Per chi vuole, c'èun'interpretazione molto più approfondita del grande Dal Bosco:
Demenza e Demonismo
L’irresistibile ascesa di Gucci Boy
Più di recente, un amico mi ha fatto conoscere la storia di Bello Figo Gu, alias Gucci Boy, Bello Figo Gu, Bello Gu, Bello Figo, Figo Verkel, Bello Swag. Un ragazzino negro che vive a Parma, arrivato dal Ghana con la famiglia una decina di anni fa.
Il giovinotto africano si getta, come moltissimi coetanei, nel mondo dell’hip hop autoprodotto, con tutti i crismi del caso: musiche di semplicità inverosimile, testi ripetitivi e imbecilli, video girati nel parcheggio di casa dove si imita l’oscena opulenza dei video rap americani (macchinoni, catenazze d’oro, abiti firmati, mazzette di banconote e fanciulle discinte a go-go) come si può: ecco una FIAT Uno violetta, ecco un mazzo di banconote da venti, ecco le sporte di Zara che dovrebbero indicare un acquisto presso la catena di prontomoda cheap che epperò per Bello Figo è sinonimo di lusso sfrenato, manco fosse una boutique di via Montenapoleone.
La tragicomica ironia dell’era di internet: un negretto che non parla nemmeno l’Italiano, che incespica e talvolta si lascia andare in verbigerazioni indecifrabili tra l’inglese e chissà quale vernacolo tribale, diviene più popolare di artisti sui quali le major investono decine di milioni di dollari.
La stella di Bello Figo è però lanciata. Ogni suo videoclip, per quanto di povertà irritante (guardatelo, non tenta nemmeno di sincronizzare i labiali!), raggiunge una quantità di visualizzazioni impressionante. Non importa quanto siano dementi i suoi messaggi. Nella canzone «Pasta con tonno» dice «Tuti sano che mangio pasta pasta pasta / con tonnò / con tonnò / con tonnò /Posso spendere anche 10 mila euro per il tonnò!». La serie «alimentare» continua con «Pizza con Wurstel» (da sempre una scelta di menù che ha teneramente dell’infantile), «Al Pranzo» (la grammatica non è il forte del «cantante»), «Kebab maionese e Keciop» (sic) («Metti mayonese e ketchup nel Kebab / le mie f***e bianche mi regalano kebab», «Prosciutto», «McDonald», «Frigoriko». Perle da centinaia di migliaia di click. Poi l’ulteriore serie che potremmo definire «oggetti del desiderio»: «PES 2015» dal nome del videogame di calcio per console, «Iphone 6 plus», telefonino che il nostro agogna, e poi ovviamente «BionDa» dove si intuisce per l’ennesima volta, diciamo così, la preferenza del nostro per il sesso interrazziale- «Bionda io ti compro Honda / sono ricco come Obama» dice il negrettino, ridando al cognome del Presidente americano la sua originaria pronuncia africana.
Mi colpisce una cosa: Obama ricco? Ammetto che la categorizzazione di Barack come uomo abbiente un po’ mi spiazza. Obama è potente, intelligente, avrà mille qualità… Ma definirlo ricco? Il presidente dell’Assemblea Regionale Sicilia guadagna di più. Anche quello della provincia autonoma di Trento. In realtà, il ragazzino qui si lascia sfuggire qualcosa di importantissimo. È appunto con la serie di canzoni intitolate con il nome di vari personaggi noti che comincia a formarmisi nella testa qualche idea strana.
Renzi come Idi Amin Dada
«Belen Rodriguez» «Bruno Vespa» «Maria De Filippi» «Beppe Grillo» «Elisabetta Canalis» «Barbara Durso» (sic) «Alessia Marcuzzi» «Silvio Berlusconi» «Balottelli». La base musicale spesso è la stessa. I testi di queste canzoni non dicono nulla, assolutamente, se non una indescrivibile, magmatica, patologica identificazione del cantante con questi nomi, anche quando si tratta di donne. «Io sembro Belen Rodriguez / Io sono Belen Rodriguez» «Io sono Silvio Berlusconi» «Sono tropo Bruno Vespa» «Sembro Bepe Grilò» «Come Barbara Dursé» (sic) «Sono swag Maria De Fi».
Al nome dei personaggi televisivi del caso, si aggiungono parole che richiamano uno status desiderato («ricco» «soldi» «scopare»). «F**he scopano me perché sembro Bellusconi / sua mamma scopa me perché sembro Bellusconi / Tuti maschi son gelosi perché sembro Bellusconi».
Le volgarità, l’insensatezza totale – parole che ipotizziamo talvolta sono buttate lì per fare ogni tanto una mezza rima – si alternano a proclami disarmanti: «Tutte le mie f**he sono bianche!» rivendica all’improvviso il nostro nel pezzo più recente, «Matteo Renzi».
«Alla mia f**a sembro Matteo Rensi / giovane / presidente / ricco / Matteo Rensi / Matteo Rensi/ Figo Rensi / Bello Rensi / pantaloni sotto il culo / sotto il culo Rensi / tutti i miei amici Rensi / sono troppo Rensi / Presidente dell’Italia / Italia Rensi / che tette Rensi».
La canzone veleggia verso il milione di views. «La mia f***a Rensi / sono troppo Rensi / Presidente dell’Italia / Italia Rensi»
Innazitutto, va notato come anche Renzi, come nel caso di Obama, sia percepito come «ricco»: questo piccolo, ingenuo dettaglio in realtà spiega l’intero fallimento del continente africano. L’uomo potente deve essere ricco — e possibilmente anche corpulento: prendete un politico negro qualsiasi, da Idi Amin a Jacob Zuma, da Bokassa a Mugabe. La cleptocrazia, la corruzione dei vertici che è di fatto il motivo del disastro politico dell’Africa postcoloniale, si spiega così.
Il problema è che agli africani il presidente corrotto va più che bene: le canzoni di Bello Figo Gu ce lo dimostrano. Il Presidente deve essere ricco, la corruzione è un dettaglio morale davvero secondario. Il Presidente, a prescindere dalle sue fattezze, deve essere oggetto di venerazione femminile, e accoppiarsi con quante più donne possibile. Come l’Imperatore (la cerimonia di incoronazione fu la più costosa della storia, si dice) cannibale Bokassa, e la sua casa piene di mogli, che spesso erano spie mandate da tutti i governi della terra (si fecero notare la moglie cinese e quella rumena). O se volete restare nel politicamente corretto dei nostri giorni, pensate ai G20 con Zuma, l’erede di Mandela, che porta agli incontri delle first ladies internazionali manda cinque mogli cinque.
Il potere è solo misurabile con il danaro e la voracità sessuale più svergognata: altrimenti, perché faticare per prenderlo? Questo è quello che traspare dai video rap e dal governanti africani. Il caso di Bello Gu, propaggine di questo spirito africano che la multicultura comincia a trapiantare anche da noi, è significativo: la demenza di questo moretto di famaci spiega come in Italia sia penetrata, tra un barcone e l’altro, il germe di una mentalità barbara e orrenda, la stessa che ha fatto fallire (economicamente, moralmente, umanamente) l’Africa, continente ricco come nessun’altro.
Ogni canzone di Bello Gu ci parla in realtà di una passività assoluta verso un potere percepito positivamente come predatorio in totale assenza di codici morali.
La lezione degli Hauka
Ma c’è di più. Ricordo un vecchio documentario del francese Jean Rouch, Les maitres fous, del 1955. Un documento incredibile girato proprio in Ghana, la terra di origine di Gucci Boy. Rouch fu mandato in Africa dal governo francese per realizzare documentari sulle colonie, ma venne rapito dalla realtà umana che vi trovò, e iniziò a girare diecine di film che ritraevano cosa succedeva laggiù.
Les Maitres fous, uno dei suoi primi lavori, è uno di quei film che gode di fama immortale. Il regista teatrale Peter Brook lo prescrive ai suoi attori. Non c’è corso di antropologia che non lo faccia vedere. Eppure all’epoca fu attaccato sia in Africa che in Europa, e perfino bandito dal Ghana e da altri stati dell’Africa in procinto di divenire «libera» (diciamo così…) con i processi di decolonizzazione del 1960.
Nel filmato vediamo degli africani – appartenenti ad un movimento denominato Hauka – ingaggiare riti di possessione tipici del Vodù. L’armamentario è quello classico: spasmi, posture inspiegabili, occhi rovesciati, uno strano liquido bianchissimo che esce dalla bocca dei posseduti. Con il particolare che questi Hauka, invece che invocare le divinità africane, vogliono essere posseduti dallo spirito dei loro colonizzatori occidentali: il «luogotenente», il «governatore», il «generale», il «conducente di locomotiva», la «moglie del dettore». Con queste cerimonie, che in parte scimmiottavano le liturgie civili militari che vedevano compiere ai bianchi (guardate i fucili finti, le marce, il «palazzo del governo» in una capanna), gli Hauka volevano rubare, per mezzo della trance, la «forza vitale» del dominatore bianco.
Potete vedere il film con i vostri occhi: lo spettacolo non è dei più edificanti, specie quando si raggiunge il culmine della spirale della possessione — i posseduti sacrificano e mangiano un cane, avventandosi però prima sulla bestia appena sgozzata per poterne bere il sangue caldo. Segue discussione sul fatto che il cane vada cucinato o meno, con effusione del sangue sacrificale della povera bestiola sull’idolo del «governatore», una statua che fa da centro all’orrendo sabba. Pregherei il lettore di prendersi quando può una trentina minuti e guardare tutto il documento. Tanto per capire di cosa parliamo
Non so a voi, ma a me l’analogia pare lampante. Bello Figo, con le sue canzoni in cui si identifica con Beppe Grillo, Berlusconi, Maria De Filippi, Vespa, Renzi o Belen Rodriguez fa esattamente la stessa cosa dei suoi connazionali Hauka. Chiede di essere «posseduto» dai suoi dominatori. I nostri dominatori.
In fondo, è un antico processo magico delle sue terre portato in Italia, tra gli scroscianti applausi degli utenti di YouTube.
Il programma per la possessione dell’Occidente
C’è meno da scherzare di quanto si creda, perché in fondo, il destino di Bello Figo Gu è il nostro: ogni civiltà è perduta, ogni opposizione al sistema nemmeno pensabile, si può solo sperare di essere edonisticamente cooptati nell’élite dei ricchi e famosi. Il Grande Fratello e i reality, in fondo sono i nostri riti Hauka: pensate alle serque di persone disposte a qualsiasi cosa per avere il quarto d’ora di celebrità, di succhiare la «forza vitale» dei VIP da cui si è dominati.
Sì, l’Italia, l’Occidente tutto, si africanizza. E si prepara ad un processo di possessione ridicolo e spaventoso. Internet sta dando una mano.
Un ultima cosa. Osservate il volto di Gucci Boy. Notate quelle cicatrici ai bordi degli occhi. Suppongo proprio si tratti di scarnificazioni rituali: prove dell’appartenenza ad una «casa» del Vodù. Un segno etnico religioso a cui di solito non facciamo caso, ma quasi onnipresente sugli immigrati dell’Africa nera. Potete vederle, bene evidenti, anche nel finale di Les maitres fous, quando il regista ci mostra i primi piani dei suoi protagonisti.
Un conoscente del Togo, cattolico, mi raccontava come funziona: il witch-doctor ti taglia il volto, e nasconde nelle ferite alcuni semi. È una iniziazione, e non certo alla religione di Cristo (sarà per questo che quelli dell’EIR mormorano di come vi si sottopongano anche gli Windsor quando raggiungono la maggiore età).
L’amico togolese ricordava i vescovi locali e i loro matto lavoro per far cessare questa usanza, ancora automatica per alcune famiglie pure evangelizzate. «È come un patto con il Diavolo – sosteneva serissimo – quello è il segno che sei consacrato ai demoni africani».
È inutile nasconderselo: l’istupidimento collettivo, lo svuotamento delle menti e delle anime del Primo Mondo, è negli effetti un programma di possessione. I prodromi di un piano dove la dignità dell’uomo è terminata, dove i figli di Dio siano pervertiti, lasciati alla cieca sofferenza, infine sterminati.
Conosciamo il piano, conosciamo il destino che hanno pensato per noi: fare di noi un popolo di africani senza un domani, comprabili con un paio di mutande firmate, è il sogno del potere transnazionale e dei suoi mandanti. La massa dell’umanità divenuta indefinitamente manovrabile, sacrificabile, come lo è oggi nel Terzo Mondo autogestito dai suoi dittatori poligami e cannibali.
Anche noi ci avviamo al macello della civiltà con l’espressione beota di Bello Figo: dementi e posseduti, imploranti qualche click sul tubo.
Roberto Dal Bosco