Autore Topic: Femminicidio, l’uso politico da parte del femminismo della violenza sulle donne  (Letto 1279 volte)

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Femminicidio, l’uso politico da parte del femminismo della violenza sulle donne

http://www.lindipendenza.com/femminicidio-femminismo-politica-violenza-donne/

di ANIA RANDAM

Citazione
Come avrete notato leggendo i giornali, ascoltando la radio o guardando i tg e le trasmissioni televisive di “dibattito o approfondimento” sempre più la parola ‘femminicidio’ viene usata per indicare casi di cronaca di uccisione di una donna da parte di un uomo. Tale termine deriva dall’inglese femicide usato nel 1801 in Inghilterra puramente a livello giornalistico per indicare l’uccisione di una donna; nel 1848 questo termine fu pubblicato nel Wharton Law Lexicon suggerendo che fosse diventato un reato perseguibile.

La sua riscoperta ed uso ideologico corrente è però fenomeno culturale ben più recente, il termine è riemerso a partire dagli anni ’70 del Novecento, ad opera dei movimenti femministi di sinistra, che miravano ad aumentare la consapevolezza femminile, promettendo la resistenza e la liberazione della donna dall’oppressione di genere. L’autrice americana Carol Orlock è ampiamente considerata colei che ha rinnovato il termine nella sua antologia inedita sul femminicidio nel 1974.

La criminologa ed attivista femminista sudafricana Diana E. H. Russell fu la prima ad istigare l’utilizzo del termine per i crimini contro le donne. Nel Marzo 1976  fu tra gli organizzatori del Primo Tribunale internazionale sui crimini contro le donne, a Bruxelles, proponendo una campagna contro lo stupro e la misoginia a suo dire derivati dalla presenza della pornografia nel mondo occidentale (tematica che riprenderà poi in suoi libri editi tra il 1993-1994 e nel 1998, e che viene contestata come correlazione dalle femministe individualiste e libertarie, tra le quali Wendy McElroy). Secondo la Russell, «dobbiamo renderci conto che una sacco di omicidi sono femminicidi. Dobbiamo riconoscere la politica sessuale dell’omicidio. Dal rogo delle streghe, in passato, alla più recente diffusa usanza dell’infanticidio femminile in molte società, o l’uccisione di donne per “onore”, ci rendiamo conto che il femminicidio è in corso da molto tempo. Ma poiché si tratta di mere femmine, non c’era nessun nome per esso fino a quando Carol Orlock ha inventato la parola ‘femminicidio’».

In seguito la Russell, assieme a Jill Radford, ha pubblicato nel 1992 il libro Femicide: The Politics of woman killing, nel quale indicò il femminicidio come una categoria criminologica vera e propria: una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna «perché donna», in cui cioè la violenza è l’esito di pratiche misogine. Un anno dopo, nel 1993, l’antropologa messicana Marcela Lagarde ha descritto il femminicidio come «la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine, maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria o anche istituzionale – che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia».

Se la Russell caratterizza il femminicidio come un reato ideologicamente misogino in quanto teso ad uccidere delle donne (scrivendone una sua personale genealogia storiografica del crimine quale pamphlet politico), la Lagarde estende tale termine quale forma di discriminazione, elencando una innumerevole serie di casistiche di violenza o pratiche intimidatorie, le quali costituiscono un campo semantico per ricerche e studi al di là dell’uccisione in sé, quale appello verso un maggior intervento delle istituzioni politiche sulla condizione della donna.

E’ evidente come un costrutto linguistico sia divenuto un concetto atto a promuovere da un’analisi sociologica ed antropologica, nella quale la centralità della donna è intrinseca al suo essere la sola ed esclusiva protagonista-vittima-oggetto d’interesse del dramma, delle proposte politiche normative. Questo focalizzarsi monodimensionale su un fenomeno specifico (la condizione della donna quale vittima della violenza) per genere di attore sociale, isolato ed estrapolato da un contesto di complesse interazioni sociali e culturali, produce una riduzione del ruolo femminile e del suo rapportarsi con il mondo maschile al solo evento negativo considerato ed ampiamente denunciato, ponendo esso quale sola connotazione universale della sua condizione, e feedback del ruolo della donna nel mondo reale. La donna si trasfigura nel concetto ideale di femminilità e di rappresentante della dimensione femminile universale, subendo un processo di ”canonizzazione cenerentolesca” in quanto vittima di reati ed angherie. Ecco che allora il mondo e la realtà diventano dimensioni caratterizzate dall’insicurezza, dalla paura e più in generale dal pericolo e dalla sofferenza per la donna.


Al pari del marxismo, che focalizza l’attenzione solo sulla presunta alienazione del lavoratore a fronte della divisione del lavoro, dei mezzi di produzione posseduti dal capitalista e dal plusvalore ricavato da questi, anche l’ideologia femminista sul femminicidio focalizza solo l’uccisione e la violenza femminile ad opera del maschio quale preminente dimensione oppressiva e minacciosa del mondo maschile nei confronti della donna. La lotta di liberazione diventa un’annuncio messianico “salvifico” che culmina non nella “dittatura del proletariato”, ma in una “rivoluzione femminista” a cui dovrà seguire la sua “liberazione”, ovvero la supremazia della donna sull’uomo sul piano sociale, economico, politico e dei diritti.

Non stupisce che un certo femminismo, dopo aver proposto negli anni ’70 una lotta di classe contro le sovrastrutture sessuali della società, quale promessa di liberazione ideologica egualitarista della donna, ora punti la sua attenzione sul femminicidio come prosecuzione di tale lotta tesa verso una piena supremazia del femminile sul maschile. Paradossalmente, la violenza contro le donne è cinicamente utile in primo luogo a queste femministe per accreditarsi e fare proseliti verso le proprie istanze, e paradossalmente non solo tra le donne.

L’artefatta categoria del femminicidio è interpretata quale “prova storica” di tale presunto “complotto oscurantista del maschio” sulla donna, il quale si inscrive nella critica anti-capitalista alla società dei consumi e a determinate rappresentazioni del femminile e della donna ritenute (a torto) ad uso e consumo del maschio e contrarie alla dignità della femmina. Quella che prima era “alienazione” ora diventa “eliminazione, genocidio della donna”, sicché per tale interpretazione della femminilità diventa necessario che le donne “consapevoli” (in quanto femministe militanti della causa) acquisiscano maggiore potere in Occidente organizzandosi al fine di usare il potere coercitivo delle istituzioni pubbliche per la realizzazione di un “potere rosa” tutelante il presunto loro status antropologico di superiorità morale e di genere sull’uomo. La stessa Russell fu membro dell’African Resistance Movement (ARM), un movimento politico rivoluzionario anti-apartheid che non ripudiava l’uso della violenza per raggiungere i suoi scopi di massima uguaglianza e multi-razzialità nella società.

E’ dunque evidente come ‘femminicidio’ sia un termine che, presso un certo femminismo, indica ben più del reato violento in sé verso le donne; esso è un torto escatologico che in termini dialettici diviene occasione ed opportunità ideologica per le forze progressiste per poter accampare in suo nome un welfarismo redistributivo di risorse e ruoli garantiti, e una superiorità discriminante del valore della vita della donna sul piano del diritto (civile e penale) rispetto a quella dell’uomo.

In Occidente e in Italia, il reato di uccisione di un uomo o di una donna (compreso il caso di un uomo che uccide una donna) è già contemplato dal Codice penale ed è denominato ‘omicidio’. La parola ‘omicidio’ etimologicamente è una parola neutra e non sessista, essa deriva dal latino homicidium (formato da homo ossia uomo e -cidium ovvero -cidio, uccisione) dove l’uccisione dell’uomo fa riferimento a ‘uomo’ inteso come essere umano. Dato che sia l’uomo che la donna sono esseri umani, non ha alcun senso usare la parola ‘femminicidio’; ma per le paranoiche sostenitrici del termine, la parola ‘femminicidio’ è invece fondamentale ed irrinunciabile, in quanto facente riferimento alla femminilità della vittima, quale aggravante peculiare di un reato.

L’uccisione di una persona è in sé un crimine grave e da condannare secondo le vigenti norme del Codice penale, non ha alcun senso porre una discriminante o una aggravante penale di rilevanza inerente lo status sessuale della vittima o dell’aggressore. Nel diritto penale italiano esiste già una forma di omicidio aggravato, l’uxoricidio (l’omicidio della propria moglie), il quale peraltro viene nominalmente utilizzato in estensione anche per l’omicidio del marito ad opera della moglie. Anche l’uxoricidio è in primo luogo un costrutto nominale che qualifica l’omicidio compiuto in funzione della natura del legame coniugale, discriminando tale reato rispetto ad altri omicidi violenti privi però di legami affettivi giuridicamente riconosciuti. E’ dunque necessario l’uso del ‘femminicidio’ per indicare tali morti violente al di fuori dell’ambito matrimoniale? La risposta è no, in quanto il femminicidio viene usato per etichettare sia uxoricidi e violenze domestiche che uccisioni di donne prive di legami affettivi giuridicamente riconosciuti o stabili.

Esiste il ‘femminicidio’ nonostante non esista il ‘maschicidio’ in ragione di tale implicita discriminazione ideologica da parte femminista tesa ad una interpretazione misandrica della realtà. Wendy McElroy a tal riguardo, nel suo libro del 2001, Sexual Correctness: The Gender-Feminist Attack on Women, oltre a confutare le tesi della Russell sugli uomini, come classe di irriformabili stupratori, denuncia come alcune femministe «abbiano ridefinito la loro visione del movimento verso il sesso opposto da una rabbia calda in un odio freddo verso gli uomini».

Secondo la Russell, ogni violenza contro una donna è femminicidio in quanto atto motivato da misoginia; tale causale potrà avere riscontri di validità per maniaci e killer seriali o altre gravi forme patologiche ossessivo-compulsive a livello psico-comportamentale, ma non può invece sempre valere a priori; ovvero non è possibile ritenere che l’ipotetica uccisione di una donna non possa essere dovuta in ragione anche di altre cause o moventi non pertinenti al suo essere una donna. Se così non fosse, essa sarebbe una tesi non falsificabile, ergo sarebbe deterministica ed ideologica per ogni crimine come suo movente, il che è quanto la criminologa Russell postula.

Ma la tesi sul femminicidio della Russell crolla a fronte di una banale constatazione: non è forse un femminicidio anche l’uccisione di una donna da parte di un’altra donna? E come può una donna essere misogina verso altre donne quando essa stessa è rappresentante della femminilità e dei valori migliori? Ha forse meno rilevanza se l’uccisione è commessa da una donna? Se così fosse la tesi del femminicidio non potrebbe comunque ostentare alcun valore di verità universalmente riconosciuta né ieri, né oggi, né domani.

L’uso iniziale della violenza a scopo aggressivo va sempre fermamente condannata al di là dell’identità dell’aggredito/vittima e dell’aggressore. Ovviamente non nego che la violenza venga purtroppo esercitata anche verso le donne anche in Italia (benché il suo conteggio o statistica non possa essere una valida chiave per analizzare e affrontare un fenomeno che non è deterministico ma situazionale), né dimentico come soprattutto in varie zone del pianeta al di fuori dell’Occidente esistano condizioni e trattamenti nei confronti della donna e della sua femminilità nettamente inferiori e subumani agli standard dei diritti civili e delle libertà individuali. Ma il femminicidio, come ideologia specifica atta a descrivere ed interpretare la violenza contro le donne a fini suprematisti femministi, è un fenomeno occidentale che come sua motivazione di denuncia ha poco a che fare con quanto accade alle donne in Italia e nel resto del mondo.

Sempre come argomenta Wendy McElroy nel suo libro, «una nuova ideologia radicale o di genere è venuta alla ribalta (…), il femminismo ha teso le mani al movimento per la correttezza politica che condanna il panorama della civiltà occidentale come sessista e razzista: il prodotto di maschi bianchi morti». Da pochi anni tale ideologia, e l’analisi sociologico-antropologica femminista sul femminicidio, è riemersa in Italia ed è cresciuta come fenomeno culturale di (d)enunciata-propaganda grazie ad una certa attenzione dedicata soprattutto nei massmedia con trasmissioni televisive come Amore criminale su Rai Tre, dall’impegno di giornalisti come Riccardo Iacona, e da spettacoli teatrali di “denuncia sociale” come Ferite a morte di Serena Dandini.

E’ da notare come questi tre esempi siano tutti collocabili ideologicamente nel solco di una visione di sinistra, la quale negli ultimi anni, complice le vicende politico-giudiziarie-personali di Silvio Berlusconi, ha cavalcato l’onda dell’anti-berlusconismo ammantandolo politicamente di un femminismo indignato (il puritanesimo-situazionista da “se non ora quando” in termini analoghi, sebbene più moderati, rispetto al movimento estero delle Femen) teso oltreché a proporre un costruttivismo sociale compartimentato nei diritti sociali giuspositivi per generi e una dialettica conflittuale dei sessi (quale anacronistica riproposizione traslata della lotta di classe marxista-leninista), anche un fondamentalismo moralizzatore ed anti-capitalista che però esula e contraddice le riconosciute libertà individuali nella società occidentale delle donne.

Anche il “centrodestra”, nonostante la rivoluzione libertina delle “cene eleganti” d’Arcore e talune discutibili nomine a cariche politiche, ha contribuito al clima di moralizzazione ideologica dei costumi in nome sia della “dignità politicamente corretta della donna” che di un parallelo bigottismo teso a guadagnar appoggi elettorali OltreTevere, mediante i provvedimenti legislativi proposti dall’allora Ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna, la quale nel suo zelo liberal ha cercato di rifuggire (con dubbi esiti) dallo stereotipo della donna di spettacolo e dai commenti delle femministe indignate inerenti la sua carriera politica e professionale.

Dal 2005 sono nati i Centri antiviolenza, in Italia si celebra la festa della Giornata mondiale contro la violenza alle donne, la Giornata internazionale della donna, rinsaldando il mitologico (e anch’esso politicamente sinistro) 8 marzo con flash mob, convegni, seminari, eventi pubblici di sensibilizzazione sul tema del femminicidio; l’EURES da diversi anni svolge ricerche sugli omicidi volontari in Italia, nel 2012 ha pubblicato la prima ricerca specifica sul tema dal titolo Il femminicidio in Italia nell’ultimo decennio. Insomma un business celebrativo per un lobbismo e un sottobosco dal vago sapore retrò, in grado di superare per retorica e mobilitazione anche l’ormai declinante 1° maggio dei lavoratori.

Dunque si è arrivati grazie agli “intellettuali di corte”, ai politici “benpensanti” e ai loro media compiacenti, alla promozione della moda retorico-ossessiva sul femminicidio anche in Italia. La vita di una donna uccisa pare sia diventata di valore ed importanza superiore a quella di un uomo ucciso, e che l’aggressione subita da un uomo sia meno biasimabile rispetto a quella subita da una donna, instaurando di fatto una concezione classista da vittime di serie A e vittime di serie B ad uso e consumo delle “sacerdotesse” del femminismo e della tv “del dolore”.

Tale “primato del femminicidio”, comporta anche un corollario moralistico finto-solidale stucchevole da parte delle femministe verso le donne, quest’ultime vengono strumentalizzate e descritte dalle prime e dai massmedia compiacenti quali persone deboli, incapaci in sé di difendersi e bisognose di un aiuto, di un protettore e di una guida istituzionale; di fatto tale vulgata stride con la contemporanea rivendicazione progressista di una raggiunta uguaglianza dei sessi e di opportunità maggiori di autodeterminazione e libertà dagli anni ’70 ad oggi rispetto al passato. Tale capacità e merito, riconosciuto e assodato nella società contemporanea e nel mondo del lavoro alla donna, è figlio del boom economico, è quindi grazie al capitalismo e al libero mercato, e non al femminismo se le donne sono più libere ed emancipate.

Il femminismo radical-chic petulante per autoreferenzialità e presenzialismo, quale protagonismo dispensatore del nulla, si è da tempo integrato e istituzionalizzato nei Palazzi della politica anche italiani a vari livelli, divenendone orgoglio nazionale per una retorica Patriarcale statalista ponendo l’asservimento della donna e dei suoi meriti entro il collettivismo di leggi, numeri, quote rosa e “condotte giuste, buone e dignitose”. Non stupisce se recentemente si sono letti surreali, quanto illogiche affermazioni tra la (presunta) liberazione da un’ideologia politica totalitaria anche verso la condizione della donna, e una (presunta) ritrovata assoluta liberazione della donna dal maschilismo, la quale storicamente trascende di gran lunga anche dal mero contesto della ricorrenza celebrata.

Né mi stupisce che proprio la vendoliana Laura Boldrini, attuale Presidente della Camera, pontificando come paladina del fronte militante femminista sul femminicidio, celebri una confusa “liberazione” puntando poi all‘abolizione della femminilità manifesta della donna entro lo schiavizzante paternalismo del Leviatano. Le finalità ideologiche così come il suo protagonismo egocentrico ed inopportuno di tali politicanti in carriera emerge chiaramente; a poco serve nasconderle dietro al fittizio tema del “crimine di genere” o a casi di cronaca di vera violenza subita da altre donne, il tutto al fine di non subire satira e contestazioni da parte del popolo sovrano sulla sua mediocrità di politico (e che va invece liberamente denunciata!).

Ma se la retorica del femminicidio viene instillata nelle menti delle persone e delle donne quale ennesima “emergenza sociale a livello nazionale” tale da necessitare nuove risorse da reperire per task force governative, nuovi diritti positivi e legislativi, di maggiori controlli, regolamentazioni e limiti al web, di più tutele “politicamente corrette” verso le femmine italiane sul piano giuridico, sociale, politico, culturale e televisivo (nei contenuti e palinsesti), il rischio concreto è che tali misure si rivelino giuridicamente, socialmente, politicamente e culturalmente controproducenti e in sé pericolose.

La psicosi è funzionale al tentativo coercitivo del legislatore di “correggere e moralizzare” le persone e i loro comportamenti verso una presunta “sacra ed ideale dignità etica” di Stato secondo il femminismo di Palazzo, la quale esula dalla eventuale presenza o meno di violenze sulle donne. Tutto questo ci porterebbe ad un’estensione della soglia di reato “alla dignità” a scopo preventivo che ridurrebbe il nostro grado di civiltà e di libera e pacifica interazione interpersonale ed inter-sessuale tra uomini e donne. Paradossalmente proprio tali tutele ci porterebbero ad un fondamentalismo sessuofobico e liberticida di Stato in ambito legislativo e sanzionatorio non differente da quello dei Paesi misogini mediorientali, nonostante l’opposta intenzionalità dei legislatori. Ma laddove il reato è regolato dalla morale, esso diviene molto spesso un peccato ideologico regolato e sanzionato da chi comanda a sua discrezione.

La vera tutela degli individui, comprese le donne, parte da una maggior auto-responsabilità individuale e dal buon senso nell’affrontare le situazioni. E’ miope e sbagliato porre la cronaca quale statistica al servizio del legislatore, il tema della violenza contro le donne rientra nel contesto del violento uso della coercizione, la quale non contempla generi o categorie specifiche laddove si attenta a un diritto naturale. Il legislatore non deve affrontare la questione nel miope proposito di redistribuire “consensi” al fine di rafforzare la sua immagine di “benigno” burocrate, unicamente a beneficio delle lobbies femministe; le quali dei problemi e della violenza nei confronti delle altre donne hanno solo un cinico ed utilitario interesse.

E’ invece necessario garantire il rispetto e l’applicazione, da parte degli organi giudiziari competenti, dell’attuale vigente Codice penale relativo a quanto già previsto come sanzioni per i reati di omicidio e di violenza contro le persone; inoltre è necessario iniziare a responsabilizzare le donne e chi sente a rischio la propria incolumità personale, garantendo a questi soggetti una maggior adeguata possibilità di deterrenza ed autodifesa individuale. Il termine ‘femminicidio’ così come promosso e veicolato nella società dal femminismo statolatra è una fallacia culturale in primo luogo di tipo metodologico-descrittivo della realtà e in secondo luogo di senso, specie laddove si voglia ancora parlare di parità di tutti gli individui davanti alla legge.
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Femminicidio, l’uso politico da parte del femminismo della violenza sulle donne

Consiglio di linkarsi, anche se si tratta di giornalisti leghisti.
L'articolo ha molti link segnati in rosso.
Praticamente racchiude tutto lo scibile antifemminista.
E' un buon lavoro.
Trattandosi di una testata schierata politicamente, non mi sembra il caso di ribloggarlo.
« Ultima modifica: Giugno 03, 2013, 15:19:21 pm da vnd »
Vnd [nick collettivo].

Offline COSMOS1

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oh, finalmente qualcuno che fa il parallelo femminismo-marxismo
che mi abbiano plagiato?  :cool:
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Offline COSMOS1

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l'articolo è interessante e mi ha fatto venire un sospetto: che la retorica sul femminicidio e in generale il donnismo finirà in autogol. Perchè sarà anche vero che più grosse le spari e più ti credono, ma non ne sono del tutto sicuro. Questi articoli mi fanno sperare che prima o poi la gente si svegli e per chi usa questi sistemi infami i giochi si chiudano.
In questa ottica forse, forse, le vere femministe dovrebbero combattere con forza queste menzogne, perchè le prime a sputtanarsi sono proprio loro.
Un po' come i primi ad avere interesse a combattere l'immoralità del clero sono proprio i cattolici...
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Offline Mercimonio

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mah ! a me sembra di vedere che fino a che' uno non gli caga nel suo orticello di tutto il resto non gli puo' fottere di meno.

io spero il numero di divorzi arrivi al 70-80% perche' e' l'unico modo possibile per cui la gente si possa "svegliare".

o meglio, sono gli uomini che si devono svegliare, alle donne sposarsi va benissimo e conviene sotto ogni prospettiva, non hanno nulla da perderci solo da guadagnarci.

la cosa tragica e' che ci saranno padri di famiglia che consigliano alla figlia di sposarsi il pollo e al figlio maschio di NON sposarsi e di non convivere e di non fare figli o di farli all'estero se proprio !

a questo si arrivera' !