Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 76188 volte)

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #135 il: Agosto 08, 2018, 00:47:13 am »
A quel che ne so le albanesi sono piuttosto cozze* quindi non abbiamo alcuna ragione di avere a che fare con loro.

* Sempre meglio le montenegrine comunque.

Ma infatti non ho mica postato quell' articolo per invitare implicitamente chi legge a farsi piacere le albanesi...

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #136 il: Agosto 10, 2018, 00:35:57 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-la-finta-guerra-alla-mafia-189613

Citazione
Serbia: la finta guerra alla mafia

Da quando i vertici dello stato hanno dichiarato di voler combattere la criminalità organizzata, in Serbia sono stati commessi 37 omicidi a sfondo mafioso e il numero di morti è in costante aumento

09/08/2018 -  Stevan Dojčinović   Belgrado
(Originariamente pubblicato dal portale investigativo Krik  , il 2 agosto 2018)

Da quando, sul finire del 2016, lo stato ha dichiarato guerra alla mafia, gli scontri tra gruppi criminali sono diventati sempre più frequenti e brutali, comportando anche la morte di persone innocenti. La guerra alla mafia è stata dichiarata a seguito dell’omicidio di Aleksandar Stanković, soprannominato Sale Mutavi, leader di un gruppo criminale che – come è emerso dopo la sua morte – ha stretti legami con il potere politico.

I dati dimostrano che questa guerra finora non ha prodotto alcun risultato. I gruppi criminali non sono stati indeboliti, e gli scontri tra di essi hanno subito un’escalation. Da quando i vertici dello stato hanno dichiarato di voler combattere la criminalità organizzata, in Serbia sono stati commessi 37 omicidi a sfondo mafioso, e il numero di morti è in costante aumento. Solo nell’ultimo mese sono state uccise sei persone (il database degli omicidi di mafia è consultabile qui  ). Gli omicidi commessi da gruppi criminali raramente vengono risolti.

Gli scontri tra clan mafiosi diventano sempre più brutali, e ad esserne vittime sono spesso le persone non direttamente coinvolte nell’attività criminale, come dimostra l'omicidio dell'avvocato Dragoslav Ognjanović  , che ha difeso, tra gli altri, Luka Bojović, ex leader del clan di Zemun [attualmente detenuto in Spagna]. Negli ambienti criminali, l’omicidio di un avvocato non è considerato un delitto qualunque, bensì una trasgressione dei limiti. L’omicidio di Ognjanović è solo uno dei tanti casi  di omicidi di avvocati verificatisi in Serbia negli ultimi anni. Oltre agli avvocati, anche i familiari dei criminali spesso rimangono vittime degli scontri tra clan rivali, come dimostra il caso di Teodora Kaćanski, fidanzata di un criminale di Novi Sad, uccisa qualche anno fa.

Capita che rimangano feriti e uccisi anche dei semplici passanti trovatisi per caso sul luogo dello scontro. In altre parole, nessuno è più al sicuro, chiunque può essere vittima di uno scontro tra gruppi criminali nel centro di Belgrado, o in qualsiasi altra città della Serbia. Non bisogna dimenticare che tra i criminali uccisi ci sono molti giovani, ragazzi addentratisi ingenuamente nel mondo della malavita. Non si tratta di “criminali qualsiasi”, bensì dei ragazzi del nostro vicinato. È chiaro quindi che la situazione è allarmante e che chiunque può rimanere vittima degli scontri tra gruppi mafiosi che già hanno portato via fin troppe vite: dal 2012 in Serbia sono state uccise 87 persone e in Montenegro 44.

La risposta dello stato a questa situazione consiste nel negare l’esistenza del problema. Mentre si stanno moltiplicando i morti nelle automobili date alle fiamme, davanti ai ristoranti, nei garage, davanti ai palazzi residenziali, il presidente serbo Aleksandar Vučić continua a manipolare i dati  sulla criminalità organizzata, sforzandosi di convincere l’opinione pubblica che non c’è nessun motivo di preoccuparsi.

Così, ad esempio, cerca di smentire l’aumento di omicidi a sfondo mafioso citando statistiche sul numero complessivo degli omicidi commessi in Serbia (tra i quali ci sono molti omicidi in famiglia), oppure fa paragoni tra la situazione attuale e il periodo tra il 2001 e il 2002, dicendo che in quegli anni la situazione era peggiore. Il che è vero: erano anni in cui il clan di Zemun assassinava a sangue freddo i membri dei clan rivali, cercando di conquistare il sottobosco criminale serbo, e Vučić di certo ne sa qualcosa dato che all’epoca era uno dei più stretti collaboratori di Vojislav Šešelj, che intratteneva stretti rapporti con questo famigerato gruppo criminale. Il clan di Zemun è stato messo in ginocchio nel 2003 durante l’operazione “Sablja” (Sciabola), e quell’anno va considerato l’anno zero. Se volessimo paragonare l’attuale stato di cose con il periodo immediatamente successivo al 2003, dovremmo ammettere che oggi la situazione è peggiore. Quello che preoccupa è proprio il fatto che la situazione attuale sia molto simile a quella che ha caratterizzato il periodo precedente all’operazione “Sablja”.

Ci sono alcune questioni che impediscono allo stato di confrontarsi effettivamente con il fenomeno della criminalità organizzata.

Il primo problema è di carattere generale: in Serbia persiste la tendenza a piazzare nelle posizioni chiave delle istituzioni, comprese la polizia e la procura, persone che sono mere pedine al servizio del partito al governo, invece di affidare questi incarichi a professionisti. Si apprezza la lealtà piuttosto che la competenza. È chiaro che la lotta alla mafia non può essere vinta se affidata alle istituzioni guidate da persone incompetenti.

Un altro problema, ancora più preoccupante, è che lo stato, a quanto pare, appoggia almeno uno dei gruppi criminali coinvolti nello scontro attualmente in corso. Ci sono diverse prove che dimostrano che la leadership al potere intrattiene stretti legami con il gruppo del sopracitato Aleksandar Stanković. In parole povere, lo scontro principale è tra due clan montenegrini, il clan di Škaljari e il clan di Kavač, che hanno i loro alleati in Serbia. Il gruppo di Luka Bojović  è vicino al clan di Škaljari, mentre il gruppo di Sale Mutavi è legato al clan di Kavač.

Uno dei membri del gruppo di Sale Mutavi è stato impegnato a garantire la sicurezza dei sostenitori di Vučić durante la sua cerimonia di insediamento da presidente della Repubblica, mentre il figlio di Vučić è stato visto al campionato di calcio in Russia in compagnia di alcuni membri dello stesso gruppo criminale  . Questo gruppo gode del sostegno di uno dei più potenti uomini della gendarmeria serba Nenad Vučković Vučko  , il quale intrattiene stretti rapporti con il segretario di stato presso il ministero dell’Interno Dijana Hrkalović.

I leader di questo gruppo criminale, che si cela dietro al paravento del gruppo di ultras “Janjičari”, riescono quasi sempre a evitare la condanna per i delitti commessi, omicidi compresi. Le accuse contro di loro cadono per motivi poco chiari, e anche quando vengono condannati non scontano nemmeno un giorno di carcere  per via delle “cattive condizioni di salute”. È chiaro che godono di un trattamento privilegiato: possono vendere droga o commettere omicidi senza temere alcuna conseguenza.

In queste circostanze, è impossibile combattere la criminalità organizzata, perché lo stato e la mafia sono strettamente interconnessi.

Al fine di creare i presupposti per una vera lotta alla criminalità organizzata lo stato deve innanzitutto ammettere che il problema esiste. Invece di mascherare il reale stato delle cose e di nasconderlo dietro a statistiche e a paragoni insensati, lo stato deve dichiarare che la guerra tra gruppi criminali rappresenta una delle principali minacce per il paese che mette a repentaglio la sicurezza nazionale; deve ammettere la propria inefficacia nell’affrontare la situazione e promettere all’opinione pubblica una pronta risoluzione del problema.

È importante, inoltre, che vengano destituiti coloro che avrebbero dovuto occuparsi di questo problema, ma si sono dimostrati incapaci di farlo. Tanto per cominciare, bisognerebbe fare un repulisti tra le fila della polizia, compresa la destituzione del ministro dell’Interno Nebojša Stefanović, nonché la rimozione di una serie di funzionari, tra cui il segretario di stato Dijana Hrkalović, il gendarme Vučković, il direttore della polizia Vladimir Rebić e il capo della polizia di Belgrado Veselin Milić (Milić è stato nel frattempo destituito e assegnato ad un altro incarico). Al loro posto devono venire persone competenti e professionali, che non hanno nessun legame con i gruppi criminali né con i politici.

Inoltre, bisogna rompere tutti i legami tra lo stato e la criminalità organizzata, compreso il gruppo che protegge il presidente. Lo stato che collabora con i criminali non può al contempo combattere la mafia. Sarebbe opportuno destituire anche quei ministri che in passato hanno intrattenuto stretti rapporti con la criminalità organizzata, come il ministro della Salute Zlatibor Lončar  e il ministro degli Esteri Ivica Dačić , per evitare che venga messa in discussione la credibilità dello stato nella lotta alla mafia.

Un altro passo da intraprendere è il miglioramento della cooperazione con le autorità di altri paesi, soprattutto con quelle dei paesi del sud-est Europa. In teoria, le forze di polizia dei paesi della regione collaborano tra di loro, ma in pratica questa collaborazione non funziona: non c’è alcuno scambio di informazioni a causa della reciproca sfiducia. E questo è dovuto proprio al fatto che i criminali mantengono stretti rapporti con i funzionari statali. Le autorità di un paese non trasmettono le informazioni ai loro colleghi di altri paesi perché temono che potrebbero finire nelle mani dei criminali. Tuttavia, non può esserci una vera lotta alla mafia senza cooperazione internazionale perché la criminalità non conosce frontiere. I gruppi criminali, compresi quelli attivi nel nostro paese, operano a livello internazionale: gli stupefacenti vengono contrabbandati dall’America Latina verso l’Europa; il denaro proveniente da attività illecite viene riciclato in vari paesi; un omicidio può essere organizzato in un paese ed eseguito in un altro.

Pertanto è indispensabile affidare gli incarichi chiave all’interno della polizia e della procura a persone “pulite” e integre, in grado di intraprendere una vera lotta contro la mafia, nella quale avranno bisogno di aiuto dei colleghi di altri paesi.

Ed è solo l’inizio.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #137 il: Agosto 10, 2018, 00:39:31 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/Armenia-come-combattere-la-disoccupazione-nelle-aree-rurali-189575

Citazione
Armenia: come combattere la disoccupazione nelle aree rurali

Secondo i dati dell’Agenzia nazionale del lavoro, in Armenia ci sono oltre 82mila di disoccupati. Il numero di disoccupati nelle aree rurali rappresenta il 18,3% del totale, segnando un incremento del 2,66% rispetto all’anno scorso

08/08/2018 -  Armine Avetisyan   Yerevan
Gayane Sargsyan, abitante del villaggio di Aygek, nella regione di Armavir, svolge ormai da dieci anni lavori stagionali nel settore dell’agricoltura. Il suo anno lavorativo dura dall’inizio della primavera fino alla metà dell’autunno.

“Non appena inizia la stagione dei raccolti, comincio a lavorare. Vengo impiegata nella raccolta di diversi tipi di colture: fagioli, fragole, albicocche… Il mio anno lavorativo inizia con la raccolta dei fagioli, poi raccolgo vari tipi di verdura e di frutta, compresi i frutti di bosco. Non è un lavoro facile, ma non ho nessuna alternativa. È molto difficile trovare lavoro nel villaggio. Se non avessi questi impieghi stagionali, sarei senza alcun reddito”, dice Gayane.

La sua giornata lavorativa dura otto ore, durante le quali ha diritto a una pausa. Guadagna 5000 dram (circa 9 euro) al giorno.

“Il mio datore di lavoro e io di solito raggiungiamo un accordo verbale, senza firmare alcun contratto di lavoro, e finora non ci sono mai stati problemi. Lavoro per la stessa persona ormai da anni. Mi ha sempre pagato regolarmente e io svolgo il mio lavoro in modo responsabile”, spiega Gayane, aggiungendo che col suo lavoro provvede al sostentamento dell’intera famiglia, composta da cinque persone.

“Nei villaggi è molto difficile trovare un altro lavoro, oltre a quello stagionale. Molti abitanti delle zone rurali, soprattutto gli uomini, vanno a lavorare all’estero. Le donne che restano nei villaggi non hanno molta scelta: possono stare a casa o trovare un lavoro stagionale, oppure eventualmente avviare un’attività in proprio, ma questo è molto difficile. Conosco davvero poche donne che ci sono riuscite (imprenditrici di successo)”, dice Gayane.

Stimolare lo spirito di iniziativa
La trentenne Hripsime Petrosyan vive nel villaggio di Krashen, nella regione di Shirak. Era considerata una ragazza molto timida fino a quando, tre anni fa, non aveva intrapreso un’attività che, oltre a permetterle di mantenersi, porta benefici anche agli altri abitanti del villaggio.

“Circa 6 anni fa avevo partecipato a un corso di formazione organizzato nel nostro villaggio dall’ong Women for Development, dopodiché avevo deciso di frequentare un altro corso, cominciando a uscire fuori dal villaggio e a impegnarmi in vari progetti. Pian piano le mie vedute sono cambiate, e di conseguenza anche la mia vita”, spiega Hripsime. Grazie alla partecipazione a diversi progetti, Hripsime ha ottenuto un contributo di 2 milioni di dram (circa 3600 euro) nell’ambito di un programma promosso dalla Fondazione KASA, decidendo di utilizzarlo per acquistare un trattore.

“Il programma prevedeva che i finanziamenti erogati venissero utilizzati a vantaggio dell’intera comunità. E io ho deciso di comprare un trattore. Molti abitanti del villaggio se ne sono rallegrati, perché prima facevano tutti i lavori agricoli a mano, e il trattore per loro era una vera salvezza. Anch’io ero felice per il fatto di essere riuscita a procurarmi un lavoro. A dire il vero, all’inizio non mi sentivo del tutto a mio agio alla guida del trattore, perché in Armenia, che è ancora un paese molto tradizionale, è opinione diffusa che il posto di una donna sia in cucina. Ma ora non riesco a immaginarmi senza il trattore”, dice Hripsime.

Il fatto che Hripsime abbia deciso di guidare il trattore non ha sorpreso molto gli abitanti del villaggio, perché già da tempo guidava un fuoristrada UAZ. “Quando ho cominciato a guidare la macchina di mio papà molti nel villaggio mi guardavano strano, perché era una cosa insolita. Ma poi pian piano si sono abituati e quando mi sono seduta al volante del trattore hanno solo sorriso”, ricorda Hripsime, che con il suo trattore fornisce servizi anche agli agricoltori dei villaggi circostanti.

Hripsime dice di essere contenta della sua vita attuale. Ha un lavoro che le garantisce un reddito fisso, cosa che prima poteva solo sognare.

“Con i soldi che avevo risparmiato ho finanziato la costruzione di un campo da gioco nel nostro villaggio. Lo sognavo fin da quando ero bambina. Anche i miei compaesani auspicavano la creazione di un campo da gioco. Adesso i bambini del nostro villaggio giocano in quel campo, e un domani ci giocherà anche mio figlio”, dice Hripsime, che non è ancora sposata, ma desidera creare una famiglia e avere un figlio.

Oltre a guidare il trattore, Hripsime è anche impegnata in diverse attività sociali. “Le donne del nostro villaggio sono molto passive. Cerco di coinvolgerle in varie attività, ma anche di portare altri progetti nel villaggio, che ci permetterebbero di creare nuovi posti di lavoro e di condurre una vita attiva. La vita nei villaggi è molto triste. Dobbiamo aggiungere un po’ di colore alle nostre vite, ma dobbiamo anche crearci nuove opportunità di lavoro”, dice Hripsime. Aggiunge inoltre che bisogna rompere lo stereotipo secondo cui le donne che vivono nei villaggi devono occuparsi solo della casa e della famiglia.

La disoccupazione come fattore di spinta all’emigrazione
La mancanza di opportunità di lavoro nelle aree rurali spinge all’emigrazione. Molti giovani uomini decidono di recarsi all’estero in cerca di lavoro. Non esistono dati certi sul numero di cittadini armeni che lavorano all’estero, ma durante certi periodi dell’anno alcune zone rurali dell’Armenia praticamente si svuotano di giovani uomini.

“Nel nostro villaggio non c’è nessun lavoro. Ogni anno, a gennaio, mio marito va all’estero a lavorare e torna a dicembre. Quindi, praticamente lo vedo un mese all’anno”, dice Rima, abitante di un villaggio situato nella regione di Gegharkunik.

Ad essere maggiormente colpite dal fenomeno dell’emigrazione sono le regioni di Shirak, Lori, Gegharkunik e Kotayk. “Ho sempre sognato che mi sarei svegliata una mattina, avrei portato i figli a scuola, dopodiché sarei andata al lavoro. E poi la sera, durante la cena, i figli ci avrebbero raccontato com’è andata a scuola e io avrei raccontato la mia giornata di lavoro. Ma quello è rimasto solo un sogno. Nella zona in cui si trova il nostro villaggio non c’è nemmeno una piccola fabbrica dove potrei trovare un impiego”, dice Rima.

Rima vorrebbe trasferirsi a Yerevan con la famiglia. Dice di averne già parlato con suo marito e lui è d’accordo.

“Invece di andare a lavorare a Mosca, mio marito lavorerà a Yerevan. Prima era molto difficile trovare un impiego nella capitale, bisognava corrompere qualcuno o avere buone conoscenze. Ma recentemente c’è stato il cambio di potere e penso che ora riusciremo a trovare lavoro”, dice Rima.

Interventi istituzionali
La disoccupazione è una delle principali preoccupazioni del governo armeno, che negli ultimi anni ha implementato una serie di interventi volti a combattere questo problema, tra cui il progetto “Dare sostegno all’agricoltura attraverso la promozione del lavoro stagionale”.

Inoltre, con l’appoggio di alcune organizzazioni internazionali, è stato avviato un programma volto a favorire lo sviluppo di piccole imprese in diverse regioni del paese, che dovrebbe contribuire ad arginare il fenomeno della disoccupazione.

Dopo il cambio di potere, avvenuto nella primavera 2018, la questione della disoccupazione è stata affrontata nel programma del nuovo governo, nel quale viene precisato: “La rivoluzione di velluto, popolare e nonviolenta, avvenuta in Armenia tra aprile e maggio 2018, ha portato alla ripresa degli investimenti e al miglioramento delle prospettive di crescita economica. Il governo intende investire nelle regioni e incoraggiare gli investimenti volti a creare nuovi posti di lavoro”.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #138 il: Agosto 11, 2018, 11:43:06 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Grecia-dopo-il-fuoco-si-abbattono-le-costruzioni-abusive


Citazione
Grecia, dopo il fuoco si abbattono le costruzioni abusive
8 agosto 2018


Tremila e duecento costruzioni abusive verranno abbattute con una procedura d'emergenza solo nella regione dell'Attica. Il governo greco, guidato dalla sinistra radicale di Alexis Tsipras ha così annunciato le prime misure dopo i devastanti incendi dello scorso 23 luglio, che hanno provocato la morte di 91 persone e centinaia di feriti.

Alla base del provvedimento c'è il tentativo di mettere in sicurezza un territorio segnato da diffuso abusivismo, figlio di corruzione e burocrazia inefficiente, che è stato tollerato in Grecia per decenni, per essere poi spesso “legalizzato” da parte delle autorità attraverso sanatorie, che secondo i critici hanno assicurato consenso politico alle élite di governo a scapito della sicurezza.



Leggi tutto su Grecia

Nelle aree costiere, come a Mati, il centro più colpito dalle fiamme, molto spesso le costruzioni illegali hanno di fatto ostruito l'accesso al mare, nonostante gli espliciti divieti.

“Il caos dell'abusivismo non può più essere tollerato”, ha dichiarato Tsipras, il cui esecutivo è sotto il fuoco incrociato dell'opposizione, che accusa il governo di aver dato una risposta del tutto inadeguata alla situazione di emergenza.

Venerdì scorso Nikos Toskas, ministro per l'Ordine pubblico e la Protezione civile, ha rassegnato le dimissioni, pur rigettando le accuse rivolte nei suoi confronti. Nei giorni seguenti i capi di polizia e vigili del fuoco sono stati rimossi, mentre il direttore della protezione civile ha rassegnato le proprie dimissioni lunedì.

Lo stesso Tsipras ha però rispedito al mittente la responsabilità di quanto accaduto, ricordando che l'abusivismo ha profonde radici in Grecia, negli anni in cui l'attuale opposizione di centro-destra e di sinistra ha governato il paese.

Alle critiche verso le istituzioni elleniche, si sono unite anche quelle verso l'Unione europea e la Troika, che nei lunghi anni della crisi economica hanno imposto tagli draconiani alla spesa pubblica ad Atene. “Caserme dei pompieri, centri per la protezione civile, ambulanze ed ospedali sono a corto di personale”, ha scritto su “The Globe and Mail” Yannis Varoufakis, già ministro delle Finanze e leader del movimento DiEM25.

“L'UE non ha contribuito a combattere le fiamme – cosa che non rientra nei suoi compiti – e non è certo responsabile di settant'anni di abusi sull'ambiente da parte della società greca. Ma è fuor di dubbio che nel decennio appena trascorso la Troika, costituita da UE, FMI e Banca centrale europea, ha attivamente privato lo stato ellenico delle risorse e capacità necessarie in situazioni di emergenza”.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #139 il: Agosto 11, 2018, 21:10:37 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/91673

Citazione
ROMANIA: La protesta della diaspora termina in violenza
Francesco Magno  9 ore fa

Notte di tensione e violenza quella di ieri per le strade di Bucarest. La manifestazione anti-governativa dei romeni all’estero si è trasformata in un violentissimo scontro tra una parte dei manifestanti e la gendarmeria. Fonti giornalistiche riportano più di 400 feriti; l’atmosfera nel paese è estremamente tesa.

Le premesse

Il meeting della diaspora romena, già da tempo in programma, ha richiamato nella capitale oltre 100.000 persone. Sono circa 5 milioni i romeni che vivono all’estero, buona parte emigrati durante gli anni della transizione, tra il 1990 e il 2000. L’Italia è il paese che ne ospita il maggior numero (circa un milione), seguita a ruota dalla Spagna. Gli expat romeni sono tutt’altro che avulsi dalla vita politica del paese d’origine; tradizionalmente ostili al partito social-democratico (PSD), nel 2014 hanno di fatto sancito la vittoria alle presidenziali di Klaus Iohannis sul candidato socialista Victor Ponta, molto forte in Romania ma privo di qualsiasi presa sugli emigrati. Essi vedono nel PSD l’erede del vecchio partito comunista e, soprattutto, di quel Fronte di Salvezza Nazionale guidato da Ion Iliescu che ha governato il paese negli anni Novanta, proprio nel periodo più caldo dell’emigrazione. Da ciò nasce l’ostilità verso i socialisti, visti quasi come causa della loro partenza. Sfruttando le vacanze estive e il tradizionale ritorno a casa, i romeni della diaspora si son dati appuntamento a Bucarest, per protestare contro il governo. In un primo momento l’amministrazione della capitale, guidata dal sindaco Gabriela Firea, esponente di punta del PSD, non si era mostrata entusiasta all’idea della manifestazione di massa. Tuttavia, sull’onda della pressione mediatica, ha concesso l’autorizzazione allo svolgimento della dimostrazione. I primi scontri si sono registrati intorno alle 16.00, quando alcuni manifestanti hanno cercato di forzare le barricate che proteggevano Palatul Victoriei, la sede del governo. La situazione sembrava essersi rasserenata, almeno fino alle 23.00, quando il vaso di Pandora è stato scoperchiato.

Provocatori e gendarmeria

Intorno alle 23.00, in risposta alle provocazioni di uno sparuto gruppo di manifestanti (con ogni probabilità provocatori giunti col preciso scopo di causare disordini) la gendarmeria ha risposto lanciando gas lacrimogeni in maniera indiscriminata anche sui partecipanti pacifici, aumentando il caos. I facinorosi hanno approfittato del disordine per attaccare le forze dell’ordine: due gendarmi, tra cui una ragazza di vent’anni, sono stati privati delle pistole e malmenati, prima di essere salvati da un gruppo di manifestanti che ha fatto da scudo umano. Nel frattempo, il resto delle forze dell’ordine ha continuato ad usare i gas e a picchiare anche uomini innocenti, colpevoli soltanto di essersi trovati al posto sbagliato al momento sbagliato. Risultato: circa 400 feriti, alcuni anche gravi. Com’è stato possibile tutto questo?

Dipanare la matassa

Chi è anche solo minimamente avvezzo ai fatti romeni sa che l’infiltrazione di provocatori violenti all’interno di proteste pacifiche è tutto tranne che inusuale. Era già successo nel febbraio 2017, all’epoca delle prime grandi manifestazioni contro il governo PSD. Tuttavia, non è semplice identificare questi gruppi e i loro mandanti. I media anti-governativi ritengono che siano ambienti vicini al partito social-democratico a muovere questi huligani, al fine di macchiare le proteste davanti all’opinione pubblica etichettandole come violente. Di contro, risulta difficile credere che un governo già ampiamente mal visto sia sul piano interno che internazionale possa adottare una strategia talmente suicida, che ha come solo esito quello di infangare ancora di più l’esecutivo e il suo principale partito. Non è così peregrino immaginare che alti circoli dell’amministrazione pubblica e dei servizi, fortemente ostili al PSD, possano aver mosso le fila dei disordini proprio per screditare Liviu Dragnea e i suoi fedelissimi. Ogni ipotesi è plausibile, ma non ci sono elementi che possano avvalorare l’una o l’altra opzione. La terza variante, la più tristemente auspicabile, è la completa impreparazione e inadeguatezza delle forze dell’ordine e delle istituzioni competenti, del tutto incapaci di gestire situazioni di tale complessità. L’unico fatto concreto sono i feriti che da ieri notte popolano gli ospedali di Bucarest.

E adesso?

Il presidente della Repubblica Klaus Iohannis, con un post su Facebook, ha immediatamente condannato i fatti di ieri, scagliandosi contro la gendarmeria, la cui azione è stata definita “non proporzionata alle azioni della maggior parte delle persone di Piata Victoriei”. Liviu Dragnea e il premier Viorica Dancila tacciono, guardinghi. La situazione è in evoluzione continua. Prevedere cosa accadrà adesso è impossibile. I fatti di ieri hanno ulteriormente dimostrato che la democrazia romena è in crisi. L’autunno si prospetta caldissimo; tra un anno si terranno le elezioni presidenziali, e il rischio di una svolta autoritaria non è così remoto.


Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #141 il: Agosto 17, 2018, 16:30:06 pm »
Video molto interessante (sveglia al collo del protagonista a parte), lo metterei in evidenza dopo aver sentito l'opinione di DarkSider che potrebbe postare una breve guida sull'Asia.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #142 il: Settembre 02, 2018, 18:40:33 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Quando-a-chiedere-asilo-sono-gli-europei-189641

Citazione
Quando a chiedere asilo sono gli europei

Ogni anno quasi 100.000 europei fanno domanda d’asilo nei paesi UE, e il numero di richieste accolte tende ad aumentare. Eppure questo fenomeno rimane ai margini del dibattito sul diritto d’asilo – e di quello sull’allargamento

22/08/2018 -  Lorenzo Ferrari
Tutte le discussioni che si sono scatenate in Europa sul diritto d’asilo negli ultimi anni – e il razzismo che le accompagna – si basano sull’idea che i richiedenti asilo siano quelli che arrivano attraverso il Mediterraneo o la Turchia, provenienti dall’Africa e dall’Asia. In realtà lo scorso anno tra coloro che hanno fatto domanda d’asilo nei paesi dell’Unione europea c’erano quasi 100.000 cittadini europei  : albanesi, turchi, russi, georgiani, ucraini, armeni e così via.

Questa massa di persone tende a sfuggire all’attenzione dell’opinione pubblica e delle forze politiche, forse perché tra loro ci sono moltissimi minorenni, con cui è più difficile prendersela, ma probabilmente perché questi richiedenti asilo hanno la pelle bianca. Ormai vengono percepiti come meno minacciosi rispetto alle presunte orde di giovani uomini dell’Africa subsahariana che avrebbero invaso le nostre città – e dunque si prestano meno a essere strumentalizzati in chiave xenofoba.

La Francia ha rappresentato una delle poche eccezioni a questo generale atteggiamento di disattenzione, perché lo scorso anno gli albanesi sono risultati in assoluto la più corposa comunità di richiedenti asilo nel paese, e la stampa e la politica hanno dovuto accorgersene  . Gli albanesi in effetti hanno un peso notevole nel complesso delle domande di asilo presentate da europei in Europa: nel 2017 sono stati in più di 22.000 a chiedere asilo – di gran lunga il numero più alto rispetto a tutte le altre nazionalità, sia in termini assoluti, sia in proporzione alla popolazione (quasi l’1% dei cittadini albanesi lo scorso anno ha chiesto asilo nell’Unione europea).

Albania, 22099
Turchia, 14638
Russia, 12681
Georgia, 9934
Ucraina, 8950
Armenia, 6792
Kosovo, 5323
Serbia, 5086
Macedonia, 4254
Azerbaigian, 4183
Bosnia Erzegovina, 1775
Moldavia, 1423
Bielorussia, 914
Montenegro, 513
Numero di domande d’asilo presentate nel complesso dei paesi UE nel 2017, per paese d’origine (dati Eurostat)
Diffidenza e scoraggiamento
La grande maggioranza degli europei che fanno domanda d’asilo nell’Unione europea si rivolge alla Germania o alla Francia. Negli ultimi anni entrambi i paesi hanno però adottato una politica sempre più rigida nei loro confronti, in conseguenza del picco di domande ricevute anche da parte degli europei nel 2015. E dunque inserimento dei paesi di provenienza nell’elenco dei “paesi sicuri”  , procedure rapide di valutazione delle domande e percentuali molto basse di accoglimento  , rimpatri forzati, accordi  coi governi dei paesi d’origine per limitare i flussi in uscita e minacce  di reintrodurre i visti per l’area Schengen.

“In Francia le autorità ormai partono dal presupposto che domande come quelle presentate dagli albanesi siano infondate, e dunque a questi richiedenti asilo non viene nemmeno offerto un alloggio. L’idea di fondo è che non si debba essere troppo gentili con loro”, sostiene Oliver Peyroux  , che studia l’immigrazione europea in Francia. “Manca del tutto una riflessione sulle cause che spingono queste persone a partire, e su cosa si potrebbe fare per aiutarli. Ma molto spesso manca anche una conoscenza di base, per moltissimi francesi ad esempio gli albanesi rimangono piuttosto misteriosi”.

È vero che, anche prima della recente stretta, i paesi dell’UE respingevano la maggioranza delle domande di asilo presentate da cittadini europei, ed è vero che in molti casi a chiedere l’asilo non sono persone esposte a pericoli e minacce specifiche, bensì migranti economici con poche altre opzioni a disposizione per riuscire a trasferirsi all’estero. Come conferma la giornalista albanese Fatjona Mejdini, tra i suoi connazionali che partono molti sono giovani e famiglie che non riescono a trovare lavoro nel loro paese.

Sempre più domande accolte, nonostante tutto
Anche se le autorità tendono a considerare strumentali le domande d’asilo presentate dagli europei, i numeri raccontano una storia un po’ diversa. Nel 2017 i paesi dell’Unione europea hanno accolto circa il 18% di queste domande  , mentre cinque anni prima avevano concesso l’asilo solo all’8% di coloro che ne avevano fatto richiesta. Il minore tasso di rigetto delle domande d’asilo non è certo da attribuirsi a una maggiore generosità dei governi, quanto a un riconoscimento dell’oggettiva precarietà delle condizioni di vita in vari paesi europei. A trovare più spesso un esito positivo non sono solo le richieste di asilo di turchi e ucraini – esposti evidentemente a gravi rischi – ma anche quelle presentate da quasi tutte le altre nazionalità.

Ad esempio, anno dopo anno i richiedenti asilo albanesi vedono accolte sempre più domande: all’interno dell’UE nel suo complesso, le concessioni di asilo per loro sono passate da 500 a 1600 in cinque anni. Le motivazioni alla base dell’accoglimento delle richieste di asilo sono perlopiù legate ai pericoli costituiti dalla vendetta di sangue, alla violenza domestica, alle discriminazioni contro le persone LGBT e la comunità rom  . Come hanno evidenziato anche alcuni casi di cronaca, si tratta di  pericoli concreti e reali – anche se il governo e la stampa albanese tendono a non parlarne o a negare la specificità dei richiedenti asilo.


Non è insomma possibile ignorare il fatto che in molti paesi europei esistono problemi seri di violazione dei diritti umani – e dunque i paesi UE non dovrebbero partire dal presupposto che le decine di migliaia di domande d’asilo che ricevono ogni anno da cittadini europei siano solo strumentali. Per governare il fenomeno, ed eventualmente ridurre i numeri degli arrivi, servirebbe piuttosto una riflessione sulle ragioni che spingono così tante persone a lasciare paesi che nel nostro immaginario sono ormai spesso delle gradevoli mete turistiche e dei futuri partner all’interno dell’Unione europea.


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https://www.lexpress.fr/actualite/monde/europe/pourquoi-les-albanais-quittent-leur-pays-en-masse-et-cherchent-asile-en-france_1974304.html

Citazione
Pourquoi les Albanais quittent leur pays en masse et cherchent asile en France
Actualité Monde  Europe
 Par Catherine Gouëset, publié le 08/01/2018 à 18:02
Des migrants albanais sont renvoyés vers Tirana et Pristina depuis l'aéroport de Munich, le 18 novembre 2015.  La France a remplacé l'Allemagne comme destination des demandeurs d'asile albanais.Des migrants albanais sont renvoyés vers Tirana et Pristina depuis l'aéroport de Munich, le 18 novembre 2015. La France a remplacé l'Allemagne comme destination des demandeurs d'asile albanais. Reuters/Michaela Rehle
L'Albanie est le premier pays d'origine des demandeurs d'asile en France en 2017. Pourquoi fuient-ils ce pays considéré comme "sûr" par l'Union européenne?
Qu'est-ce qui pousse les Albanais à chercher refuge en France? L'Albanie a été le premier pays d'origine des demandeurs d'asile en 2017, avec 7630 demandes répertoriées dans l'hexagone, soit une hausse de 66%, selon les chiffres de l'OFPRA publiés ce lundi. Devant l'Afghanistan, Haïti, et le Soudan. Le pays des Aigles, pourtant épargné par la guerre, est considéré comme un pays "sûr" par la France. Comment expliquer cet afflux?

"L'instinct de survie est plus fort que le pouvoir de la raison, observe le sociologue Roland Lami interrogé par le site Balkan Insight. Les gens vivent en dessous des conditions minimales de survie. Ils sont prêts à tout pour fuir les difficultés économiques de l'Albanie, même s'ils savent que leurs chances de succès pour obtenir l'asile sont proches de zéro". 

"Les Albanais fuient la pauvreté et le chômage", confirme Nathalie Clayer, spécialiste de l'Albanie à l'EHESS. Ce petit pays montagneux et rural est l'un des plus pauvres en Europe, avec un salaire moyen de moins de 350 euros par mois. Le taux de chômage des jeunes dépassait les 33% en 2017 selon la Banque Mondiale. 

Un pays qui se vide de sa jeunesse
Le pays a l'un des taux d'émigration les plus importants en Europe: un tiers de la population a quitté l'Albanie au cours des 25 dernières années, selon le site Migration Policy. Résultat, l'Albanie qui comptait 3,5 millions d'habitants au début des années 1990, en compte moins de 3 millions aujourd'hui. Et la moyenne d'âge qui dans les années 1990 était parmi les plus basses d'Europe (28 ans), est désormais à plus de 37 ans.

L'exode des Albanais est loin d'être nouveau. "L'Albanie a toujours été un pays d'émigration", poursuit Nathalie Clayer. Le phénomène a été interrompu pendant les 45 ans de régime communiste -l'un des plus fermés en Europe. "Le régime contrôlait même les migrations intérieures, limitant ainsi l'exode rural vers les villes", note la chercheuse. La chute de la dictature en 1991 a aussitôt entraîné un afflux de migrants hors du pays, vers l'Italie et la Grèce principalement.

Depuis les années 1990, environ 600 000 Albanais se sont établis en Italie, 500 000 en Grèce, d'après les chiffres de Migration Policy. Une partie de ceux qui s'étaient installés en Grèce sont revenus au pays en raison de la crise qui a frappé ce pays à partir de 2008.

LIRE >> A Lyon, le préfet, les maires et les demandeurs d'asile albanais

Outre la crise de 2008 qui a enrayé un début d'amélioration de la situation économique de l'Albanie, l'immobilisme politique contribue probablement à la poursuite de l'exode, avance Nathalie Clayer. "L'alternance politique, il y a quatre ans, n'a pas apporté de changement à la situation dans le pays. La corruption et le clientélisme sont toujours aussi élevés".

La fermeté allemande pousse les demandes d'asile en France
Après la Grèce et l'Italie, l'Allemagne était ces dernières années le troisième pays de destination des Albanais en quête d'un meilleur avenir. L'arrivée des Albanais s'y est accélérée à partir de 2010, quand l'obligation de visa pour circuler dans l'espace Schengen a été levée pour eux. La crise des migrants de 2015 a réenclenché un cycle de départs, selon le site Balkan Insight. En 2016, quelque 50 000 Albanais ont déposé une demande d'asile outre-Rhin. Mais après que Berlin a multiplié les rapatriements, les candidats au départ se sont retournés vers les autres pays européens, à commencer par l'Hexagone. La France dépassait déjà l'Allemagne fin 2016. 

Ce qui a motivé le déplacement de Gérard Collomb à Tirana, à la mi-décembre. La France fait pression depuis plusieurs mois sur ce pays candidat à l'entrée dans l'UE pour que soient renforcés les contrôles à la sortie du pays. Depuis août, plus de 9700 départs ont ainsi été bloqués depuis l'Albanie.

REPORTAGE >> Au coeur d'un foyer expérimental pour le retour des déboutés du droit d'asile

Depuis 2003, la France a établi une liste des pays "sûrs" dont l'Albanie fait partie. Mais la convention de Genève s'applique à tous les "réfugiés sans discrimination quant à la race, la religion ou le pays d'origine." Ce principe contraint chaque pays signataire à traiter tous les dossiers de demande d'asile, qu'ils viennent d'un pays considéré comme "sûr" ou non. 

Le label de pays sûr n'élimine pas la possibilité d'accorder l'asile pour des faits de violences faites aux femmes, de discrimination envers les LGBTI ou les minorités ethniques, notamment. Pour les ressortissants de ces pays "sûrs", la procédure d'examen du dossier de demande d'asile est toutefois accélérée. "Elle ne dépasse pas les trois mois, fait valoir Pascal Brice, directeur de l'OFPRA, contre sept à huit mois il y a deux ans. Aujourd'hui, les chances d'un Albanais d'obtenir l'asile en France se sont réduite comme peau de chagrin: seuls 6,5% des demandeurs albanais l'ont obtenu en 2017.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #143 il: Settembre 02, 2018, 19:00:31 pm »
Alcuni passaggi non li condivido minimamente; ma riporto ugualmente l'articolo.


https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Se-vuoi-governare-gli-albanesi-manipola-gli-internazionali-189840

Citazione
Se vuoi governare gli albanesi, manipola gli internazionali

Alimentare il mito dell'Albania da paese di emigranti a paese in grado di accogliere, nonostante gli albanesi continuino a lasciare il proprio paese. È questo che ha spinto il premier Rama a dichiarare di voler accogliere 20 migranti della Diciotti

31/08/2018 -  Fatos Lubonja
(Pubblicato originariamente da Panorama  il 27 agosto 2018)


Lo stesso giorno in cui abbiamo appreso che il nostro premier, dopo aver chiuso velocemente la riunione del governo, ha preso un elicottero a Valona per raggiungere Rinas e subito dopo si è imbarcato su un volo charter diretto a Torino per vedere la partita Juventus-Lazio e fare una foto con Ronaldo, abbiamo saputo anche che il governo ha deciso di diventare parte della risoluzione della crisi italo-europea sui migranti della nave "Diciotti". Ha deciso insomma di prendere in Albania 20 dei 170 migranti lasciati in mare dal ministro dell'Interno italiano Salvini, attualmente indagato sul caso dalla procura di Agrigento.

Salvini è stato il primo a darne notizia, ringraziando l'Albania, che in questo modo si è opposta a un'Europa che, a suo dire, "fa schifo". "Brava Albania", hanno detto anche molti italiani. Ma a sentire gli analisti sulla crisi causata da Salvini sono in molti a concordare che in Italia non c’è un allarme immigrazione, sottolineando che ci sono più sbarchi sulle coste greche e spagnole e che Salvini ha fatto di questa faccenda il suo cavallo di battaglia elettorale. Secondo Il Fatto Quotidiano, anche per rubare la scena mediatica ai partner di governo, i Cinque Stelle, che a loro volta gliela avevano rubata con la tragedia del ponte Morandi. Molti analisti seri italiani convergono nel ricordare che i veri problemi dell'Italia sono altri e che esigono un lavoro serio da parte del governo, non campagne elettorali permanenti, che servono soltanto a nascondere l’incapacità di affrontare e di risolvere quelle che sono le vere questioni.

E qui arriviamo al nostro primo ministro e al nostro paese. Come si è arrivati a questa decisione? In Italia non è certo noto, ma per noi che conosciamo Rama come gli italiani conoscono Salvini, è chiaro che la mossa serve anche a coprire gli allarmi dell'Albania, tra i quali, paradossalmente, l’aumento drammatico del numero di albanesi che abbandonano il paese. Così come Salvini manipola il dramma dei migranti eritrei. Ma tra le manipolazioni di Salvini e Rama c'è una differenza interessante. Salvini manipola in modo diretto, mentre Rama lo fa di traverso. Salvini ha come scopo di manipolare gli italiani contro l'Europa, utilizzando il malcontento sedimentato negli anni, mentre Rama ha come scopo di manipolare italiani ed europei per poi manipolare soprattutto gli albanesi, secondo il principio: se vuoi governare gli albanesi devi manipolare gli internazionali.

Cosa intendo con questo? Seguendo nella pagina Facebook di Bushati [ministro degli Esteri albanese, ndr] i commenti alla notizia, colpiva la separazione tra italiani e albanesi. Gli italiani ringraziavano per la solidarietà, mentre la maggior parte degli albanesi lo considerava un atto di "ipocrisia". Un commentatore ha scritto: "È privo di qualsiasi logica fornire assistenza ai migranti stranieri mentre dozzine di connazionali lasciano l'Albania ogni giorno. E non dite che sono scelte personali. Sapete bene che fuggono perché l'Albania ha strappato loro le speranze, perché hanno un futuro senza prospettive, annegato nella povertà, nell’oppressione e nell’ingiustizia".


Qualcun altro ricordava invece a Bushati i minori albanesi, che i genitori abbandonano intenzionalmente in Italia dove poi sono ospiti delle Caritas Italiane, sottolineando: "Lasciate le facciate e guardate negli occhi la realtà... non diventate ridicoli!"

Numerosi anche gli inaccettabili commenti razzisti e, tenendo in considerazione che gli albanesi sono più razzisti degli italiani a questo riguardo, non è difficile pensare che al di fuori di Facebook siano ancora più numerosi. Comunque sia, Rama non tiene conto dell’elettorato rappresentato da tutti questi commentatori.

Qualcuno si potrebbe chiedere come sia possibile. Perché Edi Rama continua ad applicare il principio: se vuoi governare gli albanesi devi manipolare gli internazionali, che lo ha portato al più alto scalino del successo. Lui continua a pensare che il complesso di inferiorità del provinciale, combinato con la mancanza di fiducia nelle istituzioni e nell'élite del paese, fa sì che gli albanesi si inchinino davanti alle valutazioni degli stranieri, zittisce gli avversari e inclina gli indecisi dalla parte degli internazionali. Rama pensa dunque che questo atto aiuterà ad alimentare in Italia l'immagine a cui sta lavorando da tempo, cioè che da paese di emigranti, l'Albania sia diventata paese ospitante (anche di italiani stessi). L’indomani della notizia, il Corriere della Sera ha dimostrato che il principio della citata manipolazione funziona, anche se i media francesi, tedeschi, olandesi, e non solo, scrivono da tempo di innumerevoli richiedenti asilo albanesi (“che schifo” davvero questi media italiani). Inoltre, l’immagine illusoria che l'Albania è cambiata può essere utile per l’apertura dei negoziati e quella valutazione servirà a nascondere ulteriormente gli allarmi reali dell’Albania, i quali, il manipolatore non è che non può, ma non vuole risolverli, visto che la soluzione richiederebbe la sua ritirata dal potere e quella della gente attorno a lui legata alla criminalità.

Funzionerà la manipolazione con questi sfortunati che, invece dell’Occidente, si ritroveranno in uno dei paesi con il maggior numero di richiedenti asilo nei paesi occidentali (i quali avranno così un motivo in più per respingere le richieste di asilo degli albanesi), ancora più razzista contro le persone di pelle nera e completamente fuori dagli standard europei? Potrebbe essere, ma ne dubito perché ormai il citato principio di Rama ‘’manipola gli internazionali per governare gli albanesi’’ fa acqua sia in Albania che all’estero.

Tuttavia, il deretano del Premier rimane sempre asciutto, almeno questo è quello che gli dicono tutti quelli che lo circondano, i quali corrono ad asciugargli i pantaloni ogni volta che vengono bagnati, perché il loro interesse è strettamente legato con la lunga tenuta di questa bugia. Altrimenti, non avrebbe avuto il coraggio di prendere decisioni di questo genere, che è lo stesso irresponsabile coraggio che per la sua mente rende normale il fatto di prendere un elicottero, e poi un aereo, per vedere la partita Juventus-Lazio e fare una foto con Ronaldo.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #144 il: Settembre 12, 2018, 00:37:05 am »
http://www.eastjournal.net/archives/91816

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SLOVENIA: L’estrema destra costituisce una milizia armata
Amedeo Amoretti  4 giorni fa

Sabato 1° settembre, circa cinquanta uomini con il viso coperto, armati di asce e fucili, si sono ritrovati nei pressi di Pohorje, vicino a Maribor, per quello che sembrerebbe un giuramento solenne. A capo di questo gruppo vi è l’ex candidato alle presidenziali slovene Andrej Sisko. Il video del giuramento si è diffuso velocemente e molti politici, tra cui il presidente Borut Pahor e il primo ministro Miro Cerar, sono intervenuti denunciando l’accaduto e richiedendo l’intervento delle forze di polizia.

I militanti

Il gruppo si fa chiamare “la Guardia di Stajerska”, evidenziando il proprio presunto potere di difesa dell’omonima regione indipendentista slovena. La guardia sarebbe composta, secondo quanto affermato dal leader del gruppo, da “parecchie centinaia di volontari” – ma l’esperto di sicurezza nazionale Iztok Prezeli ha affermato che si tratterebbe di una vera e propria milizia, a giudicare da caratteri distintivi come la bandiera, l’uniforme e l’emblema posto sulla maglietta.

La formazione di tale unità sarebbe stata concepita con lo scopo di mantenere l’ordine nella regione e Sisko, pur avendo ammesso che le armi impugnate dai volontari non sono state registrate presso le autorità slovene, ha dichiarato che non vi è alcuna infrazione della legge. Il presidente Pahor, invece, ha voluto sottolineare che “la Slovenia è un paese sicuro nel quale nessuna persona non autorizzata ha bisogno (né le è permesso) […] di interessarsi illegalmente per la sicurezza del paese e dei suoi confini”.

Le indagini delle autorità

La polizia ha immediatamente avviato le indagini e nel corso di una conferenza stampa Robert Munda, il capo della polizia criminale di Maribor, ha dichiarato che alcuni uomini potrebbero essere stati tratti in inganno a partecipare e ha richiesto la loro collaborazione nello svolgimento delle indagini. Intanto, giovedì 6 settembre due uomini sono stati arrestati dalle forze dell’ordine e uno dei due parrebbe essere Sisko.

Sisko è conosciuto principalmente per essere alla guida del partito di estrema destra Slovenia Unita, che alle presidenziali del 2017 ha ottenuto soltanto il 2,2% (raggiungendo appena lo 0,6% alle parlamentari dello scorso giugno). Dopo aver fondato l’organizzazione anti-comunista slovena, successivamente giudicata illegale, nel 1992 Sisko fu accusato di tentato omicidio e venne condannato a ventidue mesi di carcere. In seguito ai fatti di sabato scorso, inoltre, Sisko è sospettato di istigazione all’odio, alla violenza e all’intolleranza – nonché di traffico di armi e di crimini contro l’umanità, contro la sovranità statale e contro l’ordine costituzionale democratico sloveno.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #145 il: Settembre 12, 2018, 00:44:03 am »
Dice l'italiano medio:
<<Certe cose succedono solo in Italia>>.

Sì, infatti.

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Montenegro-anche-uno-scoglio-vittima-della-speculazione-189931

Citazione
Montenegro: anche uno "scoglio" vittima della speculazione
aree   Montenegro ita

Il litorale del Montenegro è saturo di hotel e di complessi turistici e gli speculatori si stanno lanciando ora sugli ultimi spazi liberi: le oasi naturalistiche

11/09/2018 -  Branka Plamenac   Podgorica
(Pubblicato originariamente da Monitor (Monténégro), selezionato da Le Courrier des Balkans  e OBCT)


Situata al largo di Budva, l'isola di San Nicola, la più grande della costa montenegrina, è stata individuata come “area prioritaria per lo sviluppo turistico” nel Piano urbanistico speciale della zona del litorale del Montenegro (PPPNOB), che copre sei municipalità del litorale. Difficile spiegarsi perché quest'isola inabitata e coperta da una fitta vegetazione mediterranea e conosciuta con il nome di Školj (dall'italiano scoglio), sia divenuta “zona prioritaria di sviluppo”.

Da anni il litorale, area eccezionale, viene devastato dalle costruzioni e sembra ora che agli investitori manchino siti sufficientemente attraenti sulla costa. Poco a poco i cantieri stanno infatti abbandonando le zone urbane per devastare le rare riserve naturali ancora intatte. L'urbanizzazione viene portata avanti sotto gli ordini del governo e del ministro dello Sviluppo sostenibile e del Turismo, al beneficio di alcuni grossi investitori. Sino ad oggi aree protette, alcune oasi come Školj sono evidentemente finite nel mirino di potenti uomini d'affari come è accaduto per Sveti Stefan, Miločer o il monte Spas che domina Budva.

Il nuovo piano urbanistico prevede sull'isola di San Nicola la costruzione di strutture che potranno ospitare sino a 500 persone, la costruzione di un porto turistico e di un complesso residenziale con inclusi 50 pontoni per imbarcazioni da diporto. Il testo del progetto non chiarisce dove si intendano situare i cantieri ma l'intera isola si San Nicola è, per ora, ritenuta “zona turistica”. L'isola appartiene ad alcuni abitanti della regione ma anche a uomini d'affari montenegrini e stranieri, in particolare a Thaksin Shinawatra, ex primo ministro della Thailandia, divenuto cittadino montenegrino.

L'anno scorso Thaksin Shinawatra ha acquistato un terreno di circa 37.000 metri quadrati appartenente a Stanko Subotić che a sua volta l'aveva acquistato dall'uomo d'affari serbo Nenad Đorđević. Il terreno è quindi passato dalle mani di numerosi nuovi ricchi sia serbi che montenegrini per un valore si stima di svariati milioni di euro. Infine la Prva Banka di Aco Đukanović [il fratello del presidente montenegrino Milo Đukanović, ndr] ha posto un'ipoteca del valore di 15 milioni di euro sul terreno di Shinawatra. L’ex primo ministro thailandese si è indebitato presso la Prva Banka? Di sicuro c'è solo che questo terreno è per ora sotto ipoteca.

L'isola di San Nicola ha una superficie di 47 ettari e la sua costa di estende per due chilometri. Contornata da baie e spiagge deserte è da sempre destinazione delle escursioni degli abitanti di Budva e dei turisti. L'isola deve il nome ad una piccola chiesa consacrata a San Nicola, santo patrono dei marinai. Gli abitanti del posto la soprannominano «Havaji», dal nome di un ristorante ormai scomparso che ha caratterizzato la storia dell'isola.

Le autorità locali ed alcuni gruppi di cittadini si sono opposti all'urbanizzazione di Školj. In un rapporto ufficiale firmato da Dragan Krapović, sindaco di Budva, si legge: "Si prevede che l'isola di San Nicola divenga zona speciale per il turismo. Riteniamo che la costruzione di infrastrutture per ospitare 500 persone sia inaccettabile e che occorra prevedere uno sviluppo diverso per l'isola, senza la costruzione di appartamenti. Il consiglio comunale di Budva si oppone fermamente a questo progetto. Tutti gli indicatori economici indicano che si tratta di un investimento non sostenibile. Date le condizioni meteorologiche questo complesso turistico non potrà che essere attivo solo per tre mesi all'anno. Anche la gran parte degli abitanti della città si oppongono al progetto".

Anche Slobodan Bobo Mitrović, rinomato architetto di Budva, ha inviato una lettera di protesta diretta al ministero dello Sviluppo sostenibile e del Turismo: "E' inammissibile costruire hotel da 500 posti letto e una marina con 50 pontoni sull'unica isola del Montenegro. Chi propone il progetto ha preso in considerazione che San Nicola è la sola oasi verde dell'intero spazio marittimo di Budva? Il comune non ha né foreste protette né luoghi adatti alle escursioni e non può offrire alcuno spazio natuarale né ai suoi abitanti né ai turisti di passaggio".

L’architetto ricorda inoltre che l'isola ospita una foresta protetta dal 1952 e che deve essere preservata. Accusa inoltre la Horwath HTL di Zagabria, tra le aziende che hanno concepito il progetto, di non rispettare le norme attualmente in vigore in Croazia: "Horwath HTL ha scelto di non rispettare la natura dell'isola mentre più di 1000 isole sono protette in Croazia". Secondo i dati del ministero del Turismo croato il paese ha 1244 isole registrate come terreni agricoli sui quali non è possibile costruire.

Slobodan Bobo Mitrović ricorda infine che lavori sono stati fatti senza alcuna autorizzazione sull'isola di San Nicola sin dal 1997. Il proprietario dell'epoca, Nenad Đorđević, aveva con alcune dighe allargato l'isola di circa 10.000 metri quadri. "Occorre salvare San Nicola, farne una riserva naturale e trasformarla in giardino botanico, come è stato fatto per Mljet e Lokrum in Croazia", conclude l'architetto.


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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #146 il: Settembre 12, 2018, 20:47:16 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/91865

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RUSSIA: La riforma delle pensioni che i russi non vogliono
Martina Napolitano  4 ore fa

Domenica 9 settembre 2018, durante le elezioni locali e regionali russe, importanti manifestazioni si sono registrate nelle maggiori città russe. Quella di domenica è stata l’ennesima giornata di proteste in Russia dopo le molte che si sono susseguite a partire da fine giugno in seguito alla proposta di legge avanzata dal governo inerente all’innalzamento dell’età pensionabile.

La proposta di legge

Il 14 giugno il premier Dmitrij Medvedev ha presentato alla Duma un progetto di legge che prevedrebbe l’innalzamento dell’età pensionabile per gli uomini da 60 a 65 anni e per le donne da 55 a 63 anni (oppure, rispettivamente, a 45 e 40 anni di contributi). Questa manovra dovrebbe garantire, secondo il ministro delle Finanze Anton Siluanov, delle pensioni più alte a tutti: entro il 2024 la pensione media passerà, secondo le sue stime, da 14000 (175 euro ca.) a 20000 rubli (250 euro ca.).

Questo progetto è stato, secondo le procedure costituzionali, sottoposto prima di tutto al vaglio delle regioni: se più di un terzo dei soggetti federali si fosse detto contrario, allora si sarebbe dovuta creare una commissione apposita per il vaglio della proposta. Tuttavia, così non è stato: nonostante le vicine elezioni di settembre e la probabile insoddisfazione dell’elettorato, le amministrazioni regionali hanno scelto una via mesta ed evitato di compromettere la propria fedeltà alla linea del Cremlino. Il ministro del lavoro Topilin a metà luglio ha affermato che ben 61 regioni avevano presentato alla Duma opinioni positive in merito al progetto di legge.

Il 19 luglio la Duma di Stato ha così approvato in prima lettura il progetto sull’innalzamento dell’età pensionabile, nonostante le molte proteste e manifestazioni delle settimane precedenti e nonostante i sondaggi sull’apprezzamento del partito del presidente in caduta libera. Dei quattro partiti che siedono alla Duma, solo i 328 deputati di Russia Unita hanno votato compattamente a favore – un numero comunque sufficiente perché la proposta passasse.

Verso la seconda lettura

Considerato il malcontento, il 20 agosto – in previsione dell’audizione parlamentare dedicata al progetto – il partito al governo ha presentato la propria variante di modifica allo stesso, che comprende l’accesso a tariffe agevolate e sconti per “pensionati” già alle over-55 e agli over-60, la pensione dopo 37 e 42 anni di contributi rispettivamente per donne e uomini, pensione anticipata per professioni usuranti e per chi vive in zone artiche.

Questa apertura a una variante più dolce della proposta di legge potrebbe suggerire che il governo avesse all’inizio alzato troppo l’asticella consapevolmente, in modo da far passare poi in maniera più liscia una misura che anche in termini meno drastici sarebbe difficilmente stata accolta.

Il 29 agosto in un video ad ampia diffusione il presidente Putin si è rivolto ai cittadini, invitandoli a ragionare con calma e obiettività sulla necessità della misura. Assicurando di parlare “in maniera obiettiva, dettagliata e assolutamente sincera”, il presidente ha, in circa mezz’ora, riassunto la situazione demografica e storica della Russia sovietica e post-sovietica. Putin ha ricordato di aver egli stesso ritenuto non necessaria in passato una riforma delle pensioni, ma ha sottolineato come i tempi siano cambiati.

Il compito fondamentale delle modifiche proposte al sistema pensionistico è quello di “garantire la stabilità finanziaria del sistema per molti anni a venire”, ha dichiarato, “e non solo una conservazione, ma anche una crescita dei redditi, delle pensioni per gli attuali e futuri pensionati”.

Stando ai dati che il presidente ha portato a proprio sostegno, se nei primi anni 2000 l’aspettativa di vita era poco al di sopra dei 65 anni, oggi si è alzata di 7,8 anni; l’obiettivo è raggiungere quota 80 entro il prossimo decennio, “e faremo di tutto perché le persone nel nostro paese vivano a lungo e in salute”. Proprio uno degli slogan delle proteste è #Dožit’DoPensii, ovvero #ArrivareAllaPensione: le stime sulle aspettative di vita in Russia presentate da Putin non trovano infatti tutti d’accordo.

Putin ha inoltre spiegato che alternative a queste misure sono state prese in considerazione e scartate in quanto “essenzialmente, non risolvono nulla, al massimo tappano buchi”.

Un’attenzione particolare il presidente l’ha poi rivolta alle donne – per le quali apre le porte verso un abbassamento dell’età pensionabile a 60 anni, e addirittura a 50 anni nel caso si parli di madri con più di cinque figli – e ai lavoratori anziani, per i quali promette di adottare delle misure che garantiscano loro di restare con garanzie e stabilità sul mercato del lavoro fino al raggiungimento della nuova età pensionabile.

Stando ai sondaggi del centro CIPKR, dopo il video del presidente, i contrari al progetto di legge sono passati dal 71% al 51%; tuttavia, ora il 26% (e non più il 15%) vede nel presidente l’iniziatore principale di queste modifiche impopolari.

La seconda lettura del progetto di legge alla Duma è prevista nei prossimi mesi autunnali.

Breve storia delle pensioni in Russia

La pensione per anzianità venne introdotta in Russia, o meglio Unione Sovietica, per la prima volta nel 1928 e da allora l’età pensionabile non è mai stata ritoccata: 55 anni d’età per le donne, 60 per gli uomini.

Nel 1997 venne per la prima volta discussa alla Duma la possibilità di portare l’età pensionabile a 60 anni per le donne e 65 per gli uomini, ma allora il progetto di legge non venne approvato.

Di nuovo durante la presidenza Medvedev (in particolare tra 2010 e 2012) si tornò a parlare di pensioni, ma la maggior parte dei ministri – compreso l’allora premier Putin – rigettarono la proposta.

Nel 2015 il ministro dell’economia Uljukaev reintrodusse l’idea, visto il deficit pensionistico raggiunto in quel momento, e Putin questa volta si mostrò possibilista, sottolineando tuttavia come la Russia non fosse pronta a una modifica repentina del sistema.

Dopo la rielezione di Vladimir Putin di quest’anno, in maggio Medvedev dichiarò apertamente che il suo governo avrebbe al più presto inviato alla Duma delle proposte relative all’età pensionabile. Nel farlo, ricordò che l’età di 55 e 60 anni venne sancita ancora in Unione Sovietica nel 1928 quando l’aspettativa di vita si attestava attorno ai 40 anni. Stando ai dati ROSSTAT, nel 2017 l’aspettativa di vita è di 67,5 anni per gli uomini e 77,6 anni per le donne.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #147 il: Settembre 19, 2018, 19:50:37 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/BiH-le-elezioni-storiche-che-non-cambieranno-nulla-190097

Citazione
BiH: le elezioni “storiche” che non cambieranno nulla

La Bosnia Erzegovina sembra sprofondare nel buio più pesto e l’imminente tornata elettorale non pare possa migliorare la situazione

19/09/2018 -  Ahmed Burić   Sarajevo
A prescindere dall’esito delle imminenti elezioni politiche in Bosnia Erzegovina, previste per il prossimo 7 ottobre, sembra evidente che neanche questa tornata elettorale segnerà un punto di svolta. Questo soprattutto a causa di un clima di apatia generale che regna nel paese ormai da 23 anni – quanti ne sono passati dalla fine della guerra – e in cui per raggiungere un “successo” politico è sufficiente mantenere vive le tensioni tra i popoli costituenti, ovvero tra i partiti politici che li rappresentano.

Basta sentire o leggere una volta sola le affermazioni di Bakir Izetbegović, Milorad Dodik o Dragan Čović, per capire che, pur non essendo mai d’accordo su nessuna delle questioni chiave per il paese, i leader politici sono accomunati dalla stessa retorica imperniata sulla minaccia di guerra e di ridefinizione dei confini nazionali, motivo per cui tra di loro c’è “armonia”. O meglio, una cacofonia in cui l’unico obiettivo di chi sta al potere è quello di preservare la ricchezza accumulata. Invece di costruire una società democratica, è stato creato un sistema di caste, un paese che non è governato da istituzioni bensì da pochi individui potenti, che spesso non si presentano nemmeno alle elezioni, ma continuano a governare nell’ombra, decidendo la sorte di uno dei paesi più poveri d’Europa.

Vi chiederete da dove viene questo pessimismo. È tutto così nero che tra i circa 7500 candidati, quanti si presenteranno alle prossime elezioni, in 800 liste elettorali, in circa 100 seggi elettorali, non vi è nessuno che rappresenta gli interessi dei cittadini, e che per questo meriterebbe di essere votato? Si potrebbe rispondere con un sì e no, ma è più che evidente che gli impegni, relativi al rispetto dei valori democratici, presi con l’Unione europea, in pratica vengono trasformati in ripetute offese alla coscienza civile: corruzione, nepotismo, clientelismo, sono queste le principali malattie che affliggono la giovane democrazia bosniaco-erzegovese, ma alle quali non è immune nessun paese in transizione.

Il principale problema con cui attualmente si scontra la società bosniaca è la svalutazione del lavoro, ovvero l’impossibilità di trovare un impiego per chi non appartiene a uno dei principali partiti politici, che decidono la sorte di un paese dal quale i giovani continuano ad andarsene, o meglio a fuggire. In questo senso, i partiti nazionali si sono trasformati in veri e propri cartelli, che continuano a piazzare i loro “quadri” nella pubblica amministrazione, assicurandosi in tal modo i voti. Quello che non conquistano legittimamente, se lo prendono in un altro modo: esercitando pressioni, o semplicemente falsificando le schede elettorali.

L’Agenzia per la sicurezza nazionale (SIPA) non ha ancora reso noti i risultati delle indagini sulla scomparsa di 10 tonnellate di carta per le schede elettorali dalla sede della Commissione elettorale centrale. Un’operazione come questa, di stampo mafioso, può essere organizzata solo da qualcuno che ha forti legami all’interno della stessa Commissione elettorale e del ministero dell’Interno, di certo non da piccoli partiti di opposizione. Compiere un furto all’interno di un’organizzazione che ha il compito non solo di organizzare le elezioni ma anche di assicurare che siano effettivamente democratiche, è possibile solo con l’aiuto della criminalità, profondamente radicata nelle strutture statali.

In questo senso, è meno importante – seppur non del tutto irrilevante – chi dopo questa tornata elettorale arriverà a ricoprire i più alti incarichi nelle istituzioni statali. Per quanto riguarda la Presidenza della Bosnia Erzegovina, il più alto organo dello stato, composta da tre membri dei popoli costitutivi, è quasi certo che Milorad Dodik, attuale presidente della Republika Srpska, diventerà il rappresentante serbo della Presidenza, e parliamo di un politico che nega la Bosnia Erzegovina come stato sovrano. Alcuni analisti vedono in questo scenario l’inizio della dissoluzione della Bosnia Erzegovina e una possibile escalation del conflitto. A dire il vero, Dodik ha già da tempo oltrepassato ogni limite ed è difficile immaginare che possa collaborare allo sviluppo della Bosnia Erzegovina.

La corsa per la carica di membro croato della Presidenza potrebbe rivelarsi più incerta. Il presidente dell’Unione democratica croata della Bosnia Erzegovina (HDZ BiH) Dragan Čović, che attualmente ricopre questo incarico, dà quasi per scontato che sarà rieletto, ma a guastargli la festa potrebbe essere Željko Komšić, ex membro del Partito socialdemocratico (SDP), che conta sul voto dei bosgnacchi.

Il principale favorito per ricoprire la carica di membro bosgnacco della Presidenza è Fahrudin Radončić, leader dell’Alleanza per un futuro migliore (SBB), anch’egli molto abile a combinare la retorica populista con metodi manipolatori. Uscito dall’ombra di Bakir Izetbegović, Radončić ha accumulato una notevole ricchezza come proprietario del quotidiano Dnevni avaz, mentre la sua popolarità deriva dalla sua capacità di presentarsi al contempo come un altruista che aiuta i poveri e disagiati e un grande uomo d’affari.

Quest’ultima cosa non si può negare, anche se il suo debito ipotecario è davvero enorme. Accusato di traffico di influenze illecite e di ostruzione alla giustizia, e noto per il suo coinvolgimento, (solo?) come testimone, nel processo a carico di Naser Kelmendi (imputato di omicidio e traffico di droga), Radončić è lo specchio della “politica” bosniaca. Immersa in un buio denso e puro, senza tracce di luce, formato da strati sovrapposti di memoria storica non elaborata e di una mentalità egoista, spinta da avidità e guidata dalla logica dell’accumulazione di capitale.

Non bisogna però dimenticare che questo scenario buio è in parte colpa della comunità internazionale, che si astiene dall’intervenire di fronte a quanto sta accadendo in Bosnia Erzegovina. Senza un rafforzamento della magistratura e la destituzione di decine di funzionari che continuano a ricoprire alti incarichi istituzionali, mentre avrebbero dovuto essere dietro le sbarre già da molto tempo, è irrilevante quanti voti si aggiudicherà l’opposizione.

La comunità internazionale si aspettava che in Bosnia avvenisse un “cambiamento organico”, come lo definiscono alcuni funzionari europei e statunitensi. Invece, si sono moltiplicati i rifiuti politici non riciclabili, che mostreranno la loro vera faccia forse già all’inizio dell’anno prossimo, alla scadenza del mandato dell’attuale ambasciatrice degli Stati Uniti in Bosnia Erzegovina Maureen Cormack. Il prossimo ambasciatore statunitense dovrà essere accreditato dal nuovo presidente della Presidenza tripartita, che probabilmente sarà Milorad Dodik, il cui nome figura sulla “lista nera” degli Stati Uniti.

In quell’occasione la democrazia mostrerà uno dei suoi lati più grotteschi, un’inquietante smorfia ghignante, e non sarà l’ultima volta che assisteremo a cose del genere. Ma al momento nessuno se ne preoccupa.

Perché si stanno avvicinando le ennesime “elezioni storiche”, che non porteranno grandi cambiamenti. Perché il problema non riguarda solo i quadri della politica ma l'intera società.

Offline Sardus_Pater

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #148 il: Settembre 20, 2018, 13:00:07 pm »
I popoli dei Balcani stavano meglio quando erano uniti in un unico paese. Il tanto disprezzato Tito ne era cosciente e riuscì senza forzare troppo la mano a tenere insieme diverse etnie.
Il femminismo è l'oppio delle donne.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #149 il: Ottobre 16, 2018, 19:24:25 pm »
Molti (e molte) dei romeni e albanesi che conobbi in passato, provenivano da luoghi poveri come quelli descritti nel video, ed è anzitutto per questo che non gliene passo una quando i suddetti (e le suddette) elencano i difetti dell'Italia e degli italiani (che son tanti, ok), occultando però i difetti ancor più grossi dei loro rispettivi paesi di provenienza.


https://www.balcanicaucaso.org/Media/Multimedia/Est-Europa-poverta-e-campagna


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Per dire: qualcuno di voi ha mai visto lavorare in qualche bar italiano delle donne inglesi, tedesche, svizzere, austriache o francesi ?
Vi è mai capitato di vedere dei muratori olandesi, danesi, svedesi, norvegesi o finlandesi ?
Ovviamente no e il motivo è ancor più ovvio: costoro stanno bene a casa loro, ragion per cui non hanno bisogno di emigrare altrove.