Autore Topic: FAS ammette: a pagare maggiormente la crisi sono gli uomini: si suicidano di più  (Letto 990 volte)

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Online Massimo

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Leggo oggi su FAS che esiste effettivamente un problema di genere nell'epidemia dei suicidi per la crisi economica: i suicidi sono
maschili per la grande maggioranza dei casi. Va subito detto a onore di FAS che non è stata nemmeno ipotizzata la spiegazione
di comodo sulla presunta "fragilità" maschile contrapposta al coraggio di vivere e alla meravigliosa vitalità delle donne. Anzi, è
stata data una spiegazione realistica che avremmo potuto anche dare noi: le donne possono riciclarsi tranquillamente nei ruoli
di cura senza essere criticate, anzi essendo lodate per questo e non vi è per loro la condanna e il disprezzo sociale nel caso in
cui diventano precarie o disoccupate mentre invece gli uomini non possono riciclarsi, non hanno spesso alternative e non hanno
nemmeno risorse per ricominciare, dopo che hanno speso una vita intera e i loro mezzi per la famiglia. Non resta loro più nulla
per se stessi e non sono aiutati da nessuno, spesso nemmeno dalla famiglia di origine: isolati, derisi, evitati, criticati chi li può
sostenere? Gli aiuti vengono destinati ad altri così che molti non reggono alla mancanza di prospettive e si suicidano. Ci sarebbe
da applaudire, se non fosse che come al solito, la colpa viene data al patriarcato: Gli uomini soffrirebbero meno la disoccupazione
se la famiglia non fosse strutturata in maniera patriarcale e se in famiglia i carichi e le responsabilità (e il potere) venissero
distribuiti equamente senza tenere conto del sesso. Insomma, dopo un avvio promettente, alla fine la ricetta è sempre la
stessa. E anche la musica è sempre la solita: "decidetevi a rendervi conto, cari maschietti, che il patriarcato fa molto male
anche a voi: impegnatevi insieme a noi femministe per eliminarlo e costruire una famiglia e una società diversa. Solo così
potrete godere anche voi delle bellurie di una società "paritaria": se resterete disoccupati non vi suiciderete più. Anzi, anche
voi, come noi donne, potrete riciclarvi felici e beati nei ruoli di cura che vi verranno affidati. E a vivere". Felici e beoti.  Amen.

Offline COSMOS1

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thanks Sara

Citazione
Piuttosto che il suicidio troviamo un’isola per praticare anticapitalismo Da Abbatto i Muri:
Un altro uomo, un ragazzo in realtà, perde il lavoro e si dà fuoco. La disoccupazione in Italia è altissima e a essere maggiormente disoccupate secondo i dati Istat sono le donne. Tuttavia se guardiamo questa analisi dei dati relativi i suicidi per motivi economici si può vedere che sono gli uomini che si suicidano di più.
Il dato è del 2012 e parla di 165 suicidi e 70 tentati suicidi. 158 uomini e 7 donne si sono suicidati e 59 uomini e 11 donne hanno tentato di farlo. Da Gennaio a Ottobre del 2013 la tendenza non cambia. 114 uomini e 5 donne. Età media delle persone che maggiormente si suicidano va dai 45 ai 64 anni. Nel 2013 c’è stato un incremento dei suicidi tra persone con un’età tra i 35 e i 44 anni. Avviene soprattutto nelle regioni del centro/nord con il Veneto in prima fila. Nel 2013 Sicilia e Campania hanno registrato casi in aumento. Si suicidano impiccandosi, lanciandosi nel vuoto, sparandosi un colpo in testa, dandosi fuoco, talvolta in azioni dimostrative e pubbliche. A morire sono per lo più imprenditori e disoccupati. Ragioni analizzate: crisi economica, perdita posto di lavoro, debiti, difficoltà riscossione crediti. Il dato resta coerente anche per i tentati suicidi.
Non so se chi ha fatto queste ricerche ha incrociato i dati con episodi tragici che talvolta precedono un suicidio. Ma resta il fatto che in tutto ciò io ci vedo un problema di genere.
La crisi economica, la disoccupazione, i debiti, colpiscono tutta la famiglia salvo che non siano strutturate in modo tale da nominare quale unico responsabile economico il marito/padre/uomo. Se è lui a essere titolare di attività e destinatario di reclami, richieste di pagamento, protesti, pignoramenti, pressioni esattoriali è lui che subisce più pressioni, che sente il peso della responsabilità del destino di tutta la sua famiglia. E’ quello che ha impegnato risorse e vita per tentare di costruire qualcosa da lasciare ai figli e poi non ha più nulla per ricominciare. E’ quello che è sostenuto da moglie e figli nelle imprese familiari e si disperano tutti, ma alla fine è lui che va in depressione e cede, si toglie la vita e lascia parenti e ceneri del disastro che gli è capitato per dormire, spegnersi e non pensare a nulla più.
Di donne disoccupate, precarie, depresse, senza speranza, indebitate, ce ne sono tantissime ma secondo questi dati si suicidano meno. Perché possono riciclarsi nei ruoli di cura o perché lo stigma sociale che pesa su di loro non è tanto e tale da farle smettere di vivere. Perché non possono, molto spesso, concedersi nessuna battuta d’arresto giacché loro è il compito di occuparsi di tutti. A soffrire e risentire di precarietà e disoccupazione sono tante donne indipendenti, autonome, che non si realizzano in casa a fare le mogli e le madri e hanno necessità di fare altro. Ma è davvero difficilissimo. Per ogni donna che ha tentato di trovare lavoro, per quanto intraprendente sia, rifiutata in mille colloqui, non più in grado di pensare a se stessa, può esserci forse una famiglia presso cui tornare, genitori anziani cui badare, qualcun@ che barattando cura per mantenimento la sostiene. Inaccettabile per tante che non si rassegnano a essere risospinte in quel ruolo ma così più o meno è. Per un padre di famiglia che ha messo in piedi un’impresa e deve chiudere i battenti sommerso dai debiti chi mai può esserci a sostenerlo? Quale ruolo sociale gli può essere destinato e può essere disposto a sostenere? Come saprà riciclarsi? Come saprà disertare il suo genere per mettere a disposizione altre risorse?
In Italia il gap che separa donne e uomini nel lavoro è più che evidente. Quel gap è istigato da politiche economiche dello Stato che organizzano un welfare in cui le donne saranno produttive e riproduttive dentro casa e gli uomini dovranno esserlo fuori. Con ciò ne deriva che sulle donne pesa uno stigma sociale se si rifiutano di riprodursi e occuparsi dei lavori di cura. Sugli uomini pesa lo stigma relativo il mancato mantenimento del nucleo familiare. Se non sono in grado di fare fronte alle spese, se hanno consumato tutta la vita per una casa, mutuo, impresa, lavoro, inseguendo un’idea di benessere e consumo che pensavano potesse renderli più felici, infine non sanno da cosa o dove ricominciare.
Quello che emerge dai dati racconta un’Italia divisa per generi nella quale si pensa poco a eliminare le condizioni che realizzano quelle differenze e piuttosto si utilizzano queste cifre per legittimare ulteriori stereotipi. Per chiarire: il fatto che una precaria forse non si suicida e il precario invece si non significa che servono regole sociali per cui bisogna prima risolvere il problema economico a lui affinché a cascata lui risolva quello di tutto il nucleo familiare. Perché non è avallando lo stereotipo e riparando la debolezza divisa per generi che si risolve il problema. Piuttosto bisognerebbe intervenire a supporto di una economia disastrata che deve essere aggiustata per il bene di tutt*.
Ma è fondamentale capire come la cultura e gli stereotipi di genere incidono anche in questo. Perché un uomo non senta su di se’ il peso di debiti e disoccupazione bisogna andare alla radice. Esattamente come bisogna andare alla radice quando parliamo di condizioni di depressione e insofferenza di donne che non tollerano più sorbirsi ruoli di cura.
Andare alla radice a cominciare dal fatto che le responsabilità vanno divise tra tutt* a prescindere dal sesso, ma soprattutto a cominciare dal fatto che il lavoro deve essere una opportunità per chiunque. Se io e lui, io e loro lavoriamo, in una relazione sociale solidale di mutua assistenza collettiva, a prescindere da chi perde il lavoro e chi no, infine abbiamo una possibilità per restare in piedi tutt*. Se invece l’investimento è solo a suo favore perché io dovrei restare a casa a fare figli e a compiere lavoro di cura, quando le cose andranno male non ci saranno grandi possibilità.
Gli effetti del capitalismo sono anche questi. Ti fa sentire incapace e fallit@ se non riesci a realizzare più spesa, più consumo, ovvero ti mette al muro mentre tenti di restare in piedi per dare di che campare a te e ai tuoi dipendenti. C’è da rivedere la questione per generi ma ripensando anche il proprio modello di vita. Se non hai niente non possono toglierti niente e alla fine quello che conta non sono le cose, lo dico da precaria che fatica per tentare di sopravvivere ogni giorno, con il terrore che una sola spesa in più possa far travasare mancanza di prospettiva e disperazione. Quello che conta sono gli affetti. Quello che conta è smettere di avere paura.
Paura di minacce esattoriali, intimidazioni morali, della perdità di se’ assieme alla perdita delle cose. Paura di non avere niente, non poter essere più niente. Paura di vivere, svegliarsi, respirare. Paura di arrabbiarsi, non essere sufficientemente dignitosi e legalitari. Paura di non riuscire più ad arginare la disperazione. Prima del suicidio c’è la rabbia. Ed è la rabbia, la lotta, che cura la depressione. Non fatevi piegare i sogni, la speranza che qualcosa possa cambiare e per qualcosa non intendo che un giorno riuscirete a comprarvi un Suv o una villa al mare. Intendo che potrete vedere le cose in maniera differente, incluso il fatto che di Suv e ville non avrete proprio voglia. Che vi capiterà di non  avere niente ma avrete una gran voglia di ridere e costruire luoghi sociali in cui si mettono in comune sofferenze ma anche creatività e progetti di futuro. Spazi sociali in cui si smette di dare addosso all’immigrato, le donne, gli uomini, il gay, la lesbica, la trans, al capro espiatorio di turno e si comincia a ragionare di modelli di vita totalmente nuovi, di sogni che non riguardino il pezzetto di capitalismo che vorremmo per noi, tenendo ben presente che alcun* tra noi quella montagna non la vogliono proprio scalare, che non ci riguarda né ci interessa e che a una società che decide per noi destini in cui puoi solo suicidarti o fare l’imprenditore rampante preferiamo quella in cui diamo valore ad altre cose.
Se domani si decidesse di destinare trasgressori delle leggi di ricchi e potenti a una colonia penale forse lì si potrebbe realizzare una società autosufficiente con ritmi ed esigenze scandite da necessità reali e non indotte dal mercato e dalla perenne spinta al consumo. Altrimenti ci autoesiliamo da sol*, mondo di persone vittime del capitalismo. Avete in mente un paese, un luogo, un’isola da occupare in cui esistere per nostro conto?


però, però ...  :hmm:

senza spirito di parte (nel senso che apprezzo nello scritto di Sara il suo tentativo di uscire dalla contrapposizione di genere imposta dal femminismo) mi verrebbe però da dire a Sara che i problemi economici non si risolvono portandoli su un terreno di genere. Il peso della crisi economica forse sarà (chissà) meno pesante se aboliamo i ruoli di genere e maschi e femmine si assumeranno in modo indifferenziato ruoli di cura e di sostegno economico. Ma di fatto dal punto di vista delle disuguaglianze economiche siamo ancora alle manovre di depistaggio.

La povertà, quella per la quale nell'ultimo decennio a livello mondiale ci hanno rimesso i poveri, ma in occidente ci ha rimesso la classe media, è anzitutto conseguenza dell'ignoranza circa le cause stesse della povertà.
La mancanza di lavoro non è una causa ma un effetto della povertà.
La causa della povertà è la mancanza di risorse produttive (terra, attrezzi, cultura, animali, soldi, organizzazione).
La collocazione del conflitto di genere nel quadro generale delle risorse a disposizione ha un senso. Collocare la povertà all'interno dell'orizzonte del conflitto di genere non ha senso.
Dio cè
MA NON SEI TU
Rilassati

Offline Vicus

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Citazione
senza spirito di parte (nel senso che apprezzo nello scritto di Sara il suo tentativo di uscire dalla contrapposizione di genere imposta dal femminismo) mi verrebbe però da dire a Sara che i problemi economici non si risolvono portandoli su un terreno di genere. Il peso della crisi economica forse sarà (chissà) meno pesante se aboliamo i ruoli di genere e maschi e femmine si assumeranno in modo indifferenziato ruoli di cura e di sostegno economico. Ma di fatto dal punto di vista delle disuguaglianze economiche siamo ancora alle manovre di depistaggio.
Una delle chiavi del declinante successo del femminismo è nel far credere che le donne siano una categoria omogenea, in una antiquata visione di contrapposizione di classe. Una conseguenza che torna sicuramente comoda è che le donne, coi loro falsi problemi e falsi bisogni, si sostituiscono ai poveri, che passano in secondo piano nel dibattito mediatico.
« Ultima modifica: Dicembre 26, 2013, 23:07:48 pm da Vicus »
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.