Autore Topic: Economia  (Letto 1256 volte)

0 Utenti e 1 Visitatore stanno visualizzando questo topic.

Offline Giuseppe83

  • Affezionato
  • **
  • Post: 859
Economia
« il: Dicembre 23, 2012, 22:22:21 pm »
Penso che oggi ci sia un problema più grande del femminismo. Dovremmo rinchiudere temporaneamente (ma anche no) le femministe a casina loro, in modo tale che non possano danneggiare la società, ed occuparci di tale questione.

Il Prof. Alberto Bagnai cura un sito (qui gli articoli introduttivi http://goofynomics.blogspot.it/2012/10/istruzioni-per-luso-20.html) e ha scritto un libro (Il tramonto dell'euro) contro l'euro.

Qui posto un suo articolo di qualche tempo fa che spiega bene quasi tutto:
 http://goofynomics.blogspot.it/2012/07/la-svolta-di-draghi-e-comunque-inutile.html

[...]


Entracte: la crisi del 1992
Il meccanismo della crisi del 1992 l’ho spiegato nel post in cui sbugiardavo alcuni disinformatori di regime. Lo ricapitolo qui per voi.


1)      Nel 1992 l’Italia aderiva allo Sme (Sistema monetario europeo) nel quale era entrata nel 1979.


2)      L’adesione comportava il mantenimento del cambio della lira entro una banda di oscillazione attorno a una parità centrale definita in termini di ECU (una valuta scritturale il cui valore era dato da una media ponderata delle quotazioni delle valute appartenenti agli accordi di cambio): lo Sme era quindi un sistema di cambi fissi (attorno alla parità “centrale”), ma aggiustabili (le parità centrali potevano essere ridefinite in caso di squilibri fondamentali che le rendessero insostenibili per un paese).


3)      Il cambio “fisso” non è tale per legge di natura, ma perché quotidianamente la Banca centrale interviene colmando l’eccesso di offerta o di domanda di valuta nazionale e quindi portando in equilibrio il mercato valutario al “prezzo” stabilito, cioè al tasso di cambio di riferimento (la parità centrale, appunto).


4)      Normalmente la valuta di un paese viene chiesta da operatori esteri in due circostanze:
a.       per acquistare i beni prodotti in quel paese (esportazioni di merci e servizi dal paese);
b.      per acquistare titoli emessi nel paese (importazioni di capitali nel paese).
Quest’ultima cosa va capita, e capita bene. Il tedesco che acquista un Cct di fatto offre marchi per acquistare lire, con le quali acquista il titolo. In Italia entra valuta (che bello!), ma l’Italia ha un debito con la Germania (che bello?). Certo però che in entrambi i casi abbiamo una domanda di valuta nazionale che sostiene il cambio della lira. Il cambio, quindi, può essere sostenuto vendendo merci all’estero o indebitandosi con l’estero. Capitelo bene, per favore. Capitelo. È tutto qui. Se questo non è chiaro, chiedete. Ma se non capite questo, non avete strumenti per leggere il mondo.


5)      E quando viene offerta la valuta nazionale? Dai, che ce la fate... Evidentemente nei casi uguali e contrari, cioè:
a.       per acquistare beni prodotti all’esterno del paese (importazioni di merci e servizi: per acquistare un barile di petrolio l’italiano offre lire, acquista dollari, e con questi il petrolio);
b.      per acquistare titoli emessi all’estero (esportazioni di capitali). Per acquistare un Tbill americano un italiano offre lire in cambio di dollari, e con i dollari acquista il titolo americano. Dall’Italia escono lire (che brutto!) ma l’Italia acquisisce un credito verso gli Stati Uniti (che bello!).
Il cambio quindi viene depresso dalle importazioni di beni o contraendo crediti verso l’estero (fuga o esportazione di capitali).


6)      Apro e chiudo una parentesi per quelli particolarmente “de coccio” (detto affettuosamente e con la consapevolezza di aver impiegato molto tempo anch’io a capire: ma nessuno me l’aveva mai spiegato come io lo sto spiegando a voi!): ovviamente queste operazioni sono mediate dal sistema bancario e molto spesso l’utente finale (voi) non partecipa direttamente a tutte le fase. Esempio: se acquistate una quota di un fondo comune di investimento che nella sua composizione ha anche dei titoli americani, non siete certo voi che andate all’ufficio cambi a comprare i dollari ecc. ecc. Lo so: voi siete il centro del vostro mondo. Ma la maggior parte di voi, come me, non conta niente. Io sto facendo un ragionamento macroeconomico e aggregato. Se non riuscite a capire che quello che succede a un paese è la somma di quello che succede a chi ci vive... allora avete già perso!


7)      Come in qualsiasi mercato, se l’offerta eccede la domanda, il prezzo scende. Quindi sul mercato valutario il cambio tenderà a deprezzarsi se:
a.       le importazioni di beni superano le esportazioni di beni (deficit commerciale);
b.      le esportazioni di capitali superano le importazioni di capitali (deficit del conto finanziario della bilancia dei pagamenti).
Il cambio tenderà invece ad apprezzarsi se:
a.       le esportazioni di beni superano le importazioni di beni (surplus commerciale);
b.      le importazioni di capitali superano le esportazioni di capitali (surplus del conto finanziario).


8)      Conseguenza: se un paese per un qualsiasi motivo comincia a trovarsi in deficit commerciale (ad esempio perché è penalizzato dalla rigidità del cambio), cercherà di compensare questo deficit con un surplus del conto finanziario della bilancia dei pagamenti, cioè tenterà di aumentare le importazioni (e limitare le esportazioni) di capitali. Come si fa a importare più capitali? Semplice: si offre un tasso di interesse più alto. Questo è il motivo per il quale l’adesione allo Sme, insieme al divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, ha portato a un incremento dei tassi di interesse italiani a partire dagli anni ’80. Mi riferisco, naturalmente, ai tassi reali, cioè depurati dall’inflazione (vedi la spezzata rossa nel grafico precedente).


9)      Ma se un paese importa capitali (a qualsiasi titolo) poi deve anche pagarli (in termini di interessi corrisposti all’estero). Anche se c’è qualche sconclusionato dilettante che in rete dice il contrario, non ci sono free lunch nemmeno nel mercato dei capitali. Così, se si importano molti capitali (cioè se si contraggono molti debiti) al deficit commerciale si aggiunge un ulteriore flusso di valuta in uscita dal paese. Questo è un esempio di quello che chiamiamo uno squilibrio “fondamentale”. L’Italia si è trovata in questa situazione nel 1992, e ci si trova oggi, come ho spiegato su lavoce.info.


10)  Attenzione: la Banca centrale per difendere il cambio ha due opzioni:
a.       di una vi ho parlato: aumenta i tassi di interesse. Ottimo, arrivano i capitali (nel breve periodo), così possiamo finanziare i nostri acquisti di importazioni. Ma, dopo un po’... pessimo! Devi corrispondere gli interessi, quindi... Oooooops! La situazione è peggiorata.... l’offerta di valuta nazionale aumenta... occorrono dollari (o marchi, o yen) non solo per acquistare le merci, ma anche per ripagare gli interessi sui debiti contratti con l’estero. Mannaggia! E chi se lo aspettava! Certo non gli sconclusionati dilettanti che rinnegano la contabilità nazionale...
b.      Bene: allora la Banca centrale, sempre nel nobile e disinteressato scopo di “difendere” il cambio, compra lei la valuta nazionale in eccesso di offerta. E come fa? Semplice: utilizza le proprie riserve in valuta estera. Se c’è un’offerta eccessiva di lire, la Banca d’Italia usa i propri dollari, o marchi, o qual che è, per ritirare le lire in eccesso dal mercato valutario. Chiaro, no? Qual è l’unico problema? Non lo vedete? Proprio non lo vedete? Ma è semplice: la Banca d’Italia può stampare solo lire, non marchi (o dollari)! Quindi le “munizioni” per difendere il cambio dopo un po’ finiscono.


11)  I mercati vedono benissimo se un paese ha un mercato valutario equilibrato o se ha squilibri fondamentali: semplicemente, nel caso di squilibri, noteranno che:
a.       la bilancia commerciale è in deficit persistente (e anche il saldo reddito è negativo perché vengono pagati molti interessi all’estero), e:
b.      il cambio manifesta un tendenza al ribasso (nel caso dello Sme, tenderà a essere sempre un po’ al disotto della parità centrale).
Se il cambio fosse libero di fluttuare, non ci sarebbero grandi problemi: semplicemente, il cambio scenderebbe, i beni nazionali diventerebbero più convenienti, esporteremmo più merci e importeremmo meno capitali (che comunque rimborseremmo in valuta svalutata). In questo modo verrebbe conseguito un nuovo equilibrio, e non ci sarebbero margini per un attacco speculativo.


12)  Se questo non è chiaro, guardate cosa succede se i cambi sono fissi ma aggiustabili: in presenza di squilibri fondamentali, la Banca centrale mantiene il cambio acquistando valuta nazionale in cambio di valuta estera. Questo scatena un meccanismo esplosivo. Quando gli speculatori vedono che la Banca centrale sta esaurendo le riserve, scatenano un attacco al ribasso vendendo lire: la Banca centrale è costretta a “difendersi” vendendo (in ipotesi) marchi. Gli speculatori riescono così a imbottirsi di marchi e continuano a chiederne, continuando a vendere lire, naturalmente sempre al cambio fisso. Di fatto, la Banca centrale, difendendo il cambio, garantisce agli speculatori di poter comprare marchi relativamente a un prezzo calmierato. In altre parole, lo scopo di questa pantomima è semplicemente quello di ostacolare il funzionamento della legge della domanda e dell’offerta: ostacolo posto, stranamente, da istituzioni come le banche centrali, tutte liberismo e distintivo! Quando le riserve finiscono, la Banca centrale è costretta a svalutare, il che significa (Goofynomics) che il prezzo della lira scende, ma quello del marco sale! Gli speculatori possono ora rientrare sulla lira, lucrando l’incremento di prezzo del marco.


13)  Intermezzo: un esempio concreto. Nel periodo luglio/agosto 1992 il cambio lira/marco si situava attorno a 760 lire per marco. Gli speculatori vendevano lire, ma il cambio veniva difeso. A settembre salì in una volta sola a 809 lire (quindi la lira si era svalutata del 6.5% in un mese) e a quel punto gli speculatori cominciarono piano piano a rientrare.


14)  Capito? Supponiamo che il tasso di cambio fosse stato libero di fluttuare. In questo caso la svalutazione sarebbe stata progressiva e impercettibile (sarebbe iniziata del resto molto prima) e gli speculatori non avrebbero potuto lucrare su un singolo evento one shot di svalutazione. Immaginate un attacco ribassista in caso di fluttuazione del cambio: tu offri lire per chiedere marchi... ma dall’altra parte non trovi un governatore della Banca d’Italia che ti offre marchi a prezzo calmierato (come sarebbe costretto a fare se dovesse difendere il cambio): semplicemente, il prezzo del marco sale (cioè la lira si svaluta), e quindi alla fine a te non conviene più attaccare per due motivi: primo, perché imbottirti di marchi ti costa sempre di più (mentre se il cambio è fisso il marco rimane a buon mercato); secondo, perché lasciando fluttuare il cambio la Banca centrale non è costretta a spendere le proprie riserve, quindi non c’è un limite fisico preciso che indichi un punto di rottura oltre il quale si avrà una svalutazione massiccia che ti permette di ottenere un guadagno: anzi: una svalutazione massiccia proprio non ci sarà, semplicemente perché la svalutazione avviene progressivamente, nel day by day, proprio per effetto dello stesso attacco. Che quindi, ça va sans dire, non viene nemmeno tentato (perché sarebbe inutile)!


15)  Nota bene: va da sé che la svalutazione non ha solo benefici ma anche costi (molto sovrastimati dai media, d’accordo, ma ce li ha) e che gli squilibri fondamentali è meglio correggerli. Ma qui non stiamo parlando di questo: stiamo parlando di come evitare che con ottime (!) motivazioni le Banche centrali giochino una pantomima che permette agli speculatori di fare un pacco di soldi nel giro di pochi giorni.


16)  Sintesi: il meccanismo dei cambi fissi ma aggiustabili fomenta la svalutazione destabilizzante; quello dei cambi flessibili la scoraggia. Se non è chiaro, rileggete. Se non è chiaro, rileggete. Se non è chiaro, rileggete. Se ancora non è chiaro, chiedete. Astenersi pigri: a quelli ci pensano Mario&Mario.


Analogie
Se avete letto e capito quanto precede, credo che siate pronti ad applicare le lezioni della storia al presente. Sta succedendo, a grandi linee, la stessa cosa che è successa nel 1992. Esattamente come nel 1992, l’Italia, penalizzata dalla rigidità del cambio, ha visto deteriorarsi il proprio saldo commerciale, ha cominciato a importare capitali dall’estero, e ha cominciato a indebitarsi con l’estero per pagare gli interessi sul debito estero. Esattamente come nel 1992, e come ho spiegato nel 2011 su lavoce.info, questo è il segnale che gli speculatori attendevano: un paese ingabbiato nella spirale del debito (mi indebito per pagare gli interessi sul debito) è particolarmente fragile. Si è così scatenato un attacco speculativo che si è manifestato non con la vendita di lire (che non ci sono più) ma di altre attività emesse dallo Stato italiano: i titoli di Stato. Il meccanismo però è molto simile. Nel 1992 si vendevano lire acquistando marchi per lucrare la differenza di cambio che si sarebbe manifestata dopo l’inevitabile riallineamento. Nel 2012 si vendono titoli italiani per motivi analoghi: la pressione, in questo caso, non è sul mercato valutario (che non c’è più), ma sul mercato finanziario: sale lo spread e crollano le quotazioni azionarie delle aziende italiane, il che consente di acquisirle a buon mercato (come abbiamo spiegato qui). Dato che il rendimento di una buona azienda è superiore a quello di un titolo di Stato, si capisce dove sia la convenienza. Ma questa è solo una delle possibili strategie. L’attacco al ribasso sui titoli italiani mette in evidente difficoltà il paese (ve ne sarete accorti!), e quindi concorre (come nel caso del 1992) a rendere probabile una uscita (nel 1992 dagli accordi di cambio, e oggi dall’euro) con successiva svalutazione. E in questo caso a chi ha venduto i titoli italiani andrebbe ancora meglio: se ha investito gli euro ricavati in attività finanziarie emesse da paesi del Nord potrebbe lucrare la differenza di cambio, esattamente come nel 1992. Le due strategie (attacco finalizzato a una svendita del patrimonio italiano, attacco finalizzato a indurre una uscita/svalutazione) non sono particolarmente incompatibili. In fondo, pensateci: se un’azienda tedesca acquisisce il controllo di un’azienda italiana (a buon mercato perché le quotazioni sono cadute, o anche semplicemente perché la situazione di crisi la rende momentaneamente poco profittevole, e in assenza di difese da parte dello Stato la proprietà italiana preferisce svendere), e poi l’Italia esce e svaluta, il proprietario tedesco (o francese, o olandese, o...) ovviamente beneficia del rilancio della domanda estera e quindi interna che la svalutazione determina.


Attacco, poi... Ognuno fa il suo lavoro. Non ci sono "speculatoricattivi". Ci sono però governi che non sempre, magari in ottima fede, fanno gli interessi del proprio paese...


E non vi sfugga l'altra, inquietante, analogia: come nel 1992, così nel 2012 il governatore interviene “a difesa”. Nel 1992 quello della Banca d’Italia, e oggi quello della Bce. Difesa di chi, di cosa? Nel 1992 era la difesa della stabilità del cambio, che in realtà difendeva gli interessi dei soliti noti, quelli che, sapendo benissimo che tanto si sarebbe svalutato, volevano garantirsi il diritto di acquistare marchi a “prezzo politico” anziché al prezzo di mercato ancora per un po’. Nel 2012 è la difesa dell’euro, che in realtà è (nell’immediato) difesa degli interessi dei soliti noti, quelli che avendo contratto crediti con i paesi della periferia, cercano di rientrare facendosi pagare in valuta “buona”, prima che l’inevitabile uscita con connessa svalutazione determini un haircut del loro credito. Non vi sto poi a dire chi abbia, nel medio/lungo periodo, tratto vantaggi dall’euro. Basta vedere come l’ha presa Juncker, o quello che dice Giacché. Ma queste sono per lo più considerazioni di medio periodo, e ora siamo nel breve.


Che senso ha chiedere ora alla sinistra di farsi promotrice di controlli sui movimenti di capitale? Ovviamente questi controlli saranno parte della soluzione, ed ovviamente a monte di essi vi sarà, come vi fu in Argentina, come vi è sempre stata in congiunture analoghe, una decisione politica, senza la quale l’economista, come ci spiegava Roberto Frenkel, non può dir nulla e non ha nulla da dire. Ma una vera sinistra, diciamocelo, sarebbe dovuta intervenire prima, prima che i capitali li mettessero al sicuro i soliti noti. Ora che i capitali possono metterli al sicuro solo i poveracci, ai quali peraltro per lo più non conviene farlo, perché hanno ben poco da perdere (come spiega Claudio Borghi), il corralito (il “recintino” che impedisca ai capitali di uscire) non ha ovviamente più alcun significato macroeconomico. Ne conserva però uno politico: quello di segnalare che si vuole uscire. Se è questo che la sinistra vuole. Ma ho i miei dubbi.


Una differenza e un quod erat demonstrandum
La differenza principale è una: nel 1992 esisteva un preciso limite “fisico” oltre il quale questo gioco non poteva andare: la disponibilità di riserve ufficiali da parte della Banca centrale. L’uscita (dagli accordi di cambio) diventava necessaria nel momento in cui gli accordi non potevano più essere difesi perché la Banca centrale non aveva più valuta pregiata da svendere agli speculatori.


Oggi il limite è meno preciso. Non c’è uno stock che si sta esaurendo, se non quello della nostra pazienza. Sicuramente, ora come allora, i soliti noti si stanno attrezzando, e quando si saranno attrezzati daranno il via libera.


Vi ricordate quando a novembre vi mettevo in guardia contro la bolla dei Bund? Bene: ora pare lo faccia anche l’Economist. Perché l’Economist lo fa ora e perché io lo facevo a novembre? Ma per lo stesso motivo: perché negli ambienti della City (che io non frequento, ma alcuni miei studenti più bravi di me sì) era assolutamente chiaro che le quotazioni del Bund erano sopravvalutate. Rosner, a differenza di me, aveva probabilmente anche tanti amici da far “rientrare” prima di poter dire la verità: verità che viene detta ora che i furbi si sono messi al sicuro, vendendo i Bund ai fessi. E la verità qual è? La solita: la Germania ha costruito la propria prosperità a spese dei paesi che ora sta strozzando (il famoso “segare il ramo” dell’articolo su Aristide pubblicato un anno fa e che Juncker oggi rimprovera ai tedeschi), e quindi, una volta strozzati questi paesi, sarà in gravi difficoltà. Del resto, le cose vanno male in ogni caso: se la Germania socializza le perdite, il suo debito pubblico crescerà perché direttamente o indirettamente dovrà accollarsi una parte dei debiti altrui. Altrimenti sega il ramo e precipita. Non c’è male come risultato.


Conclusione
La Bcesimileallafed non può essere una soluzione duratura per i problemi dell’EZ perché di fatto opererebbe nel senso di quella mutualizzazione delle perdite che la Germania strenuamente non vuole. La cosiddetta svolta di Draghi ha l’unico scopo di rinviare l’inevitabile epilogo della vicenda, permettendo ai paesi forti di fare ancora per un po’ i propri interessi (dettando condizioni ed esportando il proprio modello sociale altrove), e indebolendo ancora un po’ i paesi meno forti, che quindi saranno tanto più massacrati quando i nodi verranno al pettine. La malafede, del resto, è evidente! Abbiamo costruito tutta l’Europa sul principio che le banche centrali dovessero divorziare dal Tesoro: questa veniva propugnata come soluzione. E ora, dopo che abbiamo distrutto le nostre economie in omaggio a questo astratto principio, cosa ci viene offerta come soluzione? Quella di far fare alla Bce, in modo non del tutto trasparente, quello che le banche nazionali non possono fare!


A conti fatti, tutta questa storia non è che l’applicazione di un semplice ma ineludibile principio economico: non ci sono pasti gratis (no free lunch). La Germania ha sfruttato l’Eurozona come se questo pasto fosse gratis, ma ora si accorge che un conto da pagare c’è sempre, ed è più salato per chi fa il furbastro. Inutile cianciare ora di riforme da fare, di compiti a casa, e altre scemenze. La malafede, anche qui, è evidente. Se lo scopo dell’euro fosse stato quello di competere insieme contro la terribile Cina, allora le riforme di sarebbero dovute disegnare insieme, insieme si sarebbe dovuto progettare il modello sociale di sviluppo da opporre a quello delle economie emergenti. Invece no: la Germania ha fatto dumping sociale, violando le regole europee per finanziare la sua riforma di precarizzazione e abbattimento del costo del lavoro, e ora paga, paga come chiunque fa dumping per aggredire le economie circostanti. Paga in modo diverso, ma per un motivo analogo a quello per il quale ha pagato l’Irlanda, che facendo dumping fiscale per attirare capitali esteri è finita schiacciata dal peso degli interessi da corrispondere all’estero. L’elemento comune qual è? Quello di non aver voluto ricercare un coordinamento e un’uniformità europea, quello di non aver voluto collaborare col prossimo, ma fotterlo. L’Irlanda non lo ha cercato in campo fiscale, la Germania non lo ha cercato sul mercato del lavoro, come le rimproverano anche le Nazioni Unite (vedetevi il box  4 del Global EmploymentTrends): entrambe lo hanno fatto per volgere la situazione a proprio vantaggio, entrambe hanno attratto l’ammirazione dei gonzi e dei traditori, ed entrambe pagheranno.


Dio non paga ogni sabato e nemmeno i mercati. E dato che nel pagamento siamo coinvolti anche noi, l’unica cosa razionale da fare sarebbe uscire ora, per difendere noi stessi. La svolta di Draghi va in direzione opposta, il che non vuol dire che non obbedisca anch’essa a una razionalità. Solo che si tratta, come nel 1992, della razionalità dei soliti noti. Così è, se vi pare...

Offline Giuseppe83

  • Affezionato
  • **
  • Post: 859
Re:Economia
« Risposta #1 il: Dicembre 23, 2012, 22:39:28 pm »
E qui un parallelismo col passato. Per chi non capisce che il nazionalsocialismo è l'unico rimedio alla fame verso cui i criminali liberisti ci stanno portando.

http://www.rischiocalcolato.it/2012/12/mario-monti-weimar-reloaded-maurizio-blondet.html


Mario Monti, Weimar Reloaded (Maurizio Blondet)

Lo scorso 14 dicembre il nostro ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, è volato a Washington ad incontrare il suo pari grado, Tim Geithner, e «investitori» finanziari non meglio identificati. Ad essi, secondo Il Corriere, Grilli ha spiegato il piano del governo Monti per ridurre un poco il debito pubblico, che Monti ha continuato a far salire rispetto al PIL, inarrestabile. Il calo del PIL (e non le tasse, secondo Grilli) ha fatto sì che esso si divaricasse dal debito: quello scende e, per forza, questo sale. La soluzione è aumentare il PIL «nominale», cioè quello reale più l’inflazione (che è al 2%, secondo loro), per far convergere le due entità. Come fare? Tranquilli, ha detto Grilli ai finanzieri esteri: «Il continuo aumento della disoccupazione spinge chi cerca un posto ad accettare compensi sempre minori pur di lavorare, ridando così un po’ di competitività di prezzo alle imprese». Le imprese italiane potranno dunque «ridurre i costi… del lavoro» (Il Tesoro e la via anti-debito).

Ecco dunque il progetto di «rilancio» e «crescita» di Monti (e di Bersani poi, per cui Monti è «un punto di non ritorno»): nessuna liberazione delle imprese dallo strangolamento della burocrazia pletorica inadempiente, nessun taglio ai «costi della politica»; niente blocco degli statali e dei loro stipendi, già il 15% superiori a quelli privati; niente fiscalità che non sia persecutrice di chi produce, nessun taglio agli statali di lusso con stipendi miliardari. Quello che vuol ridurre, il governo, sono i salari privati, ossia di quelli che producono, non dei parassiti. Mettendo in competizione gli occupati con i disoccupati, costretti ad «accettare compensi sempre minori».

A parte l’odiosità morale, è il caso di avvertire che proprio questa «soluzione» fu quella che stroncò definitivamente l’economia della repubblica di Weimar (1919-1933), e fece sì che i tedeschi votassero il NSDAP e la facessero finita col liberismo. Non fu infatti l’iper-inflazione, come alcuni credono, a provocare il rigetto della democrazia; l’inflazione tedesca, benché atroce per la classe media, era già finita nel 1923, e l’istituzione pluralista durò ancora 10 anni. A provocare il tracollo fu invece la deflazione, unita alla recessione, provocata da programmi di «austerità» rigorosi secondo l’ortodossia liberista, e infine il taglio dei salari privati ordinato per decreto dal cancelliere Heinrich Bruening.

I punti di contatto fra la repubblica italiana d’oggi, e fra Monti e Bruening, sono così numerosi da inquietare. Andiamo per ordine:

Fu la prima globalizzazione (1919-1929): vigeva il Gold Standard, il che significa: negli scambi internazionali si usava una moneta comune globale: l’oro, e le monete in quanto erano agganciate all’oro con cambio fisso. Una volta domata l’inflazione, la Germania – sconfitta nella Prima Guerra Mondiale – riagganciò il marco all’oro, e conobbe una rapida ripresa.

Crescita drogata da grandi prestiti USA: la Germania era stata condannata a pagare colossali «riparazioni» a Francia e Gran Bretagna perché bollata dalla «comunità internazionale» (la conosciamo bene anche oggi) come colpevole della Grande Guerra. Tutti gli anni avrebbe dovuto versare 2,5 miliardi di marchi oro fino al 1929 (piano Dawes), poi 37 versamenti di 2,05 miliardi di Reichsmark, poi altri di 1,65 miliardi di marchi fino al… 1988 (piano Young). Berlino non ce l’avrebbe mai fatta, se il governo americano (appunto Dawes e Young, banchieri-politici USA) non avesse fornito altrettanto enormi crediti.

Tanta generosità non era disinteressata, e fruttava grassi profitti. Gli USA avendo venduto forniture belliche gigantesche agli Alleati durante la guerra europea, erano divenuti i grandi creditori del mondo, e Fort Knox traboccava di oro affluito dai Paesi debitori (che erano poi gli alleati; ma gli affari sono affari). Il Gold Standard obbligava a moltiplicare di altrettanto i dollari: un mare di liquidità in eccesso stava per abbattersi sull’economia USA, che già subiva la recessione inevitabile una volta finita la super-produzione bellica. La Federal Reserve e i banchieri USA impedirono tale effetto abbassando artificialmente i tassi – la stessa cosa fatta da Greenspan negli anni ’90, e da Bernanke poi – ed incitando all’esportazione di dollari: come nella storia dei petrodollari degli anni ’70, esportarono così la loro inflazione all’estero.

Assoluta libertà di circolazione dei capitali: questa fu la decisione decretata da Washington e da Londra, potenze vincitrici. I capitali americani, poco remunerati in patria, affluirono in Germania. Nel 1925, il tasso di sconto della Federal Reserve era del 3%; in Germania, era sul 10%. Negli anni seguenti, la remunerazione del capitale investito in USA fu sul 4%, in Germania spuntava l’8%. Il doppio.

Pura finanza speculativa, perché basata su un circolo vizioso finanziario: i capitalisti USA si facevano prestare dalla FED al 4%; con questa liquidità indebitavano i tedeschi all’8%, e con questi prestiti i tedeschi pagavano le riparazioni a francesi e inglesi. Come «garanzia» per i generosi prestiti, furono ipotecate la Reichsbank (la Banca Centrale), le Reichsbahn (le ferrovie nazionali), i diritti di dogane e l’imposta sui consumi.

Ma una parte delle riparazioni doveva essere pagata in merci e beni: e dunque parte dei prestiti USA andarono anche a finanziare l’industria tedesca.

La repubblica di Weimar piaceva all’alta finanza USA come uno Stato «business friendly»: le dava le due garanzie che il liberalismo capitalista desidera in un Paese per investire, il «mercato» e la «democrazia». E inoltre, i salari tedeschi erano bassi – milioni di soldati smobilitati cercavano un lavoro a qualunque prezzo – e i bassi salari stimolano sempre gli investimenti industriali: come abbiamo visto fino ad oggi in Cina.

Bolle finanziarie: il risultato di tanto denaro a disposizione provocò oltre ad un surriscaldamento industriale, gigantesche «bolle». Rapidamente, i terreni e i fabbricati rincararono del 700% a Berlino, e del 400% ad Amburgo. I giornali seguaci del liberismo (perché pagati dai capitalisti) lanciarono una campagna per «liberalizzare gli affitti». Gli affitti erano stati bloccati durante la guerra; ma ormai era «ingiusto», dicevano i media, visto che gli immobili si erano tanto apprezzati, che essi rimanessero fermi. Una legge sbloccò gli affitti, che crebbero immediatamente del 125%. A pagarli erano soprattutto gli operai, appena urbanizzati, risucchiati nelle metropoli dall’industria assetata di manodopera. Berlino passò da 2 a 6 milioni di abitanti, e gli alloggi non bastavano mai. I padroni immobiliari erano quelli che guadagnavano.

Anche a spese delle industrie, che pagavano di più affitti e mutui e fidi per i fabbricati industriali. «L’economia era sempre più dipendente dal capitale estero; il peso degli interessi continuava a crescere (…) I crediti esteri erano per lo più a breve, ma erano piazzati in investimenti a lungo termine, sicchè la minima crisi economica presso i creditori avrebbe avuto conseguenze gravissime per la repubblica» (così lo storico Horst Moeller).

Allora la crisi fu quella del 1929, che da un giorno all’altro lasciò l’economia germanica a secco di capitali americani. Oggi è stata la crisi dei sub-prime in USA, che ha destabilizzato il sistema bancario globale, rivelandone l’insolvenza.

Ma intanto, tra il 1925 e il ’29, l’economia cresceva trionfalmente. Erano Die Goldener Zwanziger, i dorati anni ’20 immortalati dalle vignette di Grosz, coi ricconi grassi in cilindro, sigaro e frac che palpano puttanelle (figlie della classe media rovinata) nei cabaret. Gli industriali tedeschi rispondevano al peso crescente degli interessi passivi e dei costi da «bolla» sui fabbricati, creando un apparato industriale ad alta intensità di capitale, in modo da risparmiare sui salari.

«Le industrie smantellavano le vecchie fabbriche e le rimpiazzavano coi più nuovi macchinari. La Germania stava diventando il Paese industriale più avanzato del mondo, più degli stessi Stati Uniti (…) l’intero sistema ferroviario fu rinnovato…». Così Bruno Heilig, giornalista ebreo dell’epoca, che scampò nel 1938 a Londra (Bruno Heilig, “Why the German Republic Fell”).

Non mi dilungherò sulle «privatizzazioni» scandalose e truffaldine che allora prosperarono. Mi limito a citare il nuovo porto sulla Sprea, che il municipio di Berlino rammodernò spendendo milioni di marchi, attrezzandolo di gru e magazzini (era il porto che serviva il rifornimento della capitale) e che poi fu ceduto a due privati – con l’argomento che la mano pubblica non poteva gestirlo «con efficienza e profitto» . Il consorzio privato, Schenker & Busch, pagò 396 mila marchi – unico pagamento per 50 anni di affitto (il solo prezzo d’affitto del nudo terreno del porto sarebbe stato di 1 milione di marchi l’anno) e per giunta si fece dare dal comune un prestito di 5 milioni di marchi come capitale operativo. L’alto funzionario pubblico responsabile del progetto, e che aveva poi consigliato la privatizzazione, lasciò l’impiego pubblico e fu assunto da Schenker & Busch con uno stipendio principesco. Intanto «i lavoratori berlinesi, già aggravati dal rincaro delle pigioni, pagavano un tributo a quei privati per ogni pezzo di pane che mangiavano» (Heilig).

La crescita a credito cominciava a perdere colpi. Gli interessi sui debiti degli industriali crescevano, crescevano i costi degli affitti e dei macchinari. Ma per qualche anno «ogni segno di crisi fu scongiurato comprimendo i salari e licenziando lavoratori» (Heilig). È significativo che anche durante il boom dei Venti Dorati, i disoccupati restarono tanti, si mantennero sui 2 milioni. Tanto meglio, per gli industriali: manodopera a basso costo. E coi «risparmi» sui salari, comprarono macchinari ancora più efficienti onde aumentare la produttività. Così gli aveva insegnato il liberismo anglosassone. E i tedeschi sono allievi-modello.

L’altra faccia della produttività. Accadde quello che sempre accade quando si retribuisce troppo il capitale (i banchieri, essenzialmente) e poco il lavoro: le merci, prodotte in quantità sempre maggiore, non trovano acquirenti, perché i consumatori (che sono i lavoratori) hanno perso potere d’acquisto.

Gli imprenditori corsero ai ripari applicando i dettami del liberismo americano appena appreso. Nel 1931, ridussero la quantità di merci prodotte, sperando con ciò di sostenerne i prezzi. Ma così facendo «interessi, tasse, ammortamenti ed affitti, ossia le spese fisse, divise su un volume minore di beni, aumentarono il costo unitario di ogni bene. Il costo di produzione crebbe in proporzione inversa ai profitti, fino a divorarli» (Bruno Heilig).

Quali misure vennero prese? Altri licenziamenti in massa. Ovviamente, «per ogni lavoratore licenziato era un consumatore che scompariva», ha scritto Heilig, sicché i datori di lavoro «ne ebbero ben poco sollievo».

Già. A far colare a picco le imprese erano i «costi non comprimibili», non già il costo del lavoro; ma questo era il solo ritenuto «comprimibile» – e fu compresso senza pietà. Furono i costi incomprimibili, nel corso del 1931, a rendere insolventi sempre più imprese. Gli interessi sui debiti diventarono impagabili, e non furono più pagati. Con l’insolvenza dei debitori-imprenditori, cominciarono a fallire le banche.

Il cancelliere Heinrich Bruening, salito al potere nell’ottobre ‘31, spese miliardi di marchi (dei contribuenti) per «salvare le banche», applicando da allievo modello i dettami del liberismo anglosassone. Come oggi, quando sono le banche a crollare per i loro investimenti sbagliati, il «mercato» viene sospeso, e invece di lasciarle fallire, si invoca la mano visibile dello Stato, l’intervento pubblico a loro favore.

Non bastò, ovviamente. Allora Bruening, che ormai gestiva l’economia a forza di decreti d’autorità, lanciò una politica di austerità e rigore, tagli di bilancio, deflazione deliberata. Il cancelliere «ascoltava i funesti consigli del dottor Sprague, l’emissario della Bank of England. Il quale naturalmente voleva la continuazione della politica di deflazione ad ogni costo; deliberata permantenere il valore dei fantastici investimenti della City in Germania» (Robert Boothby: Recollections of a Rebel, 1978).

Anche oggi, il rigore e la deflazione decretati da Mario Monti sono nel solo interesse dei grandi creditori internazionali, che vogliono mantenere il «valore dei loro investimenti». Proprio di questo il nostro (loro) Grilli è andato a rassicurare gli investitori americani che creerà «crescita» tagliando i i salari.

Nel 1931, Bruening fece lo stesso:

per decreto, ordinò una riduzione generale dei salari del 15%.

Nella sua teoria, riteneva che riducendo il potere d’acquisto del lavoratori, si sarebbe prodotta di conseguenza una riduzione dei prezzi. Il «prezzo umano», la messa alla fame dei lavoratori e delle loro famiglie, non gli sembrò indegno d’esser pagato.

La massa salariale prima del 1929, ossia nel boom liberista, ammontava a 42,4 miliardi di marchi. Durante il cancellierato Bruening scese a 32 miliardi (il Terzo Reich la fece risalire, nel 1937, a 48,5 miliardi).

Ovviamente, il drastico taglio dei salari non funzionò come sperava Bruening, anzi accelerò il tracollo. Come abbiamo visto, i prezzi delle merci erano determinati da fattori ben diversi che dalle paghe: dai costi incomprimibili, dal servizio del debito, dagli indebitamenti per comprare suoli sopravvalutati dalla bolla. Bruening avrebbe dovuto agire su quelli. Non lo fece.

I disoccupati salirono a 7 milioni: un terzo della forza-lavoro nazionale; a cui si dovettero aggiungere «i «disoccupati parziali», part time e precari, altri milioni non censiti.

«L’apparenza di prosperità economica degli anni Venti si rivelava ingannevole. Quando la crisi americana del 1929 e la poca fiducia nella stabilità economica e politica di Weimar spinsero (gli stranieri) a ritirare i crediti, l’economia tedesca collassò… La generazione giovanile si vide privata di possibilità professionali, economiche e sociali; era sradicata e si sentiva derubata dell’avvenire». (Moeller). «La classe media (era) spazzata via: questa la situazione ad un anno dall’apice dalla prosperità» (Heilig).

In quell’anno, il numero dei deputati nazisti al Reichstag passò da 8 a 107. Avevano votato per loro 13,4 milioni di tedeschi; il 60% erano persone che prima non avevano votato, astenendosi. Nel gennaio 1933, divenne cancelliere Adolf Hitler. E cominciò la ripresa, usando ricette contrarie a quelle del liberismo (1).

Oggi, i poteri forti – che hanno la memoria lunga – hanno agito d’anticipo, di fatto favorendo un colpo di Stato dall’alto in Italia, svuotando di senso le votazioni; hanno accelerato la creazione della giunta oligarchica a livello europeo, in modo – mentre cadono a picco tutti i dati dell’economia reale – da prevenire una deriva «populista» della volontà popolare, che scalzi il loro potere come avvenne «allora».



--------------------------------------------------------------------------------

1) Bruening se ne andò in USA, dove fu accolto a braccia aperte dall’Università di Harvard. Vi restò come docente di politica liberista fino al 1951.


Offline Giuseppe83

  • Affezionato
  • **
  • Post: 859
Re:Economia
« Risposta #2 il: Gennaio 06, 2013, 19:51:37 pm »
SU GRILLO:

http://goofynomics.blogspot.it/2013/01/pescara-e-la-fine-delleuro.html

Nei commenti del post precedente si è sviluppata una discussione attorno all'improvvida uscita dell'ortottero capo, che sposa - come al solito - una diagnosi assolutamente montiana delle cause della crisi, sostenendo che lo spread dipende dal rischio di insolvenza dello Stato italiano, determinato da un eccessivo livello di castacriccacaruzzionespesapubblicabrutto. Seguono gli ovvi dolori di pancia di chi vorrebbe tanto votare il M5S, ma proprio non ce la fa quando nota quanto somigli a votare per Monti. Perché il problema rimane ed è sempre quello: non vuoi dire la verità, cioè che solo uscendo dall'euro ci libereremo dallo spread, visto che questo misura - e ci fa pagare anticipatamente - il rischio di svalutazione? Va bene, non c'è problema. All'estero studi relativamente neutri riconoscono che in Italia il tasso di interesse diminuirebbe con l'uscita dall'euro - i soliti Woo e Vamvakidis. Vuoi ignorarli? Va bene, ignorali. Ma per lo meno, perdio, non mentire anche tu come sta mentendo Monti! Il governo italiano non è mai stato a rischio insolvenza. Lo certifica il Fiscal sustainability report della Commissione Europea, che avrebbe tutto l'interesse a certificare il contrario, visto che proprio dall'Europa vengono quelle simpatiche esortazioni all'austerità che, per avere un senso, devono presupporre che lo Stato italiano sia sull'orlo della catastrofe finanziaria! Invece nemmeno chi avrebbe interesse a dimostrare l'insolvenza dello Stato italiano, e la necessità dell'austerità, ci riesce! L'austerità italiana è servita solo a salvare Grecia e Spagna, e lo ha ammesso perfino Monti dalla Gruber!