Sai... non saprei proprio quanto peso dare a queste affermazioni.
Per tre ragioni:
- il tasso di alfabetizzazione,
- il latifondismo;
- la disponibilità al tradimento da parte della nobiltà meridionale.
E allora, è innegabile che vi siano state industrie e ferrovie ma... è anche vero che la nobiltà ed il popolo non erano gestiti con metodo.
Posso assicurarti che per quando indegni fossero stati i Savoia, i militari avrebbero dato la loro vita per il Re, anche nella seconda guerra mondiale.
Per alcuni la fedeltà continuò anche dopo il tradimento della fuga e dell'abbandono e si realizzo nella Resistenza e nella fedeltà al giuramento.
Perché, parliamoci chiaro, se non fosse stato per gli ufficiali del regio esercito, all'epoca in maggioranza nobili, le bande partigiane avrebbero finito per farsi concorrenza l'una con l'altra, come banditi.
Gli eroi....
Gli eroi del Risorgimento erano per di più nobili....
A loro dava fastidio che l'ufficialotto autriaco passasse loro davanti nelle file all'ufficio postale.
Se ancora oggi il livello d'educazione è più alto in Veneto che in altre regioni italiane (lo dico per esperienza diretta), posso credere che la dominazione austriaca abbia fatto bene e che, da parte di qualcuno, ci sia il ricordo del rimpianto delle confessioni dei bisnonni.
E poi... alcuni tra gli eroi citati, visti dall'altra parte erano traditori...
Perché tradirono? Erano agenti sabaudi infiltrati, massoni o volgari venduti?
Quanti furono? Furono più o meno dei traditori comandanti del Rd2S?
Beh... questo ce lo dice la Storia... Lo si può misurare con l'esito delle guerre che i sabaudi persero o vinsero contro di loro.
Perduta l'indipendenza i settori produttivi dell'ex reame borbonico entrarono in una profonda crisi (Fonte : Egidio Sterpa, Anatomia della questione meridionale, pag. 6-7, Editrice Le Stelle, Milano 1878) . Finché il nuovo Stato non avviò una politica di industrializzazione (1878) le ripercussioni dell'annessione prima e le politiche doganali adottate poi, segnarono la fine delle non più "protette" imprese meridionali rispetto alla concorrenza europea ed italiana. (Fonte : Giustino Fortunato, Il Mezzogiorno e lo stato italiano; discorsi politici (1880-1910), vol.2, Laterza, 1911)
Secondo le ricostruzioni di Nitti (Fonte : F.S. Nitti, Nord e Sud, Torino, 1900
http://www.bibliotecadigitalefondazionegramsci.org/index.php?option=com_flippingbook&view=book&id=3:opuscolo-171) le consistenti ricchezze del regno, oltre a contribuire in modo preponderante alla formazione dell'erario nazionale, furono destinate prevalentemente al risanamento delle finanze di regioni settentrionali compromesse dalla sproporzionata spesa pubblica sostenuta dal Regno di Sardegna in quegli anni, cioè allo sviluppo delle province del cosiddetto "triangolo industriale" (Fonte :Nicola Zitara, L'Unità d'Italia: nascita di una colonia, Milano, 1971, p.37) (Fonte : Egidio Sterpa, Anatomia della questione meridionale, pag.152/161 (Francesco Saverio Nitti), Editrice Le Stelle, Milano 1878) . Il debito pubblico piemontese crebbe nel decennio precedente al 1860 del 565%, producendo come effetto un aumento delle tasse (furono introdotte negli stati sardi 23 nuove imposte negli anni '50 dell'800), la vendita dei beni demaniali (come lo stabilimento siderurgico di Sampierdarena) e la necessità di contrarre grandi prestiti, rimettendo in questo modo le sorti dello stato sabaudo nelle mani di alcuni grandi banchieri (come i Rothschild) (Fonte : Morya Longo, Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2011) . Al contrario nello stato borbonico, riporta Giacomo Savarese (Ministro e Consigliere di Stato nel 1848), il debito pubblico corrispondeva al 16,57% del PIL ed esistevano solo 5 tasse tramite le quali le rendite pubbliche in quegli anni aumentarono da 16 milioni a 30 milioni di ducati "per effetto del crescere della ricchezza generale". (Fonte : Giacomo Savarese, Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860, Napoli 1862)
Recenti ricerche (Fonte : Rivista di Politica Economica) hanno evidenziato come prima dell'Unità non esistessero sostanziali differenze economiche tra sud e nord in termini di prodotto pro capite e industrializzazione (Fonte : Daniele - Malanima) (Fonte : Banca d'Italia - n. 4 - Attraverso la lente d’ingrandimento: aspetti provinciali della crescita industriale nell’Italia postunitaria) e come il divario cominciò a presentarsi invece negli ultimi anni dell'800, allargandosi da quel momento in poi fino a creare l'attuale dualismo tra centro-nord e Mezzogiorno, all'origine della cosiddetta questione meridionale messa in evidenza proprio in quel periodo da politici e studiosi del sud come Sidney Sonnino, Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Guido Dorso, Francesco Saverio Nitti e Antonio Gramsci. Le difficoltà economiche e le speranze deluse del proletariato meridionale negli anni successivi all'Unità d'Italia furono all'origine della lotta armata che infiammò le campagne dell'ex regno borbonico, definita "lotta al brigantaggio". La povertà portò inoltre alla formazione di un massiccio flusso migratorio, assente in epoca preunitaria (Fonte : Massimo Viglione, Francesco Mario Agnoli, La rivoluzione italiana: storia critica del Risorgimento, Roma, 2001, p. 98) (Il dato per il centro-nord è costruito aggregando i dati relativi alle regioni Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia, Toscana, Umbria e Marche; il dato per il centro-sud è costruito aggregando i dati relativi alle regioni Lazio, Campania, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia) . Il declino economico del sud divenne percepibile anche a causa delle diverse proporzioni che assunse il flusso migratorio tra le varie parti del paese: se nel periodo 1876-1900, su un totale di 5.257.911 espatriati, la gran parte degli emigrati all'estero furono abitanti delle regioni centro-settentrionali (il 70,8% partì dal centro-nord e il 29,2% dal centro-sud) (Fonte : Giustino Fortunato, Il Mezzogiorno e lo stato italiano; discorsi politici (1880-1910), vol.2, Laterza, 1911, p.329) , in quello 1900-1915, su un totale di 8.769.785 esuli, la tendenza si invertì ed il primato migratorio passò alle regioni meridionali, con una riduzione degli emigrati settentrionali e una crescita di quelli dal Mezzogiorno (il 52,7% partì dal centro-nord e il 47,3% dal centro-sud) (Fonte : Emilio Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Einaudi 1947, p.37): in particolare, su meno di nove milioni di emigrati, quasi tre milioni provenivano da Campania, Calabria e Sicilia (Fonte: Rielaborazione dati Istat in Gianfausto Rosoli, Un secolo di emigrazione italiana 1876-1976, Roma, Cser, 1978) .
Lo stesso Giustino Fortunato, benché avesse posizioni molto critiche nei confronti delle politiche borboniche e fosse un fervido fautore dell'unità nazionale, sostenne che il danno maggiore inflitto all'economia del Mezzogiorno dopo l'unità d'Italia fu causato dalla politica protezionistica adottata dallo stato italiano nel 1877 e nel 1887, che a sua detta determinò "il fatale sagrifizio degl'interessi del sud" e "l'esclusivo patrocinio di quelli del nord", in quanto cristallizzò il monopolio economico del nord sul mercato italiano (Fonte : Giustino Fortunato, Il Mezzogiorno e lo stato italiano; discorsi politici (1880-1910), vol.2, Laterza, 1911, p.329) . A supporto di questa tesi ci sono gli studi condotti dallo storico dell'agricoltura italiana Emilio Sereni, il quale individuava l'origine dell'attuale questione meridionale nel contrasto economico tra nord e sud che si venne a creare in seguito all'unificazione dei mercati italiani negli anni immediatamente successivi alla conquista militare del reame, affermando che: "Il Mezzogiorno diviene, per il nuovo Regno d'Italia, uno di quei Nebenlander (territori dipendenti), di cui Marx parla a proposito dell'Irlanda nei confronti dell'Inghilterra, dove lo sviluppo capitalistico industriale viene bruscamente stroncato a profitto del paese dominante" (Fonte : Emilio Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Einaudi 1947, p.37). Gradualmente le manifatture e le fabbriche del Mezzogiorno decaddero: l'industria locale cedette sotto i colpi combinati dell'industria forestiera e soprattutto di quella settentrionale, che grazie a politiche protezionistiche venne messa dai governi del tempo nelle condizioni ottimali per poter conquistare il monopolio del mercato nazionale (Fonte : Emilio Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Einaudi 1947, p.38) . Il sud quindi fu avviato ad un processo di agrarizzazione, e la massa di lavoro che gli operai e le popolazioni contadine impiegavano in altri tempi nelle lavorazioni connesse all'industria restò inutilizzata, provocando un marasma non solo industriale ma anche agrario. Se nelle campagne il malcontento delle masse contadine prendeva la via della rivendicazione legittimista, nei centri industriali del vecchio reame si verificò in quegli anni la nascita di nuclei socialisti ed anarchici (è da ricordare che le prime sezioni italiane ad aderire all'Internazionale nacquero a Napoli e a Castellammare pochi mesi dopo la nascita dell'organizzazione a Londra ) (Fonte : Emilio Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Einaudi 1947, p.122) a cui aderirono operai e giovani intellettuali di estrazione borghese (come Carlo Cafiero, Emilio Covelli, Francesco Saverio Merlino, Errico Malatesta ed Antonio Labriola). (Fonte : Emilio Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Einaudi 1947, p. 121) Questo processo avvenne gradualmente nei primi decenni di vita del Regno d'Italia, e già nel 1880 l'industria italiana era ormai per gran parte concentrata nel triangolo industriale. La questione meridionale emerse durante il processo di formazione e di assestamento del mercato nazionale. Essa, con i suoi vizi d'origine, acquistò un'acutezza sempre maggiore nel corso dello sviluppo capitalistico dell'economia italiana, complicandosi a mano a mano di nuovi fattori sociali e politici. (Fonte : Emilio Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Einaudi 1947) .