, le telefonate e le chat con i suoi parenti non le riempivano la giornata. Voleva uscire, lavorare. Bene.
Andrea sistema la cravatta, prende sotto braccio la sedia e la Bibbia e si avvia verso casa sua, quella cioè che era ancora casa sua ma dove vivevano la moglie e le figlie. Tra poco sarebbero uscite per andare a scuola e uscendo gli sarebbero corse incontro e lo avrebbero salutato e baciato. Questo a lui serviva per lavorare anche oggi, su e giù per Torino con il camioncino della ditta e i pacchi da consegnare e ritirare.
Sua moglie invece avrebbe affrettato il passo algida e indispettita per il contrattempo.
Come era accaduto che la loro storia d'amore si fosse consumata? Chi lo sa? Già è difficile comprendere una donna con cui sei cresciuto insieme, che parla la tua lingua, ha le tue abitudini, mangia i tuoi minestroni. Cosa si aspettava Malgorzata attraversando le Alpi lui poteva solo immaginarlo. Forse non si aspettava che la vita fosse dura anche qui, che anche qui i soldi si dovessero sudare e il tempo se ne andasse consumando le nostre speranze. Forse alla soglia dei quaranta anni considerava la pelle che perdeva elasticità, le rughe che apparivano ai lati degli occhi, il seno che si afflosciava e si domandava quali occasioni dunque stava perdendo.
Giunto davanti a casa sua piazza la sedia sull'aiuola di lato al marciapiede e apre la Bibbia.
Mentre cerca un passo da leggere, un'auto della polizia si ferma davanti a lui, con il finestrino abbassato. Ascoltano RAI3, la trasmissione del mattino di lettura dei giornali, questa settimana i giornali sono letti e commentati da Concita de Gregorio. Ex direttore dell'Unità, il giornale fondato da Antonio Gramsci.
Donna intelligente, accidenti. Pensa Andrea. Se la potrebbe cavare egregiamente anche con una abbondante scollatura e le gambe accavallate in qualche affollato talk show. Forse l'intellettuale sardo non riposava molto bene sapendo il suo giornale in simili mani, ma questa è la vita, che cosa vuoi lamentarti Andrea?
Proprio perché la Concita è intelligente è stupefacente considerare come sia al servizio del male e dell'inganno. Il velo e il non velo sono entrambi segni dell'espropriazione del corpo femminile aveva scritto. Andrea guardava il marciapiede ghiacciato e si sentiva scoraggiato, disperato. Gli caddero gli occhi su quel passo di Matteo: “A chi paragonerò questa generazione? La paragonerò a quei bambini che stanno negli angoli delle piazze e dicono: vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto”. La de Gregorio è l'emblema di questa generazione, una delle manifestazioni del demonio. Se le donne portano il velo è perché il maschilismo le opprime. Se vanno dal parrucchiere tutte le settimane e mostrano tette e gambe, è sempre il maschilismo che le opprime.
Sono quasi le otto e un quarto, sente i passi delle bambine che scendono le scale di corsa. Alza gli occhi e controlla che non ci siano auto in arrivo. Le due bambine, di cinque e sette anni, bionde, con le guance bianche e rosse come la madre, gli corrono incontro. Si abbracciano, scambiano qualche parola, qualche raccomandazione, fate le brave, studiate.
Partono di corsa, di nuovo, dietro la madre che le chiama con voce stridula.
Andrea le guarda allontanarsi.
Una mano lo scuote ad una spalla. I poliziotti sono scesi dall'auto, uno gli sta parlando.
«Signor Andrea, lei non può sostare qui. La prossima volta saremo costretti ad arrestarla».
«Arrestarmi? E perché mai? Questo è suolo pubblico, non faccio male a nessuno!»
«Signor Andrea, c'è un provvedimento del magistrato. Sua moglie l'ha denunciato per stalking, dice che questo comportamento la mette in ansia e danneggia l'equilibrio psicologico delle bambine».
Andrea guarda il poliziotto con gli occhi lucidi, non sente più i piedi congelati, non sente più nulla e non ha più nulla da dire.
«Mi consenta un giudizio personale» aggiunge l'altro «non mi sembra un comportamento molto equilibrato. Lei qui, su questa sedia, con una bibbia in mano. Dà l'impressione di un fanatico. Guardi, ascolti un consiglio, non venga più. Il giudice non potrà farsi una opinione positiva di lei se si comporta così».
Andrea tace.

 
 
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Re:femminicidio #4
« Risposta #11 il: Dicembre 14, 2012, 19:12:14 pm »
Femminicidio #9

http://cosimotomaselli.blogspot.it/2012/12/femminicidio-9.html#more

 
Tutte le commesse sono infuriate per l'apertura domenicale dei supermercati.
Sembra una questione di genere: si trovano a protestare e sono tutte donne.
In generale ragazze giovani, ma a volte con qualche anno in più.
Agata ha cinquantadue anni, corpo tozzo, capelli castani. Una antica bellezza le risplende ancora negli occhi e sulle labbra.
Deve lavorare. Ne farebbe volentieri a meno ma la ditta di trasporti del marito non rende abbastanza per essere tranquilli.
Perciò lavora come cassiera al supermercato.
Come tutte le altre è arrabbiata. La domenica vorrebbe restare a casa. Non è una questione religiosa, infatti lei a messa ci va di rado. A volte le è capitato di non andarci neppure a Natale o Pasqua.
Non è neppure per seguire i figli: ha una figlia sola di trent'anni che vede raramente.
Neppure per fare le faccende di casa o per occuparsi del marito. Suo marito, Giacomo, ha cinquantacinque anni e poca passione. Quando è a casa si piazza davanti alla televisione. Non fa altro. Talvolta a letto fa qualcosa di più, ma non molto.
Lavorare la domenica è triste, deprimente. La settimana scivola via che neppure te ne accorgi, e ti chiedi se hai vissuto o hai solo sognato di vivere. Almeno la domenica vorrebbe essere libera di non fare nulla. Di vedersi con le amiche o di andare per vetrine.
Va bene, è un cane che si morde la coda. Le piacerebbe andare per vetrine e magari, a volte, entrare e comprare. Ma se lei entra e compra, qualcuno deve pur lavorare e tenere aperto il negozio.
Sia pure: la domenica fai un giro in centro a guardare le vetrine e basta. Se vedi qualcosa che ti piace, torni un giorno feriale. Così quadra, ma quadra solo nella sua testa, perché sembra che stiano tutti facendo a gara a tenere aperto sempre. Tra un poco anche la notte.
Discutendo con un sindacalista quello le diceva che ormai i supermercati vendono il sabato e la domenica di più di tutti gli altri giorni messi insieme. Potrebbero chiudere il lunedì o il martedì o anche sia lunedì che martedì e, perché no? anche mercoledì.
Che mondo pazzo considera Agata.
Lei ha solo bisogno di un po' di soldi. A cinquanta anni suonati non hanno grandi necessità. Si sono abituati a non fare ferie, a non uscire a cena. L'affitto, le bollette, il mangiare, qualche vestito ogni tanto. Punto.
Perciò, per quanto sia arrabbiata, se il supermercato aprirà la domenica, lei lavorerà la domenica. Punto. A capo.
In questa domenica di dicembre a lei tocca il turno pomeridiano, dalle quattordici alle ventuno. Il posteggio è già quasi pieno, lei lascia l'auto e si avvia all'ingresso, senza fretta: ha ancora una manciata di minuti a disposizione.
Saluta il barista simpatico del piano terra, sale con la scala mobile al primo piano, va a cambiarsi nello spogliatoio.
Le casse sono tutte in fila, lei dà le spalle alla cassiera prima  e vede le spalle di quella dopo.
Passa i prodotti sopra il lettore ottico e sta attenta che il bip sia quello giusto. Incassa. Avanti un altro.
Cerca di sorridere, alcuni giorni è più facile, altri meno.
I clienti non hanno un volto, sono tutti anonimi. La domenica si vedono più uomini, ma la maggioranza comunque sono donne anche la domenica, già. Donne che come lei devono tirare avanti la baracca facendo i conti e confrontando i prezzi, attente ad ogni spesa inutile.
Ogni tanto passa la caporeparto a controllare, ma da lei va raramente. È la più matura, non ce n'è bisogno. Quella che lavora nella cassa dopo di lei, di cui vede la schiena e i folti capelli rossi, ha da poco fatto venti anni. È il perfetto esemplare di oca giuliva. Sempre a caccia di pollastri, per lei i clienti non sono tutti uguali. E alla sua cassa, guarda un po', la percentuale di uomini in fila è superiore rispetto a tutte le altre. Uomini spesso con carrelli mezzi vuoti, vedi un po'.
D'altra parte con quelle tette che scoppiano sotto la divisa, è naturale.
Tra le colleghe gira voce che sia andata a letto con il direttore. Forse sono voci maligne, Agata non ne vuole sapere e non dà corda a coloro che vi accennano. In ogni caso, anche se fosse, sono affari suoi. Quello che a lei, Agata, importa, è che non le metta i piedi sopra la testa e al momento non sembra avere alcun grillo in quel senso. Se anche avesse trombato con il direttore, non ne ha tratto alcun vantaggio lavorativo, almeno per quel che lei può sapere. Perciò hanno un buon rapporto, loro due. Scherzano volentieri, quando si incrociano, si fanno favori quando una ne ha bisogno. Il favore più comune è un cambio turno, all'altra interessa spesso essere libera il sabato pomeriggio, e anche la domenica mattina. Poi la domenica pomeriggio viene senza far storie, non più di tutte in ogni caso.
Passano i carrelli davanti alla cassa, passano i prodotti sul nastro trasportatore, passano le ore della domenica pomeriggio. Suo marito starà seguendo le partite in tv, suppone lei. In frigo c'è qualcosa da scaldare per la sera, forse lui la aspetterà, o forse mangerà prima e poi farà un salto in osteria. Da domani si ricomincia una settimana che non è mai finita.
Si riempie il sacchetto, via uno, sotto l'altro. Una signora bionda, una coppia di mezza età, una ragazzina col collo lunghissimo come una giraffa.
La bionda torna indietro con la faccia truce e lo scontrino in mano. La assale mentre sta ancora passando gli acquisti di un cliente. Ha sbagliato a fare il conto, dice. Lei non ha comprato dodici bottiglie di whisky ma due di birra.
Agata le chiede per favore di attendere un momento. La signora urla come un'isterica che non ha tempo e questi sono errori inammissibili.
Siamo d'accordo, dodici bottiglie di whisky non possono essere scambiate con due di birra. Va bene, sistemiamo subito, ma mi permetta di servire questi signori, poi sarò subito da lei.
Non c'è niente da fare, quella continua ad urlare, è una cosa che non le era mai successa, ma chi le ha dato quel lavoro, con chi è andata a letto per riuscire a scaldare quella sedia. Agata si chiude in un mutismo impermeabile, consegna lo scontrino ai clienti che stava seguendo, registra l'incasso con il bancomat.
La bionda continua ad urlare.
Agata sente la caporeparto alle proprie spalle. Si volta a guardarla con gli occhi lucidi. La caporeparto prende in mano la situazione, controlla lo scontrino, la borsa della spesa della signora, restituisce i soldi, si scusa.
Poi si gira verso Agata: «Vedo che sei stanca, non ti preoccupare, vai a casa, qui finisco io».
Agata si avvia allo spogliatoio, si cambia, poi al parcheggio riprende l'auto e torna a casa.
Ha ancora nella testa le urla della bionda, sente su di sé gli occhi delle colleghe, soprattutto della rossa, gli occhi dei clienti, quasi che il mondo si fosse fermato per divertirsi guardandola.
Arrivata a casa cerca di parcheggiare nel solito posto, ma è occupato. C'è una ford fiesta rossa. Le sembra di averla già vista quella macchina, ma non ci fa caso. Si ferma qualche metro più in là, prende le chiavi dalla borsetta e sale al suo appartamento.
Appena entrata sente dei rumori dalla stanza da letto. Sopra pensiero apre la porta e impiega qualche secondo per rendersi conto di ciò che vede. Il marito sta sbuffando e agitandosi sopra una ragazza mora, dalle lunghe gambe abbronzate che lo avvinghiano. La conosce bene: è la sua segretaria, trent'anni grosso modo.
Agata è paralizzata, una mano sulla maniglia della porta, la borsetta nell'altra, il cappotto mezzo sbottonato.
La segretaria la vede e urla, il marito si blocca, l'altra balza giù dal letto, afferra i vestiti e fugge via. Passando dalla porta la urta senza dire nemmeno una parola. Il marito si è girato e la guarda con la bocca aperta e gli occhi vuoti.
Agata si siede sulla sedia e tace.
Potrebbe essere sua figlia.
 
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Re:femminicidio #4
« Risposta #12 il: Dicembre 15, 2012, 08:34:16 am »
dalla discussione su facebook a proposito di Angelo di Torino (femminicidio #8)
Citazione
Caro Sergio. Io passavo davanti a casa mia, guardavo le luci, cercavo di scorgere le ombre proiettate sulle pareti delle mie bimbette. Iniziavo a piangere e il freddo me le bloccava sul viso. Tornavo in una stanza rimediata con lo scooter, la macchina l'avevo data a lei pagando io il passaggio di proprietà. Come tutto nella speranza che tornasse indietro. Invece niente, ha cambiato città e si è messa in casa l'ex fidanzato di 20 anni prima, ricco da paura, anche lui separato ma senza figli. Lei gli ha dato il mio ruolo di padre, come se io fossi morto o meritassi un ergastolo senza reato. Io sono riuscito a trasferirmi, ho preteso di avere un rapporto con le mie figlie. Ho scritto e-mail di protesta, anche incazzate, quando una delle bimbe è finita dallo psicologo. Il referto diceva che la bimba soffriva di confusività emotiva dovuta alla poca chiarezza dei ruoli, delle figure di riferimento. Ma va? Allora la madre mi ha fatto fare un ammonimento per stalking dal questore. Loro non mi hanno nemmeno chiamato, Non hanno voluto avere i miei documento. Ho fatto ricorso al Prefetto allegando almeno 70 pagine di sue e-mail offensive e provocatorie. Di miei ricorsi al tribunale per i minori, denince per le aggressioni verbali di quel tipo che si arrogava il mio ruolo.  So bene che ci vuole un altro ricorso. E poi un altro ancora. E' una questione di giustizia, di verità. Io non ci sto. Ma se andiamo così, in ordine sparsom non si ottiene niente, Ci vuole coesione e un'unica regia.

perchè la realtà supera sempre la fantasia  :wacko:
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Re:femminicidio #4
« Risposta #13 il: Dicembre 15, 2012, 15:07:46 pm »
Femminicidio #10


  Giacomo guardò il miscelatore della doccia e si domandò se l'avrebbe girato verso il bollino blu, a destra, o verso quello rosso, a sinistra.
Era rientrato tutto infreddolito quella sera di Dicembre e pregustava una bella doccia calda.
Nel valutare la direzione del miscelatore entravano in gioco, ovviamente, tante considerazioni. Un filo, lungo forse, anche non troppo diretto magari, ma certo tuttavia, legava quel miscelatore alla deforestazione dell'Amazzonia, per esempio.
Per scaldare l'acqua è necessaria energia, e questo fatto in qualche modo ha delle ripercussioni fin laggiù, perché tutto è legato lo sappiamo. Nessun uomo è un'isola, tutto ciò che noi facciamo interferisce su tutto ciò che esiste. Gli ipocriti vanno a marciare contro il surriscaldamento globale lo scioglimento dei ghiacciai, l'estinzione delle balene e la guerra per il petrolio irakeno, ma nella loro vita quotidiana rinforzano quel sistema che combattono a parole.
Il bocchettone della doccia lo fissava minaccioso pronto a lanciargli addosso acqua gelida per la quale lui tremava in anticipo. La pigrizia è il peggiore dèmone del corpo, contabilizzava Giacomo.
Tutti gli altri hanno risvolti positivi o comunque limiti intrinseci. Essendo vizi attivi, se non altro, se non li fai, fai bene.
Ad esempio l'avarizia, per quanto sia brutta e per quanto gli avari abbiano una ben triste sorte nell'Inferno di Dante, ha almeno questo di positivo: ciò che l'avaro lascia agli eredi. I palazzi veneziani sono pieni delle meraviglie realizzate dai figli degli avari con l'eredità ricevuta. La Cappella degli Scrovegni a Padova servì ad un avaro per chiedere perdono. La nostra purtroppo è un'epoca che ha fatto dell'avarizia una virtù. La chiamano economia, profitto, successo. Gli avari anziché nascondersi, gonfiano il petto nei talk show, si offrono come esempio. Vengono additati e ammirati come esempi da imitare. In ogni caso, quando l'avaro prende atto del male che spande attorno e del male che ha dentro, può dichiarare sciopero e con ciò stesso si libera dalle proprie catene.
La gola è meno di moda. Almeno nella propria versione più volgare. Certo i grandi cuochi vengono ammirati e imitati, come i grandi avari, anziché essere sfuggiti come sacerdoti di riti ignobili. Ma in generale oggi è più facile incontrare persone a dieta perenne che golosi incalliti.
Per la lussuria invece siamo in un'epoca d'oro. Forse all'orizzonte c'è qualche nube oscura, ma al momento siamo nel pieno meriggio. La lussuria senza alcun limite, né di liceità né di responsabilità. Nessun rapporto viene ritenuto illecito a priori. E nessuna conseguenza ci si attende da alcun rapporto: i figli oggi non capitano, i figli si scelgono, si fanno. Qualche sassolino nell'ingranaggio a dir la verità c'è: andare a prostitute non aumenta la popolarità dei personaggi pubblici né dei singoli cittadini.  Ad ogni modo anche la lussuria, come vizio, deve cedere il passo alla pigrizia, perché qualche cosa di positivo lo porta. Dire ad una donna: “ti amo” è bello. I figli, se vengono, sono comunque scintille d'infinito, che siano a non siano legittimi e riconosciuti. E poi se non basta la saggezza, per rinunciare alla lussuria di solito l'età supplisce.
L'invidia poi è sicuramente peggio della lussuria. Perché si fa poca fatica ad invidiare e poi perché ha pochi aspetti positivi. Ma almeno un vantaggio lo porta anch'essa: l'invidioso viene pungolato a darsi da fare per ottenere ciò che invidia. Tuttavia deve stare attento, l'invidioso, a non dar vista di sé, perché, per fortuna, non gode di grande reputazione.
Al contrario l'ira oggi è in fase di popolarità crescente: hanno addirittura inventato una nuova formulazione, la chiamano “assertività”. Devi affermare te stesso, imporre te stesso, essere convinto del tuo punto di vista e delle tue qualità. Tutti atteggiamenti contrari a quello che l'ascesi medioevale insegnava e condannava ritenendoli radici dell'ira. In ogni caso anche l'ira ha i suoi argini, perché non ci si può sempre scontrare con tutti, e talvolta la mitezza, se non viene dalla saggezza, viene dal desiderio di quieto vivere.
Allo stesso modo la superbia viene arginata dall'esperienza: smetti di darti arie quando hai subito abbastanza sconfitte.
La pigrizia è peggio di tutti questi dèmoni. Infatti non ha argini né limiti. Non c'è nulla che un pigro non riesca a non fare. C'è sempre qualcuno abbastanza intelligente o astuto in grado di scoprire una nuova scorciatoia, un nuovo angolo abbastanza nascosto dove non far nulla, un nuovo modo per far lavorare gli altri fingendosi oberato di impegni. Soprattutto però la pigrizia è peggio perché non ha nessun aspetto positivo, non produce e non produrrà mai alcunché di buono per nessuno.
La pigrizia spinge la mano di Giacomo verso il bollino rosso, lui lo sa e tenta di resistere.
Perché ogni giorno bisogna combattere la propria battaglia e quando cominci a scendere la china, ogni passo rende più difficile la risalita. Se non ti fermi subito, domani dovrai fare doppia fatica. È più facile sradicare un germoglio che una grande quercia.
Lanza del Vasto racconta di un generale il quale, preso da compassione per i propri soldati, decise di coccolarli, evitando loro le faticose marce sotto il sole o la pioggia, le guardie al gelo, le pericolose esercitazioni. Quando arrivò il nemico, i soldati si inciamparono nei propri fucili e si incastrarono nei propri equipaggiamenti, dopo di che si diedero alla fuga. Il generale li supplicava, come un buon padre di famiglia, di volgersi indietro e di mostrare coraggio, ma restò da solo sul campo di battaglia.
Perché, per essere preparati quel giorno, bisogna prepararsi ogni giorno e anche questa doccia è una preparazione.
Se io giro verso sinistra, nessuno lo saprà mai, nessuno avrà motivi per biasimarmi, pensava. Se giro verso destra, chi lo sapesse, mi prenderebbe in giro, in ogni caso non mi loderebbe. È vero che dell'opinione altrui a Giacomo interessa poco. Resta il fatto che una bella doccia calda è un piacere che nessuno si permette di criticare.
Giacomo ha a che fare con la propria coscienza, con le proprie convinzioni, ed è a questa e a queste che sta rendendo conto.
Una voce gli sembra di ascoltare, nel vento che spinge la pioggia contro i vetri della finestra: “comportati da uomo”. A quaranta anni suonati sente ancora la voce di suo padre, morto da quindici. Le sue ultime parole.
Che differenza c'è con una donna? Si mise quasi ad urlare. Perché dobbiamo essere ingabbiati in questi schemi sessisti, in questi ruoli stereotipati? Perché un uomo deve affrontare con decisione le prove della vita, mentre una donna dovrebbe potersi permettere chissà quali cedimenti?
A dir la verità anche l'espressione simmetrica “comportati da donna” ha un suo risvolto energico, un invito a raddrizzare la schiena e ad affrontare con coraggio le avversità.
Ciascuna delle due esortazioni, rivolta al sesso giusto, è come un indice puntato in alto: là devi andare. Dire ad un uomo: “ti stai comportando da donna” è tanto umiliante quanto dire “ti stai comportando da uomo” ad una donna. E neppure questo è del tutto vero: ci sono condizioni nelle quali, in mancanza di meglio, una donna che assume un ruolo da uomo o viceversa vengono elogiati.
In ogni caso Giacomo sta combattendo con quella esortazione e quella voce che soffia nel vento.
Perché è facile lasciarsi andare, facile smettere di lottare. Mentre lui va cercando un aiuto per continuare, per combattere ancora.
Perché se non c'è da qualche parte un argine, se la pigrizia ti convince a demistificare ogni tabù, a canzonare ogni scrupolo, a tralasciare ogni fatica e ogni sudore, chi si opporrà alla tenebra che avanza?
Chi negherà il diritto del potente sul debole?
Chi negherà la giustizia del cinico?
Giacomo guarda il miscelatore della doccia.
 
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Re:femminicidio #4
« Risposta #14 il: Dicembre 16, 2012, 18:28:43 pm »
 Femminicidio #11





Rabindra girò tra le mani i sandali di corda che aveva aggiustato e ne rimase soddisfatto. Poi li calzò per vedere se si adattavano bene ai piedi o se gli davano qualche fastidio.
Infine si alzò, completamente nudo nel freddo sole dell’Himalaya. Quei sandali di corda erano il suo vestito da almeno cinque anni. Si stupì di andarne fiero, come se si fosse servito direttamente da Gucci o Armani. Poi prese la forcola e si avviò al lavoro quotidiano.
Più o meno cinque anni. Sì, grosso modo, perché per lui il tempo non ha mai avuto un grande significato. Un anno o un secondo non contano nulla di fronte all’unico istante nel quale comprendi il senso della tua vita. Aveva contato in modo approssimativo gli anni riandando con la memoria agli inverni passati e al nome che aveva dato a ciascuno: il gran freddo, i vagabondi, gli uccelli affamati, la neve sottile, la prima strada.
Grosso modo quindi da cinque anni lavorava a quella strada, un tempo semi abbandonata, ne aveva allargato le corsie, rinforzato il ponte di corde che attraversava il torrente incassato tra le rocce. Buffo che un ingegnere informatico, quale lui era, dedicasse la propria vita a strade e ponti. E a tessere i propri sandali, sorrise. Buffo e difficile da prevedere quando trenta anni prima era partito dalla sua città natale, nel Guayarat meridionale, per andare a studiare in America.
In quelle grandi solitudini aveva ripensato tante volte alla sua vita: si riteneva molto fortunato ad aver vissuto così intensamente, ne andava fiero. Laureato molto bene in ingegneria informatica, aveva avviato una attività in società con alcuni ingegneri americani. Loro gestivano il sistema informatico di alcuni ospedali: di giorno i radiologi americani facevano le radiografie e le archiviavano nel server della società. Di notte, quando in America è notte ma in India è giorno, i tecnici della sua società tiravano fuori le radiografie dal server, le facevano refertare ai medici indiani e le riponevano entro la sera dove le avevano trovate. La sera, quella che in India era la sera ma in America era mattina, gli impiegati della società americana stampavano radiografie e referti e le consegnavano ai pazienti. Era un ottimo business.
In quegli anni aveva conosciuto Anna, una italiana che lavorava come ricercatrice in ospedale. Si erano innamorati, fidanzati, sposati. Poche parole per descrivere un percorso molto più accidentato. Perché per sposarla Rabindra aveva dovuto combattere contro la propria famiglia. I genitori erano intellettuali emancipati, non prendevano molto sul serio il sistema delle caste e tutto il resto della tradizione religiosa indù. Ma per quanto di larghe vedute non approvavano che lui prendesse una decisione così importante senza la loro supervisione. A posteriori ammetteva che avevano ragione.
Allora invece era giovane e presuntuoso. Si sposarono in Italia. Lui dovette farsi battezzare perché lei era cattolica e voleva assolutamente sposarsi con un lungo abito bianco. Il prete gli domandò se credeva in Gesù Cristo. Ovvio, che domanda, certo che ci credeva. Si dimenticò tuttavia di chiedergli se credeva anche in Shiva, Vishnu, Buddha, Maometto. Non c’è alcun dubbio: lui credeva e crede che tutto ciò che è, è; così come tutto ciò che non è, non è. Non c’è alcun motivo per credere al Dio dalla testa di elefante e non al Dio morto in croce. Sono tutte manifestazioni dell’immenso, del sempre presente e sempre sfuggente Tutto.
Ad ogni modo il prete non approfondì troppo, lo battezzò e li sposò. Poi si trasferirono in India, dove la sua azienda cresceva giorno per giorno.
Ma Anna non si adattava. La famiglia di lui era molto accogliente, forse da parte di alcuni cugini c’erano delle resistenze: disapprovavano il battesimo e che lui adesso frequentasse la chiesa cattolica, erano induisti convinti e puristi. Ma in generale il clima era molto aperto e accogliente. Tuttavia Anna non legava, era sempre un po’ sulle sue.
Ebbero due figli e quando questi ebbero circa cinque, sei anni, lei si impuntò che voleva tornare in Italia. Non era per il lavoro: lì lavorava in una succursale della sua azienda, di cui lei era titolare, che gestiva i rapporti con i medici dell’ospedale. Il fatto è che voleva che i figli imparassero bene l’italiano e crescessero in Italia.
Acquistarono perciò un grande appartamento in Campo dei Miracoli, a Firenze. Splendido panorama, davvero. Lei ritrovò le sue vecchie amiche, molto cambiate. Si reinserirono, lui imparò l’italiano, il suo business si adattò e crebbe ancora. Nuove opportunità da cogliere, nuovi stimoli e nuove idee.
Gli ultimi cinque anni su quella strada lo avevano obbligato a ripercorrere migliaia di volte la storia del suo matrimonio. Ancora però non riusciva a spiegarsi cosa fosse passato per la mente della moglie, che divenne ogni giorno più insofferente. Per quanto lui si sforzasse di accontentarla, lei era sempre infelice, insoddisfatta, piena di accuse e recriminazioni. Come se lui fosse la colpa di tutto il male che gravava sul mondo.
Anche in India, certo, talvolta capita che i coniugi litighino. Ma Rabindra in ogni caso era spaesato: la moglie aveva una mancanza di rispetto a cui lui non riusciva in alcun modo a rispondere. Non aveva spiegazioni. Di quel periodo ricordava alcuni episodi, perché lo segnarono e lo portarono dove era adesso.
Un giorno, dopo la messa, lui era in ginocchio, raccolto in silenzio. Attorno per ogni dove, vicino all’altare come verso l’uscita, era tutto un vociare di donne. Donne in pelliccia o in colorati cappotti di marca, donne con pettinature vaporose, con gioielli sulle spalle nude, donne con vistose minigonne. Sembrava di essere al mercato. Tuttavia lui si era fatto la sua bolla, non sentiva nulla, era lui da solo con l’Eterno. Suo figlio piccolo lo strattonò: “eddai papà, ci muoviamo?”. La moglie chiacchierava vicino all’uscita e lo aspettava impaziente. Uscendo si trovò a domandarsi per quale ragione nelle chiese cattoliche alle donne viene data tanta libertà di movimento. Perché non c’è uno spazio riservato agli uomini, dove sia possibile raccogliersi davvero senza distrazioni. Spesso vedeva le donne girare addirittura attorno all’altare con la massima insolenza.
Un’altra volta, ad una messa di Natale, a mezzanotte, sentì leggere una lettura nella quale un tale diceva: “Preparate le strade al Signore, raddrizzate i suoi sentieri”. Sarebbe stato bello, pensò tra sé, preparare la strada del Signore e aspettarlo, e quando lui fosse arrivato con il suo carro di fuoco, prostrarsi a terra e dirgli: ecco la strada che io ho preparato per te. Fu un attimo, quell’immagine fu davanti agli occhi e poi se ne andò. Rabindra per anni si domandò quali fossero le strade che lui doveva preparare. Lo domandò a tutti i pret i che incontrava, ma quelli lo guardavano perplessi e rispondevano per enigmi. Le strade del cuore. Ma dove sono queste strade? Come si preparano? Nessuno gli rispondeva in modo chiaro. Prega, gli dicevano, e troverai le risposte che cerchi.
In quei tempi  era sempre in giro per il mondo. Partiva il lunedì per Delhi, da lì ripartiva il mercoledì per Washington. Il sabato scendeva a Fiumicino. Ripensandoci si rammaricava che la moglie negli anni fosse sempre più secca e scorbutica, ma a quei tempi non ne avesse tratto alcun avvertimento.
Finché un sabato, scese dal treno a Firenze Santa Maria Novella, prese un taxi e arrivò a casa. Infilò la chiave nella toppa, ma la chiave non girava. Tentò per dieci minuti, suonò il campanello, bussò, ma non ci fu nulla da fare. Restò sulla porta. Chiamò al cellulare la moglie: questa gli rispose che era ora che si trovasse un’altra sistemazione. 
Rimase senza parole, girò sui tacchi e andò a dormire in un albergo vicino. Lunedì contattò un avvocato, nel pomeriggio parlarono a lungo. Il giorno dopo fissarono un appuntamento da un notaio con la moglie e l’avvocato della moglie.
Lui arrivò per primo, sedette nella stanza che sapeva di antico e di carte polverose. Nel giro di qualche decina di minuti arrivarono anche il suo avvocato, Anna e l’avvocato di lei. Anna e il suo avvocato aspettavano impazienti e curiosi di conoscere la sua proposta. Il notaio entrò con un pacco di carte. Rabindra le aveva già firmate, per cui le sporse ad Anna. L’avvocato di lei le prese e le scrutò sgranando gli occhi, poi li porse alla sua cliente invitandola a firmare. Rabindra le lasciava tutte le proprietà compresa l’azienda informatica in India.
Lei firmò, poi si alzarono e si salutarono. Rabindra lasciò una busta con un assegno al proprio avvocato e al notaio, scese all’albergo, prese la valigia e si diresse alla stazione. Andò a dormire alla casa paterna per una settimana. Poi salì sulle strade dell’Himalaya. Sapeva di un rishi che viveva nudo sulle rive del Gange. Lo trovò e sedette dinanzi a lui in silenzio, dopo aver posato dei fiori per terra.
Restarono così qualche ora. Il sole tramontava quando il vecchio disse, in un soffio di voce: “c’è un sentiero, lassù sulla montagna, tra due villaggi, che scavalca un profondo torrente. Nessuno lo cura e la gente fatica a scendere a valle”.
Rabindra sentì i le lacrime solcargli le guance, si prostrò davanti al rishi e si girò avviandosi per la strada che quello gli aveva indicato, senza voltarsi.
Usò i suoi ultimi soldi per comprare una motosega, un decespugliatore, attrezzi per il bosco, corde, carburante. Si fece un riparo ad una curva della strada indicata e cominciò a tagliare alberi e a riempire buche. In tre mesi i cinque chilometri di strada erano di nuovo percorribili anche con i carri o con le auto. C’era, è vero, il blocco del ponte di corda sul torrente. Lui lo aveva riparato ed era davvero un bel ponte, caratteristico. Ma non poteva sostenere carri né veicoli a motore. Per cui anche coloro che arrivavano fin lì con quei mezzi, a quel punto scendevano e proseguivano a piedi.
Con tutta la legna tagliata aveva fatto grandi cataste sui bordi della strada. Di tanto in tanto gli abitanti del villaggio a valle o di quello a monte, ne prendevano su qualche ciocco, senza dirgli nulla. E lui ringraziava.
Un giorno, cinque anni prima, mentre era poco distante a tagliare ramaglie con la forcola, alcuni mendicanti gli rubarono la motosega e il decespugliatore. Lui li vide e si mise ad inseguirli. Loro scapparono, ma il peso degli attrezzi li rallentava, così li raggiunse presto. Loro posarono gli attrezzi a terra e si disposero ad affrontarlo. Giunto davanti a loro affannato, si fermò e li guardò in volto. Poi si tolse la giacca e la diede ad uno, i pantaloni all’altro, la camicia al primo, le scarpe al secondo, gli indumenti intimi e i calzini. Completamente nudo, si girò e tornò al propri lavoro.
Da allora era vissuto così. Unico lusso: si era fatto dei sandali di corda. Da quel giorno gli abitanti del villaggio di sotto cominciarono a portargli un piatto di riso, ogni due o tre giorni. Allo stesso modo quelli del villaggio a monte. Quando non veniva nessuno, mangiava radici o bacche del bosco, o digiunava e ne traeva gran profitto.
Qualche tempo dopo vennero a trovarlo i parenti. La madre, i fratelli, i cugini. Si sedettero davanti a lui e si guardarono a lungo. Un cugino si avvicinò e cominciò a bisbigliargli nell’orecchio che sua moglie, Anna, aveva portato la sua azienda al fallimento, per cuiil cugino l’aveva rilevata e rilanciata e adesso…  Rabindra lo guardò negli occhi, il cugino si interruppe di colpo, arrossì e tornò a sedere dietro a tutti. Rimasero così ancora un’ora abbondante, poi si alzarono, gli si prostrarono davanti, e se ne andarono senza voltarsi, lasciandogli tanti fiori sparsi per terra.
Allo stesso modo vennero dei poliziotti. Si sedettero e gli chiesero il nome. Lui rispose con nome e patronimico. Loro presero nota. Rimasero ancora un bel po’ in silenzio, poi si alzarono, si inchinarono a baciargli i piedi e se ne andarono.
Erano passati cinque anni. Non era più stupito di aver superato l’inverno sulla montagna completamente nudo, aveva imparato a regolare il respiro, a dormire cullato dagli alberi e dal vento. Ascoltava la voce di Colui che viene e attendeva.
Pensava spesso alla sua vita ed era contento che fosse stata così intensa e piena di cose, persone, fatti. Ripensava all’Occidente e si dispiaceva della malattia mortale che lo consumava nell’incoscienza. Pensava che il punto più evidente della gangrena erano le donne. Inquiete come in preda al delirio, menavano colpi a destra e a sinistra, a sé e agli altri, spandendo attorno il male e il cattivo odore della disattenzione.
La disattenzione: quello era la malattia principale dell’Occidente e delle donne. Recriminavano perché volevano svestirsi e andare in giro nude e recriminavano perché vedevano in giro troppe donne nude. Volevano essere indipendenti e volevano che altri provvedessero alla loro sicurezza e al loro benessere.
Mentre così ragionava sentì un motore arrancare su per la strada. Scese perciò verso il proprio riparo e andò a sedersi.
Dall’auto scese sua moglie. Dall’altro lato i suoi figli. Come erano cresciuti!
Lei gli si avventò contro, insultandolo e ingiuriandolo, come se si fossero lasciati il giorno prima. Gli tirava la lunga barba e gli strappava i capelli. Lui la guardava sforzandosi di mettere a fuoco un punto molto oltre, molto più in là.
Chissà, pensava, forse questa è l’ultima prova. Forse adesso verrà il Re sul carro di fuoco.
Dio cè
MA NON SEI TU
Rilassati