Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 76192 volte)

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Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #151 il: Ottobre 22, 2018, 06:56:34 am »
Per me tutto vero: l'inglese non lo parla nessuno, i negozi di fiori ovunque, muj platit (l'uomo paga, è tra le prime cose che impari al corso di russo :lol:) - anche se a S. Pietroburgo il ristorante "armeno" non costa 10 Euro :cry:
E poi: nessuna risorsa :w00t: solo russi e russe sempre cortesi e amichevoli persino con gli sconosciuti :yahoo:. Ricordo una niente male che mentre riprendevo un'ottima band di strada mise davanti all'obiettivo un gattino* di pochi giorni :wub:, alla fine ci ritrovammo con tutto il gruppo ad assistere a uno spettacolo teatrale all'aperto.

Unico neo che, a S. Pietroburgo almeno, le russe non sono in media niente di che, livello contadine siberiane spesso con la cellulite a vent'anni.

* Non sono mica le gattare di cui parliamo qui.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #152 il: Ottobre 28, 2018, 12:09:15 pm »
Non condivido in pieno ciò che dice (ma in gran parte sì) e non è un video che riguarda la realtà dei paesi dell'Europa dell'est: ma lo posto ugualmente qui, per non aprire un'altra discussione.





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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #153 il: Novembre 04, 2018, 18:04:34 pm »
Dice l'italiano medio:
"Certe cose succedono solo in Italia!"
Sì, infatti.

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Sarajevo-ghetto-alla-periferia-dell-Ue-190974

Citazione
Sarajevo, ghetto alla periferia dell’Ue

I recenti fatti di cronaca, culminati con la morte di due agenti di polizia, portano a pensare che la capitale della Bosnia Erzegovina stia lentamente diventando un ghetto, preda di omicidi e furti sullo sfondo di una rassegnazione collettiva

02/11/2018 -  Ahmed Burić   Sarajevo

Lo scorso venerdì mattina due poliziotti, Adis Šehović e Davor Vujinović, sono stati brutalmente uccisi a Sarajevo da un gruppo di criminali a colpi d’arma da fuoco. Per la morte dei due agenti è stata proclamata una giornata di lutto nazionale e la capitale della Bosnia Erzegovina ha reso omaggio alle vittime con cerimonie commemorative e con una massiccia partecipazione ai funerali. Tuttavia, concluse le cerimonie, l’impressione è che la situazione nella città, comprese le condizioni di sicurezza dei suoi cittadini e dei membri delle forze dell’ordine, non sia destinata a migliorare.


Sarajevo, ogni giorno e sotto ogni punto di vista, somiglia sempre di più ad un ghetto, una città dove ci si può aspettare di tutto: di vedere i propri figli aggrediti dai criminali di strada e derubati di soldi e cellulari sotto la minaccia delle armi, oppure di rimanere vittima di una sparatoria, come quella in cui hanno tragicamente perso la vita i due poliziotti.

Limitandosi ai semplici fatti, possiamo dire che i due agenti sono stati uccisi mentre cercavano di impedire un furto d’auto. Tuttavia, andando più in profondità, risulta che ha perdere la vita sono stati due uomini nel fiore degli anni, di nazionalità diversa, che cercavano di impedire un delitto contro un bene appartenente a una persona recatasi in visita a Sarajevo. L’automobile presa di mira aveva infatti una targa croata.

La forzatura delle portiere e il furto dell’auto è la “disciplina preferita” dai criminali sarajevesi sin dai tempi della guerra. Lo scenario è sempre più o meno uguale: chi arriva in città con un’auto nuova e la lascia all’aperto, può aspettarsi, nella migliore delle ipotesi, di ritrovare il finestrino rotto e l’auto saccheggiata. Nella peggiore delle ipotesi, l’auto viene rubata e, nella maggior parte dei casi, portata in Republika Srpska, da dove viene contrabbandata all’estero, oppure i criminali contattano il proprietario per richiedere un riscatto.

Un sistema che funziona quasi perfettamente e vede coinvolti praticamente tutti i livelli della criminalità: dai pesci piccoli a quelli più grossi che hanno forti legami con la polizia e la controllano con la corruzione. Ovviamente, nulla di tutto questo sarebbe possibile senza il coinvolgimento del potere politico. Questa situazione giova esclusivamente a quei politici che amano pescare nel torbido.

Forse nulla illustra meglio il cinismo e l’inefficacia della leadership al potere di una recente dichiarazione del leader del Partito di azione democratica (SDA) Bakir Izetbegović. Resosi conto che l’opposizione è determinata a formare il governo del cantone di Sarajevo senza il suo partito, Izetbegović ha dichiarato: “Dicono che l’SDA fa una cattiva politica da vent’anni, e invece noi abbiamo trasformato Sarajevo in una metropoli”.

Quanto sono ciniche le dichiarazioni di questo tipo lo dimostra il fatto che nessun rappresentante del governo ha espresso le proprie condoglianze ai familiari dei due poliziotti uccisi. Pochi giorni prima dell’omicidio dei poliziotti, nel centro di Sarajevo, a un centinaio di metri dal palazzo dove abita Bakir Izetbegović, è stato trovato il corpo senza vita di un uomo, probabilmente, per un’overdose.

A Sarajevo le morti improvvise e violente accadono quotidianamente e, a quanto pare, né il potere politico né le autorità giudiziarie, né tanto meno le forze dell’ordine sono in grado di porre fine a questa situazione.

Stando alle informazioni divulgate finora, i due membri delle forze dell’ordine (che operano sotto la direzione del ministero dell’Interno del cantone di Sarajevo) stavano svolgendo il regolare servizio di controllo del territorio, quando si sono imbattuti in un gruppo di criminali che hanno subito aperto il fuoco contro di loro. Adis Šehović è morto sul colpo, mentre il suo collega Davor Vujinović è deceduto per le ferite riportate nel pomeriggio dello stesso giorno al Centro clinico universitario di Sarajevo.

Un commento postato sui social network da una nota conduttrice televisiva esprime forse meglio di qualsiasi altra cosa il senso di impotenza, amarezza e paura che regna a Sarajevo. “Sono infinitamente triste. Ci hanno portato via tutto. La dignità, l’orgoglio, l’identità e, alla fine, la vita. Questo mondo è fatto per gli assassini e i criminali, piccoli e grandi; un mondo di vendite e acquisti; un mondo senza morale, obiettivi e direzione. Siamo smarriti, sia come individui sia come società”.

Parole che possono sembrare pesanti, ma che sono assolutamente veritiere. È proprio così che si sente la maggior parte delle persone che conosco. Alla manifestazione a sostegno della polizia di Sarajevo, organizzata da alcune organizzazioni non governative davanti al centro commerciale BBI nel centro città, hanno partecipato poche persone, circa 300, e questo la dice lunga sul clima di rassegnazione e avvilimento che si respira a Sarajevo.

La capitale della Bosnia Erzegovina, che sarebbe potuta diventare una metropoli, sta lentamente ma inesorabilmente diventando un ghetto. Un paese composto da una moltitudine di cantoni, diviso in due entità, corrotto e lasciato a sanguinare alla periferia dell’Unione europea, semplicemente non può funzionare né garantire un livello minimo di sicurezza. Questa situazione potrebbe spingere i cittadini a prendere l’iniziativa e ad auto-organizzarsi per combattere la criminalità, e questa strada porta inevitabilmente al caos che, il più delle volte, arriva dopo la disperazione.

Se dovesse verificarsi un simile scenario, le morti diventeranno un evento quotidiano e ad esserne vittime saranno le persone innocenti, come nel caso dell’omicidio di Adis Šehović e Davor Vujinović. Ma chi ha tempo di pensare alle vite umane? Il governo di certo non ce l’ha, mentre la comunità internazionale si comporta come se non le importasse più nulla di Sarajevo e della Bosnia Erzegovina.

Lasciata a se stessa, la società bosniaca non ha alcuna possibilità di progredire. Perché il ghetto è sempre sinonimo di isolamento e pericolo.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #154 il: Dicembre 04, 2018, 19:51:40 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Il-governo-serbo-e-il-genocidio-di-Srebrenica-191518

Citazione
Il governo serbo e il genocidio di Srebrenica
Di recente la premier serba Ana Brnabić ha negato apertamente che a Srebrenica sia stato commesso un genocidio. L’affermazione ha avuto conseguenze regionali ed anche a livello dell’Ue

04/12/2018 -  Dragan Janjić   Belgrado
La dichiarazione della premier serba Ana Brnabić, secondo la quale a Srebrenica non è avvenuto un genocidio bensì un grave crimine, per giorni è stata citata sulle prime pagine dei giornali di tutta la regione, ma anche di quelli internazionali, ed è stata oggetto di commenti e condanna da parte di alcuni politici e organizzazioni non governative. È stata invece accolta con favore dai sostenitori nazionalisti della coalizione di governo, tra i quali sicuramente contribuirà all’aumento della popolarità della premier, ma non porterà alcun beneficio alla società serba. Anzi, danni sembrano già inevitabili.

Le affermazioni pronunciate dalla premier serba, in un'intervista rilasciata alla Deutsche Welle  a metà novembre, hanno avuto una forte eco non solo in Serbia, bensì nell’intera regione e nell’Unione europea, e le prime conseguenze si sono fatte sentire già a fine novembre quando il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione  in cui si condanna “la negazione del genocidio” di Srebrenica da parte delle autorità di Belgrado. Nella risoluzione, relativa al percorso verso l'Ue della Serbia, si afferma che quest'ultima ha compiuto alcuni progressi nelle riforme economiche ma, al contempo, si sottolinea che è di fondamentale importanza che vengano raggiunti risultati tangibili anche nella riforma del sistema giudiziario, nella lotta alla corruzione e nel migliorare la libertà dei media. A seguito ad un emendamento al testo iniziale nella lista delle mancanze nell’operato delle autorità serbe è stata aggiunta anche la negazione del genocidio di Srebrenica.

Nell’emendamento su Srebrenica, presentato dall’europarlamentare sloveno Igor Šoltes, si afferma che il Parlamento europeo “deplora la continua negazione del genocidio di Srebrenica” da parte delle autorità serbe e ricorda loro che “la piena cooperazione con il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, e con il suo meccanismo residuale che gli è succeduto, implica anche il pieno riconoscimento e l’attuazione delle loro sentenze e decisioni”. Nell’emendamento si sottolinea inoltre che “il riconoscimento del genocidio di Srebrenica è un passo fondamentale sulla strada della Serbia verso l’UE”.

Così il cambiamento dell’atteggiamento delle autorità serbe nei confronti del genocidio di Srebrenica è formalmente diventato un aspetto importante per l’adesione della Serbia all’UE. E questa non è una buona notizia per il governo serbo che ha posto l’ingresso nell’UE come principale obiettivo della sua politica estera. Non è dato sapere se il presidente serbo Aleksandar Vučić, che è uno dei più accesi sostenitori dell’integrazione europea, abbia parlato con la premier Brnabić in merito alla controversa intervista, ma di sicuro non ha pubblicamente condannato le sue dichiarazioni su Srebrenica, ampiamente riportate dai media mainstream serbi. Inoltre, i principali media serbi hanno completamente ignorato la risoluzione del Parlamento europeo, oppure si sono limitati a citarla brevemente tra le notizie meno importanti.

La negazione del genocidio
L’ossatura dell’attuale coalizione di governo è costituita dai partiti che erano al potere all’epoca del genocidio di Srebrenica, o che sono eredi o stretti alleati dei partiti al governo all’epoca. La loro riluttanza ad accettare le sentenze del Tribunale dell’Aja sul genocidio di Srebrenica non è per nulla sorprendente, ma non ci si aspettava che la premier esplicitamente negasse il genocidio. La Brnabić non ha fatto un’affermazione ambigua bensì, quando il giornalista che la intervistava ha insistito affinché riconoscesse che a Srebrenica è stato compiuto genocidio, ha detto che per la Serbia quanto avvenuto a Srebrenica non è stato un genocidio, negando in tal modo la sentenza del Tribunale dell’Aja.

“La persona responsabile di questo terribile crimine di guerra è stata consegnata all’Aja e la Serbia ha fatto tutto ciò che doveva fare”, ha dichiarato la Brnabić. La risoluzione del Parlamento europeo dimostra tuttavia che molti politici europei ritengono che questo argomento non sia ancora chiuso. Le autorità bosniaco-erzegovesi si aspettano dalla Serbia non solo di riconoscere l’esistenza del genocidio di Srebrenica, ma anche di riconoscere il proprio ruolo nell’incitamento e compimento del genocidio, e questa posizione è sostenuta anche da altri paesi della regione, in primis la Croazia.

In Serbia, e tra la maggior parte dei serbi che vivono in altri paesi della regione, è diffusa la convinzione che tutte le parti coinvolte nelle guerre combattute negli anni Novanta sul territorio dell’ex Jugoslavia abbiano commesso dei crimini e debbano assumersi le proprie responsabilità, senza dare particolare rilevanza solo ad alcuni crimini. Il fatto che il massacro di Srebrenica sia stato definito genocidio mina le fondamenta di questa idea. Le autorità di Belgrado ritengono che sia sufficiente che la Serbia si sia scusata per quanto avvenuto a Srebrenica e considerano ogni altra azione come un’inutile auto-umiliazione che potrebbe arrecare loro danni politici e mettere a repentaglio il futuro della Serbia e del popolo serbo.

Questo atteggiamento si è ulteriormente rafforzato dopo la decisione della Corte d’appello di Sarajevo di assolvere Naser Orić, ex comandante della difesa di Srebrenica, dalle accuse di crimini contro la popolazione civile serba nei dintorni di Srebrenica. La sentenza è stata emessa all’indomani dell’approvazione della risoluzione sulla Serbia da parte del Parlamento europeo, e in Serbia è stata percepita come un’offesa al popolo serbo e un’umiliazione delle vittime serbe, ma anche come l’ennesima prova dell’ingiustizia subita dal popolo serbo, ed è stata fortemente criticata dai più alti funzionari statali, compreso il presidente Vučić.

Lo stato d’animo
È possibile che la premier serba abbia fermamente respinto l’idea della necessità di riconoscere il genocidio di Srebrenica e di confrontarsi criticamente col passato a causa della sua scarsa esperienza politica, ma l’assenza di qualsiasi reazione alle sue dichiarazioni da parte dei rappresentanti del potere riflette lo stato d’animo della coalizione al governo. Le forze nazionaliste alla guida del paese alimentano la convinzione che il popolo serbo sia la maggiore vittima delle guerre degli anni Novanta e che l’idea sulla necessità di confrontarsi criticamente con il passato sia solo un’altra fregatura ideata dai “nemici della Serbia” e dalla comunità internazionale.

Vučić e il suo Partito progressista serbo (SNS) hanno conquistato una parte dell’elettorato con la promessa che avrebbero portato la Serbia nell’Unione europea, per cui le mosse che mettono a repentaglio la prospettiva europea del paese potrebbero portare alla diminuzione del sostegno da parte degli elettori, anche se per Vučić la priorità resta quella di non perdere il sostegno dei nazionalisti. Una netta presa di posizione su Srebrenica, che ci si aspetta dalle autorità di Belgrado (ora anche sotto forma di un documento ufficiale), è ulteriormente ostacolata dal fatto che gran parte dell’élite intellettuale e politica serba, i principali esponenti della coalizione di governo e la Chiesa ortodossa serba sono restii a confrontarsi con il passato. Nel 2010, quando il presidente della Serbia era Boris Tadić, il parlamento serbo ha approvato una risoluzione su Srebrenica in cui però quanto accaduto a Srebrenica non è stato definito come genocidio, bensì come un crimine.

Alcuni partiti di opposizione sono favorevoli al confronto con i crimini compiuti negli anni Novanta e al pieno riconoscimento delle decisioni del Tribunale dell’Aja, ma evitano di esprimersi pubblicamente sul tema. Alla domanda su cosa pensa della dichiarazione della premier, Borko Stefanović, leader della Sinistra serba (LS, partito di opposizione membro dell’Alleanza per la Serbia), ha risposto che anche lui avrebbe detto la stessa cosa. Quindi, un eventuale cambio ai vertici dello stato potrebbe creare i presupposti per il cambiamento dell’atteggiamento nei confronti del genocidio di Srebrenica, ma non sarebbe sufficiente a garantire che ciò accada.

A differenza di molti esponenti dell’opposizione, il settore non governativo non esita a criticare apertamente l’atteggiamento della leadership al potere nei confronti dei crimini commessi negli anni Novanta. “Il fatto che in Serbia le giovani generazioni crescano con una narrazione basata sulla negazione del genocidio è pericoloso a lungo termine”, ha dichiarato al portale Vijesti la direttrice del Comitato di Helsinki per i Diritti Umani in Serbia Sonja Biserko, aggiungendo che da quando l’SNS è salito al potere “la tendenza a negare il genocidio di Srebrenica si è intensificata”.

Stando alle sue parole, questa tendenza negativa ha raggiunto il punto in cui vengono umiliati, oltre alle vittime, tutti i cittadini della Bosnia Erzegovina. “Penso che l’attuale governo abbia contribuito a umiliare la Serbia a livello internazionale più di chiunque altro, tranne magari il regime dei primi anni Novanta, e che in un certo senso abbia fatto naufragare il tentativo di aprire un dialogo interno su quanto avvenuto nel passato”.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #155 il: Dicembre 04, 2018, 19:53:05 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/94141

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UNGHERIA: La criminalizzazione dei senzatetto targata Orban
Stefano Cacciotti  5 giorni fa

Lo scorso 15 ottobre è entrato in vigore in Ungheria un emendamento del codice penale che prevede sanzioni severe, tra cui anche l’arresto e l’incarcerazione, per chi dorme o staziona abitualmente nei luoghi pubblici. La decisione del governo guidato da Viktor Orbán si scaglia contro le condizioni di vita già precarie dei cittadini magiari che vivono in strada. Secondo stime recenti, in Ungheria i senzatetto sono circa 30.000, lo 0.3 % della popolazione totale. Un esercito di donne e uomini che si concentra per un terzo nella capitale del paese, Budapest. Nella città danubiana, come in molte altre capitali europee, i senzatetto sono infatti una presenza costante tra le vie del centro.

Le tappe dell’azione governativa contro la povertà

La scelta del partito del premier, FIDESZ, porta a compimento un processo di criminalizzazione della povertà che Orbán ha avviato nel 2011 con la legge sui reati minori, successivamente cancellata dalla Corte Costituzionale, che inseriva fra i reati quello di utilizzare lo spazio pubblico come rifugio. Questo processo ha poi raggiunto un’altra tappa fondamentale nel 2013, quando, grazie all’approvazione della nuova Costituzione, i governi locali hanno acquisito il potere di emanare ordinanze dirette contro i clochard.

Il governo ha giustificato le nuove sanzioni facendo appello ai 19.000 posti letto presenti negli alloggi messi a disposizione dallo stato. Secondo l’associazione A Város Mindenkié (AVM – La città è per tutti), che dal 2009 si batte per l’attuazione di politiche abitative inclusive e popolari in Ungheria, questi dati non hanno una fonte attendibile mentre il numero di posti letto disponibili è fermo da anni a 11.000 unità.

Nei giorni precedenti l’entrata in vigore dell’emendamento, la polizia ha distribuito dei volantini di avvertimento e pattugliato le zone dove si concentrano baracche e ripari di fortuna di molti senzatetto. I membri dell’associazione AVM denunciano che durante i mesi invernali le strutture di ospitalità statali presenti nella capitale non riescono ad accogliere tutte le richieste, andando in sovraffollamento. Il risultato di questa azione governativa costringerà quindi molti senzatetto ad abbandonare le zone centrali, marginalizzandoli ulteriormente senza risolvere i loro problemi.

Stato sociale vs stato caserma

Di fronte a questo dramma, che accomuna tutte le società postindustriali, sono principalmente tre le strade che le autorità politiche possono percorrere. La prima è quella di affrontare il problema in modo solidale e responsabile, riattivando lo stato sociale e mettendo in pratica politiche abitative che avviino al riutilizzo e alla riqualifica degli stabili e delle case abbandonate o sfitte. La seconda è quella di rimuovere artificiosamente il problema negando la sua gravità, ostinandosi a considerare le comunità di emarginati che si aggirano nelle strade delle nostre città come una normale e sopportabile conseguenza del sistema economico capitalista.

La terza via intensifica invece la repressione e il controllo sulle vite dei senzatetto, promuovendo leggi volte alla criminalizzazione della loro miseria. Declinare il problema in questi termini significa avvicinarsi al modello di “stato caserma” definito dal pedagogista Henry A. Giroux, dove gli emarginati diventano dei cittadini di serie B, un elemento di disturbo da tenere sotto controllo per evitare che venga minacciata la salute e l’ordine della società. In questo caso il cinismo, la negazione e la repressione vanno a sostituire i principi di solidarietà, dignità umana e opportunità di riscatto sociale, che sono il collante e il leitmotiv di qualsiasi società democratica che voglia sopravvivere a se stessa.

Purtroppo per i cittadini magiari, e in particolare per quelli che vivono in strada, l’Ungheria di Orbán sembra presentarsi come un interprete piuttosto fedele del modello elaborato da Giroux, in chiara contraddizione con i principi di cui abbiamo oggi disperato bisogno in Europa.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #156 il: Dicembre 10, 2018, 20:57:51 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/94289

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Serbia e Kosovo, continua il circo della politica balcanica
Giorgio Fruscione  4 giorni fa

Da BELGRADO – Un altro giorno di protesta per i serbi del Kosovo delle città di Mitrovica Nord, Gracanica e Strpce. Sono in strada contro l’aumento dei dazi del 100% per le merci importate da Bosnia-Erzegovina e Serbia. Un aumento contrario agli accordi di libero scambio CEFTA fortemente voluto dal governo kosovaro presieduto da Ramush Haradinaj, in reazione all’opposizione di Belgrado all’ingresso di Pristina nell’INTERPOL.

Il tendone

Seguire gli eventi in corso tra i due paesi è piuttosto complicato, la situazione è in continua evoluzione e gli atteggiamenti delle autorità dei due schieramenti ricordano tanto due bambini che si fanno i dispetti e poi si lagnano. Se si pensa poi che sono due stati che, teoricamente, si sono impegnati per la pace e per il futuro dei propri popoli, vien da dire che come spettacolo ricorda molto il circo.

Funamboli, magie e pagliacci. Nel circo balcanico di Kosovo e Serbia c’è tutto. Persino la suspence del pubblico, anch’esso parte dello spettacolo, da ormai decenni diviso sulle opposte tribune ad assistere al ludico show in atto tra due paesi che prima si impegnano a Bruxelles con strette di mano e foto imbronciate “col nemico”, per poi tornare nel tendone circense della politica balcanica. Dove ci si sente al sicuro a fare tutto il contrario di quel che si è promesso a quell’Europa che ingenuamente investe per la stabilità della regione, e in cambio riceve false promesse.

Andiamo con ordine e ripercorriamo le ultime tappe. Prima, a inizio novembre, il ministro degli Esteri serbo Ivica Dacic convince le Isole Comore a ritirare il riconoscimento del Kosovo (come avrebbero già fatto altri stati africani); successivamente, Pristina alza i dazi sulle importazioni serbe al 10%; poi, il 20 novembre scorso, la Serbia convince i due terzi dell’assemblea generale dell’INTERPOL a votare contro l’ingresso del Kosovo; che quindi aumenta i dazi al 100%, genera la protesta dei sindaci serbi del nord, che si dimettono, invocano la protesta di piazza, nonché quella dei rappresentanti serbi al parlamento di Pristina, dove vi si barricano in attesa di parlarne con il commissario europeo per l’allargamento Johannes Hanh, ricevuto in visita ufficiale lo scorso 3 dicembre.

Il commissario europeo ha sostanzialmente fatto la parte della maestra che chiede ai bambini che litigano di darsi la mano, rimproverando soprattutto Pristina per la tassazione delle importazioni. Così, quando la merce serba potrà tornare sul mercato kosovaro si potrà letteralmente dire “pace, carote e patate”.

Il funambolo e il pagliaccio

Ma lo spettacolo non si ferma alla diplomazia e alla politica, e coinvolge anche la criminalità.
All’alba del 23 novembre, infatti, le forze speciali kosovare hanno compiuto un’operazione di polizia a Mitrovica Nord, principale città serba del Kosovo. L’operazione ha portato all’arresto di quattro persone indagate per l’omicidio del leader serbo-kosovaro Oliver Ivanović, freddato a colpi di pistola lo scorso gennaio. A sfuggire all’arresto, invece, Milan Radoicic, personaggio noto e decisamente controverso.

Di Radoicic, il capo dell’ufficio per il Kosovo Marko Djuric – intemediario tra Belgrado e i serbi dell’ex provincia – aveva detto esser “un uomo d’affari”. Tuttavia, come emerge da recenti inchieste condotte dai giornalisti di KRIK, Milan Radoicic ha diversi precedenti penali in tutta la regione, che vanno dalla falsificazione di documenti al sequestro di persona, passando per l’appropriazione indebita.

Ma soprattutto, Radoicic è il vice-presidente della Lista Serba, partito di maggioranza dei serbi del Kosovo telecomandato da Belgrado e dal presidente serbo Aleksandar Vucic. Nonostante Vucic abbia smentito di aver mai incontrato Radoicic, esistono sue precedenti dichiarazioni in cui lo omaggiava pubblicamente “per essersi preso cura della vita dei bimbi serbi del Kosovo”. Esistono inoltre alcune fotografie in cui Vucic e Radoicic compaiono assieme. E di foto di Radoicic ne esistono anche in compagnia del premier kosovaro Haradinaj – che, ricordiamo, è sempre sotto mandato di arresto emesso da Belgrado. Non va poi dimenticato che la Lista Serba è il fondamentale alleato del governo di Pristina – quello stesso governo che ha imposto l’aumento dei dazi – con ben tre ministri, di cui uno è anche vice-premier.

Eppure, l’alleanza di governo era stata interrotta dopo il teatrino dell’arresto di Marko Djuric lo scorso marzo. Ma il ritiro dall’esecutivo non è mai stato ratificato, la maggioranza non è mai mancata e non si è mai tornati al voto. In altre parole, la Lista Serba del fuggitivo Radoicic continua a sostenere il primo ministro Haradinaj – che è a sua volta un fuggitivo, almeno stando a Belgrado.

Milan Radoicic è quindi uno di quei funamboli di questo circo balcanico. Fuggito in Serbia in quanto le forze di polizia dello stato governato anche dal suo partito “vorrebbero ammazzarlo”, sembra essere il personaggio chiave per risolvere il caso dell’omicidio di Ivanovic, e forse altre questioni kosovare. Il suo tentato arresto è uno dei motivi, insieme ai dazi, che ha portato alle dimissioni dei quattro sindaci del nord, tutti in quota Lista Serba.

D’altronde, era stato lo stesso Oliver Ivanovic – in un’intervista rilasciata a BIRN pochi mesi prima di essere ammazzato – a fare il nome di Radoicic sostenendo come questi fosse il vero padrone del buono e cattivo tempo nel nord del Kosovo. Nella stessa intervista, aggiungeva di temere per la propria sicurezza molto di più per colpa dei suoi connazionali serbi che per gli albanesi. Inoltre, va detto che Ivanovic si era precedentemente rifiutato di aderire alla Lista Serba, preferendo restare all’opposizione. Insomma, Oliver Ivanovic era un politico scomodo.

A quasi un anno dal suo omicidio, il caso è ancora lontano dall’essere chiuso. Ma anche a questo sembra averci pensato Vucic.
Dopo la fuga in Serbia, Radoicic è infatti stato ascoltato dalla polizia serba, ma non come indagato, e sarebbe stato sottoposto alla macchina della verità. Lo ha detto lo stesso Vucic in un’intervista esclusiva per l’emittente nazionale RTS: “Radoicic ha passato positivamente il test della macchina della verità. Non solo non ha ucciso Ivanovic, ma non ha nemmeno partecipato all’organizzazione dell’omicidio. E quindi ora che si fa? Eh, che si fa?”. Il tono quasi minaccioso con cui il presidente si è rivolto al giornalista sembra chiudere il caso così, senza necessità di indagare oltre.
Se non altro, è strano che un capo di stato difenda in modo così strenuo un fuggitivo indagato per omicido – che per altro aveva dichiarato di non conoscere – quasi come se stesse difendendo sé stesso, rendendo per un attimo quasi realistiche le teorie che sostengono che una caduta di Radoicic possa comportare anche una caduta dell’uomo forte di Belgrado.

Al momento, Radoicic si trova nella capitale serba insieme al presidente della Lista Serba e sindaco di Mitrovica Nord Milan Rakic. I due hanno avuto un incontro con Vucic sulla situazione in Kosovo, ma Radoicic ha seminato i giornalisti e ha fatto sapere di non voler rilasciare dichiarazioni.

Magia: “E ora che si fa?”

Al presidente serbo che chiede “e ora che si fa?” – che ricorda quei maghi che gridano “non c’è trucco, non c’è inganno” – bisognerebbe rispondere che la macchina della verità non si sostituisce ai processi e al regolare percorso della giustizia. Un indagato non può essere scagionato da un test di cui nessuno ha prova.

Infine, mentre succedeva tutto questo, lo scorso primo dicembre Vucic ha ricevuto a Venezia il “Leone d’oro per la pace”. Anche se il suo doppiogiochismo politico gli avrebbe dovuto portare piuttosto quello per il miglior attore protagonista, va detto che, tuttavia, il premio non ha nulla a che fare col rinomato festival del cinema di Venezia. E’ un riconoscimento che in molti ignorano, nonostante prima di lui l’abbia vinto il re dei tortellini Giovanni Rana e che, al posto del presidente, il premio sia stato ritirato dall’ambasciatore serbo in Italia. D’altronde, Vucic era impegnato a salvaguardare la pace nei Balcani, non poteva certo assentarsi.

Il circo balcanico continua, condito dagli stacchetti di walzer tra criminalità e politica, rigorosamente inter-etnici. Nelle attività criminali, infatti, il nazionalismo non ha posto, mentre le tensioni etniche sembrano sempre di più un’efficace arma di distrazione di massa.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #157 il: Dicembre 10, 2018, 21:04:09 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Europa/Gli-ostacoli-al-contrasto-della-violenza-sulle-donne-191542

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Gli ostacoli al contrasto della violenza sulle donne

In Europa gli stereotipi sessisti ostacolano la diffusione di efficaci strumenti di contrasto alla violenza di genere. Nel 2018 la ratifica della Convenzione di Istanbul è stata respinta da Bulgaria e Slovacchia. Ma anche dove la ratifica c'è stata, l'applicazione spesso procede a rilento

07/12/2018 -  Gina Pavone
In Lituania una donna vittima di violenza maschile non saprebbe dove andare a stare, nel caso non avesse modo di sottrarsi autonomamente agli abusi subiti per esempio in famiglia. In questo paese non esistono infatti rifugi per l’accoglienza di donne vittime di violenza ed eventuali figli. Questo vuol dire che non vi è nessuno dei posti letto che sarebbero stabiliti dalla Convenzione di Istanbul, che il paese ha firmato nel 2013 ma mai ratificato.

Nei paesi dell’Unione europea la Lituania è l’unico dove si registra la totale assenza di uno dei servizi considerati basilari per il contrasto alla violenza di genere: la disponibilità di luoghi protetti e accessibili gratuitamente, dove una donna che ha subito violenza può trovare riparo, protezione e assistenza per uscire dalla condizione di vittima. Tuttavia numerosi paesi sono ancora troppo vicini a questo vuoto: in Polonia manca il 99% dei posti letto attesi, nella Repubblica Ceca ne manca il 91%, in Bulgaria il 90%, mentre l’Italia è ferma all’89%.


È un momento, quello attuale, in cui le politiche di parità e antidiscriminazione, comprese le azioni per il contrasto alla violenza contro le donne, registrano attacchi anche notevoli e azioni organizzate di contrasto. Come quello che comincia a essere noto come “Agenda Europe  ”, un piano transnazionale per la restaurazione di una visione conservatrice e religiosa della società, e per il contrasto di politiche antidiscriminatorie, tra cui viene inclusa la tanto paventata “ideologia gender”.

La situazione nell’est Europa
La parola “gender” è oggetto del contendere anche in molti paesi dell’Est Europa in cui si sta dibattendo la ratifica o meno della Convenzione di Istanbul. È proprio su questo termine che in Slovacchia  la ratifica è stata rigettata e in Bulgaria  la Convenzione è stata dichiarata incostituzionale. Anche in Lituania la ratifica risulta impantanata per il rifiuto di accettare l’articolo 3.c della Convenzione, in cui il genere viene definito come un insieme di regole, comportamenti, attività e attributi che una società considera accettabili per uomini e donne. Un passaggio centrale nella Convenzione, indispensabile per mostrare che alla base della violenza spesso agiscono lo squilibrio di potere e i rapporti di forza e sottomissione tra uomini e donne radicati nella società. In altre parole, per indicare che la violenza di genere è perpetrata contro le donne proprio in quanto tali (art. 3.d).

In totale i paesi che hanno ratificato la Convenzione di Istanbul sono 33, con Croazia, Grecia, Islanda, Lussemburgo e Macedonia che si sono uniti nel 2018. Ma nonostante le ratifiche sottoscritte da molti paesi est europei, in quest’area dell’Unione ci sono stati anche molti contrasti. Campagne di opposizione alla Convenzione sono state organizzate in diversi paesi: in Croazia ci sono state manifestazioni in piazza, in Bulgaria e Slovacchia si è arrivati al rifiuto della ratifica, mentre in Lituania non si riesce a portare avanti la discussione parlamentare.

In generale nel paesi dell’est Europa si registra una scarsa conoscenza dei servizi rivolti alle donne vittime di violenza, come riporta un sondaggio 2016 di Eurobarometro sulla violenza di genere. Nel sondaggio tra le altre cose emerge che, considerando tutta l’Europa, un intervistato su cinque condivide punti di vista che tendono a colpevolizzare le vittime stesse - “se la sono cercata” è una narrazione che si sente spesso, persino in sede processuale  - o ancora l’idea che quella sulla violenza maschile è una ricostruzione spesso esagerata se non inventata. Punti di vista largamente diffusi nell’Est Europa, sottolinea lo stesso sondaggio, così come è diffusa una certa ritrosia a denunciare gli episodi di violenza: nell’Europa orientale le persone sono generalmente propense a considerare la violenza domestica una questione privata che va gestita all’interno della famiglia; ad esempio si trova d’accordo con questa affermazione il 34% dei bulgari che hanno risposto al sondaggio e il 32% dei romeni.


E ancora in un recente sondaggio nella Repubblica Ceca emerge che il 58% degli intervistat  i pensa che lo stupro possa essere in qualche modo giustificabile da atteggiamenti della vittima stessa, come per esempio camminare da sole di notte o vestire in un modo piuttosto che in un altro. Una mentalità che tende a scoraggiare le denunce: secondo le stime, sempre nella Repubblica Ceca solo tra il 5 e l’8% dei casi di violenza finisce per essere riportato alla polizia, e ancora meno sono poi le storie che da lì finiscono in tribunale.

Le dimensioni del problema
In realtà però non si conosce ancora la reale dimensione del problema, le statistiche ufficiali  sulle donne vittime di violenza sono ancora molto lacunose, e se si guarda a ciò che arriva nei tribunali si entra nel vivo di una mancanza di informazioni che comprende molti aspetti, dalla grande disomogeneità nel modo in cui sono raccolti i dati - per esempio nel conteggio delle violenze stesse o dei femminicidi - fino all’assenza di statistiche complete su esposti, denunce, cause intentate ed effettive condanne. La notevole varietà dei dati esistenti  lascia ipotizzare sia differenze metodologiche di raccolta ed elaborazione, sia marcate differenze di mentalità tra i vari paesi per quanto riguarda la concezione stessa di violenza di genere.

In generale in Europa sul fronte della fiducia delle donne vittime verso le istituzioni non va molto bene, se si pensa che solo una donna su 3 (il 33%) vittima di violenza grave da parte del partner si rivolge alla polizia o a strutture e organizzazioni dedicate. Percentuale che scende al 26% quando l’aggressore non è il proprio partner.

Anche nei paesi dove l’emancipazione femminile è generalmente considerata più avanzata, la violenza non è affatto scomparsa, anzi. Spesso ha solo cambiato modalità o situazioni in cui si presenta. Un rapporto europeo pubblicato nel 2007 su violenza di genere e indipendenza economica  rileva una situazione molto articolata quando si mettono in relazione emancipazione femminile e violenza. L’avere un lavoro fa registrare una lieve diminuzione della violenza subita in casa, ma solo se non ci sono di mezzo dei figli. E se da un lato le donne con livelli avanzati di istruzione risultano un po’ più al riparo da violenza sessuale e violenza da parte del partner, questa condizione espone maggiormente a molestie sessuali. Da notare inoltre che anche il livello di indipendenza economica conta: quando le donne guadagnano di più del partner, si segnala un consistente aumento della violenza da parte del partner; all’opposto quando la donna guadagna meno, risulta più esposta ad abusi psicologici.

Molto resta ancora da fare, dunque. Non solo per agevolare firme e ratifiche della Convenzione di Istanbul, ma anche per garantire l’effettiva applicazione dei suoi contenuti. Non a caso la Convenzione stessa prevede un’attività di monitoraggio e valutazione ex post, che proprio quest’anno è stata condotta in Italia. Nel rapporto  da poco pubblicato dall’associazione “Dire” si legge di numerosi ostacoli che le donne incontrano sia con le forze dell’ordine sia in ambito sanitario “dovuti ancora a scarsa preparazione e formazione sul fenomeno della violenza, ma soprattutto al substrato culturale italiano, caratterizzato da profondi stereotipi sessisti e diseguaglianze tra i generi, oltre che pregiudizi nei confronti delle donne che denunciano situazioni di violenza, cui ancora si tende a non credere”.

Il rapporto definisce irrisori i fondi stanziati per contrastare la violenza sulle donne: secondo un dato ripreso dalla Corte dei Conti italiana ai centri antiviolenza e alle case rifugio arriverebbero circa 6.000 € annui, una cifra largamente insufficiente per ottenere gli standard di protezione da garantire alle vittime, e tanto più per pianificare azioni di prevenzione e contrasto di più ampio respiro. Risorse di cui il rapporto segnala anche una costante diminuzione negli anni e una distribuzione “a macchia di leopardo”, che si traduce nella presenza di strutture quasi solo al centro nord e una grave carenza strutturale nel sud e nelle isole.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network  ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #158 il: Dicembre 13, 2018, 19:32:52 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/94458

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BALCANI: Le città più inquinate al mondo
Pietro Aleotti  1 giorno fa

Sarajevo è stata, il primo dicembre scorso, la città più inquinata del mondo, perlomeno per ciò che attiene alle emissioni delle famigerate polveri sottili. Peggio persino di Pechino e Lahore, che storicamente si contendono i primi posti di questa poco lusinghiera classifica. L’indice di qualità dell’aria calcolato per quel giorno è stato, infatti, di oltre 300 (su una scala di 500), con un valore di polveri sottili pari a 750 microgrammi, quasi il doppio rispetto a quello ammesso a Sarajevo, ma addirittura 15 volte superiore a quello consentito in una città come Milano. Un problema non nuovo per la capitale bosniaca, al punto che la sua risoluzione è stata posta tra i punti centrali del documento di programma appena sottoscritto dalla nuova maggioranza di governo del Cantone di Sarajevo.

Nei giorni immediatamente successivi, a Pristina, capitale del Kosovo, l’indice di qualità dell’aria ha raggiunto il valore-monstre di 456, similmente a quanto osservato a fine novembre in un’altra capitale, Skopje, in Macedonia.

Un problema generale nei Balcani

Se la questione non fosse seria e non riguardasse la salute delle persone, si potrebbe sottolineare, con quell’ironia tanto cara ai sarajevesi, che l’inquinamento è probabilmente l’unico elemento unificante dei Balcani, accomunando non solo le capitali, ma anche i centri minori, sede di diversi insediamenti industriali (realizzati perlopiù nel periodo jugoslavo e mai ammodernati) e delle centrali elettriche a carbone. Sono conosciutissimi per le emissioni di anidride solforosa gli impianti Nikola Tesla B e Kostolac, in Serbia, e quello di Ugljevik, in Bosnia Erzegovina: quest’ultimo considerato dall’Agenzia europea per l’ambiente il più inquinante di tutti (150 mila tonnellate l’anno di anidride solforosa).

E’ forse meno noto, invece, che secondo quanto emerso dagli studi condotti nell’ambito del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), sarebbero addirittura 27 le zone che, in Kosovo, hanno un livello di inquinamento ad alto rischio per la salute umana. E secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale per la Salute (OMS) del 2016, sono tre le città macedoni tra le prime dieci per emissioni di polveri sottili: Tetovo, Skopje e Bitola. Per non dire della centrale a carbone di Pljevlja, in Montenegro, regolarmente oltre i limiti di emissioni.

Le cause

Un refrain, quello dell’inquinamento atmosferico, che si presenta sempre uguale a se stesso alla vigilia di ogni inverno. Oltre al già ricordato ricorso al carbone per alimentare le centrali termoelettriche, le cause di questa situazione risiedono sia nell’impiego del carbone stesso o della nafta nel riscaldamento domestico, sia nella moltitudine di veicoli circolanti alimentati a gasolio, spessissimo risalenti agli anni ’80 e ’90.

Non un problema stagionale, dunque, ma un problema strutturale, come sottolineato da Khaldoun Sinno, vicecapo della delegazione UE in Bosnia Erzegovina, nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Sarajevo all’indomani della diffusione dei dati choc sull’inquinamento cittadino.

Le conseguenze

Il problema è, dunque, vitale e percorre da nord a sud tutti i Balcani. Il World Health Statistics del 2018 ha sancito che sono proprio i paesi dell’est Europa a far registrare i tassi di mortalità legati all’emissione di polveri sottili più alti dell’intero continente. E i dati dell’OMS del 2016 sono in linea con questa conclusione: la situazione peggiore si ha in Bosnia Erzegovina dove si stima siano almeno 8000 le morti premature per cause legate all’inquinamento dell’aria, 231 ogni centomila abitanti. Appena meglio in Serbia dove si scende a 5400, ma è significativo, se rapportato alla popolazione, anche il dato di Macedonia e Kosovo, con 1300 e 800, rispettivamente.

Non solo un problema sociale, però, ma anche economico: stando a uno studio di Bank Watch, un’organizzazione no profit, i costi direttamente collegati all’inquinamento dell’aria ammonterebbero, in tutti i Balcani, a 8,5 miliardi di euro l’anno, tra morti premature e costi sanitari, il 13% del loro PIL totale.

Lontani dalla soluzione

Da parte della politica sembra esserci mancanza di consapevolezza o, peggio, indifferenza a trovare una soluzione. Prova ne è il fatto che in Bosnia si continua a investire sul carbone: dopo l’inaugurazione di una nuova centrale a carbone a Stanari nel 2016 (560 milioni di euro, il più grande investimento in campo energetico degli ultimi 30 anni), sono ora al via i lavori per l’espansione della centrale di Tuzla, in Bosnia.

Più in generale, in tutti i Balcani occidentali sono svariati i progetti di nuovi impianti termoelettrici allo studio, con la sola eccezione dell’Albania. Nel frattempo si gestisce alla bene e meglio l’emergenza mettendo in atto misure palliative, dal blocco del traffico, alle mascherine. Davvero troppo poco.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #159 il: Dicembre 13, 2018, 19:35:47 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/Il-dilemma-del-femminismo-nella-Nuova-Armenia-191639

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Il dilemma del femminismo nella "Nuova Armenia"
aree   Armenia ita

Mentre sempre più donne scelgono di entrare in politica nella "Nuova Armenia" rivoluzionaria, il movimento femminista è di fronte a un dilemma: trasformare il sistema patriarcale dall'interno o dall'esterno?

13/12/2018 -  Knar Khudoyan
(Pubblicato originariamente da OC Media  il 29 novembre 2018)

"Sono stati i metodi della Rivoluzione di velluto, cioè la de-centralizzazione, l'orizzontalità, che hanno permesso alle donne di partecipare. Nessuno ha dovuto spingere le donne a fare politica: è successo naturalmente. Perché la strada, se non era anarchica, non era nemmeno gerarchica". Così l'attivista femminista Maria Karapetyan, fra gli organizzatori del movimento "Reject Serzh", che ha rovesciato decenni di dominio del Partito Repubblicano nel paese, riassume il ruolo delle donne nella rivoluzione.

Mentre molte donne e ragazze hanno ancora la pelle d'oca quando sentono il famoso discorso "Viva le sorelle", pronunciato da Karapetyan in piazza della Repubblica a Yerevan il 18 aprile scorso, l'attivista ha preso la decisione – che definisce dura – di unirsi al Partito del "Contratto civile" e candidarsi per il parlamento.

Karapetyan non è l'unica donna che pensa che la Rivoluzione di velluto debba continuare nelle istituzioni statali e nei governi locali. Le prime elezioni post-rivoluzionarie nel paese, le elezioni per il sindaco e il consiglio comunale del 23 settembre a Yerevan, hanno visto la partecipazione di alcune attiviste che hanno aderito all'alleanza "Il mio passo", sostenuta dal primo ministro Nikol Pashinyan.

Con uno schiacciante 81%, "Il mio passo" ha ottenuto 57 dei 65 seggi in ballo, fra cui 15 donne.

Elezioni parlamentari
Il premier uscente armeno Nikol Pashinyan, ha ottenuto una schiacciante vittoria alle elezioni parlamentari tenutesi domenica 9 dicembre in Armenia.

L'alleanza da lui guidata, 'Il mio passo', che include il suo partito 'Contratto civile', ha ottenuto il 70,4% dei voti.

Addirittura fuori dal parlamento l'ex partito di governo, il Partito repubblicano dell'Armenia, che non è riuscito a superare il 5%, quota di sbarramento, fermandosi al 4,7% dei voti. Uniche forze all'opposizione parlamentare saranno 'Armenia prospera' e 'Rinascimento armeno', che hanno raccolto rispettivamente l'8,27% e il 6,37% delle preferenze.

A seguito del voto Nikol Pashinyan ha scritto sulla propria pagina Facebook: "Cittadini forti, forti, forti. Vi amo e sono fiero di voi e mi inchino a tutti voi!".

Dal canto suo, Eduard Sharmazanov, portavoce del Partito Repubblicano, all'uscita dei risultati preliminari che dichiarato che il 9 dicembre è un "Giorno di resurrezione per il partito che non è affatto 'finito' come dicono alcuni ma che ha 60.000 sostenitori fedeli".

Il 10 ottobre, Diana Gasparyan ha vinto le elezioni a Vagharshapat (Ejmiatsin), una città appena ad ovest di Yerevan, diventando la prima donna sindaco dell'Armenia. Le elezioni parlamentari previste per dicembre [tenutesi lo scorso 9 dicembre, ndr] vedranno ancora più donne candidate.

Ciò porterà ad una maggiore presenza femminile negli organi decisionali del paese, ma alcuni si chiedono se ciò porterà automaticamente ad una maggiore protezione dei diritti delle donne.

Una fascia del femminismo armeno considera infatti in contraddizione con l'obiettivo della liberazione delle donne lavorare con lo stato, protettore della proprietà privata e della famiglia (la proprietà appartiene agli uomini e la famiglia è il principale luogo di sfruttamento delle donne).

Sostengono invece che la lotta per le donne come "classe" deve passare attraverso l'empowerment delle comunità femminili, creando modelli cooperativi per le relazioni sociali, e non attraverso individuali storie di successo di ragazze che sono riuscite a rompere il soffitto di vetro.

Il patriarcato gentile
Il nuovo primo ministro Nikol Pashinyan ha espresso le sue opinioni sull'uguaglianza di genere. Sottolineando il ruolo delle donne nel suo discorso dell'8 maggio, il giorno del suo insediamento, Pashinyan ha affermato che "la partecipazione massiccia delle donne è un fattore che ci ha permesso di chiamare ciò che è accaduto una rivoluzione di 'Amore e solidarietà'".

Tuttavia, ha poi aggiunto qualcosa che ha fatto trasalire le femministe in tutto il paese. "La rivoluzione ha dimostrato che la partecipazione attiva delle donne [in politica] è compatibile con la nostra identità nazionale, la nostra percezione nazionale della famiglia".

La maggior parte delle femministe è conscia che il nuovo governo non è molto informato sui movimenti delle donne. Molte sono state comprensive, almeno per ora, nella convinzione che sia prioritario combattere il rischio di controrivoluzione.

"In epoca pre-rivoluzionaria, abbiamo dovuto infrangere la legge per partecipare, ad esempio, ad una discussione sulla legge sulla violenza domestica al ministero della Giustizia", ​​ricorda Lara Aharonyan, co-fondatrice del Women's Resource Center di Erevan. "Sì, i membri del nuovo governo sono prodotti della stessa società patriarcale. Sono anche persone dalla mentalità patriarcale. La differenza è che sono pronti ad ascoltare, a educare se stessi, a collaborare con la società civile, a differenza dei loro predecessori".

Aharonyan pensa che, per ottenere la partecipazione delle donne, lo stato deve prima fare alcuni passi avanti. Uno di questi, afferma, sarebbe aumentare le quote per alleviare lo squilibrio di genere in parlamento. Nel parlamento sciolto il primo novembre solo il 18% dei deputati erano donne.

"Le donne devono essere presenti per parlare dei propri bisogni. E se più della metà della popolazione è composta da donne, per giustizia e per una pari rappresentanza, le donne dovrebbero costituire il 50% del parlamento", sostiene Aharonyan.

Dall'attivismo alla politica di partito
Membro di lunga data del partito della Federazione Rivoluzionaria Armena, Sevan Petrosyan concorda sul fatto che il sistema dei partiti è un compromesso per le femministe convinte.

"Come raccontava Simone de Beauvoir in quanto donna nel Partito comunista francese, doveva combattere su due fronti; all'interno del partito e al di fuori di esso. Questa è l'unica soluzione. Non mi illudevo che questa rivoluzione avrebbe portato le donne in politica a tutta forza. Non era la priorità. A differenza di molte altre femministe, non sono rimasta delusa dal fatto che Pashinyan abbia nominato solo due ministri donne, perché non nutrivo grandi aspettative".

"Il mio problema era che questo non era un movimento dei poveri. Era un movimento per liberarsi del Partito Repubblicano, della corruzione, della mancanza di trasparenza, e basta. Sì, lo stato si è fatto più vicino a me, posso scrivere una breve domanda al mio amico, che ora è vice ministro. Ma non si può dire lo stesso per un abitante di un villaggio della provincia", dice Sevan Petrosyan.

Molto prima della Rivoluzione di velluto, un'alleata chiave di Pashinyan, Lena Nazaryan, fu una delle prime donne a lasciare l'attivismo per la politica di partito. Attivista ambientalista e giornalista critica per molti anni, Nazaryan è fra i fondatori del Partito del "Contratto civile" di Pashinyan nel 2015.

Nazaryan è ora alla guida della fazione Way Out in parlamento. Modello per molte giovani donne, è spesso tormentata da adolescenti in cerca di selfie.

"Non mi piace quando le donne vengono presentate come deboli, come se dovessero essere spinte ad essere attive. No, le donne dovrebbero essere presenti perché sono necessarie. E quando lo sono, dovrebbero provarlo nel loro lavoro", dice Nazaryan.

"Personalmente preferisco collaborare con le donne, se ne ho la possibilità, perché giocano meglio in squadra, sono interessate al risultato, non a gareggiare".

Trasformare le relazioni sociali, non le singole donne
Le attiviste che si rifiutano di scendere a compromessi con lo stato lo fanno senza condannare le donne che lo fanno.

"Non dico che le donne non dovrebbero impegnarsi in politica, ma la loro partecipazione non dovrebbe essere fine a se stessa", dice Anna Shahnazaryan.

"Se una donna entra in parlamento, dovrebbe mettere in discussione il modo in cui le decisioni vengono prese lì. Se una donna entra in un'istituzione per smantellarla dall'interno, per renderla più democratica e centrata sulla persona, è una cosa che incoraggio".

"Personalmente non mi interessa se il sindaco di Ejmiatsin è una donna se non rappresenta il suo genere [...] Il ministro del Lavoro e degli Affari Sociali è una donna, Mane Tandilyan, ma per me è un problema che lei non parli del lavoro domestico non retribuito delle donne".

Shahnazaryan e la sua collega Arpine Galfayan sono coinvolte nell'attivismo su molti fronti, tra cui la creazione di movimenti di resistenza collettiva nelle comunità per combattere progetti minerari come quello di Teghut, Amulsar.

Galfayan mette in guardia dalla "trappola" di essere usate come pedine in politica.

"Le donne vengono utilizzate per riempire le quote, per dare la falsa speranza che stia andando meglio", dice.

"Credo che le istituzioni della democrazia rappresentativa abbiano la logica di mantenere il pieno controllo e non condividere il potere con gli altri", sostiene Galfayan.

Dice che, a livello globale, il sistema "promuove gli interessi delle élite aziendali più ricche e più inumane. In definitiva è gerarchico; gli uomini (specialmente gli uomini eterosessuali benestanti) hanno da sempre posizioni privilegiate in queste gerarchie, e quindi le donne faticano a diventare parte del 'club'. Infine, anche quelle poche donne che raggiungono il vertice devono comunque fare gli interessi di questo sistema gerarchico e ingiusto".

"Preferisco lavorare per smantellare questo sistema piuttosto che renderlo più accattivante. Preferisco sostenere e rafforzare sistemi che ritengo equi e liberatori", dice Galfayan.

Shahnazaryan sostiene che il punto sia se una donna è consapevole della subordinazione che affronta a causa del suo genere.

"Una donna non deve essere in parlamento per fare politica. Se una casalinga protegge la sua vicina, ostacolando e prevenendo la violenza domestica, sta facendo un'azione politica".

Smantellare il patriarcato a tutti i livelli
Tuttavia, la maggior parte delle femministe in Armenia concorda sul fatto che non vi è una dicotomia fra "riformismo e femminismo radicale" e che il cambiamento è sempre arrivato da una combinazione delle due forze. Ad esempio, nel movimento delle suffragette nell'Inghilterra del primo Ottocento secolo, i movimenti militanti delle donne hanno lavorato in parallelo con i gruppi femministi conservatori.

Poche donne politicamente attive in Armenia negherebbero che la rivoluzione debba continuare, e che il famoso slogan femminista "il personale è politico" sia ancora valido. Alcune si concentrano sul "personale" della frase; lavorare sodo su di sé per vincere in una battaglia impari con uomini privilegiati, mentre altre lottano per trasformare le relazioni sociali esistenti.



Citazione
"Le donne devono essere presenti per parlare dei propri bisogni. E se più della metà della popolazione è composta da donne, per giustizia e per una pari rappresentanza, le donne dovrebbero costituire il 50% del parlamento", sostiene Aharonyan.

Fanno gli stessi identici discorsi delle femmine occidentali.
Questo per chi ancora credesse che al di fuori dell'Occidente le donne... "son diverse".
Sì, come no.
Tornando nel merito, sarebbe interessante conoscere la percentuale delle armene interessate e impegnate nella politica.
Molto probabilmente la suddetta percentuale somiglierà moltissimo a quella di casa nostra e di tanti altri paesi, occidentali e non...

https://questionemaschile.forumfree.it/?t=8366653

Citazione
seiper1
view post Inviato il 21/5/2006, 11:19

Ok. Andiamo per ordine.
Tu dici che la percentuale di donne in politica attiva dipende da un complotto (più o meno oscuro) della parte maschile (segreterie di partito, classi dirigenti etc.) per garantirsene il monopolio.
Ma prima di fare un'affermazione così banale, che è quella che sentiamo tutti i giorni dai media, sapresti dirmi quello che non viene mai detto?
Ossia, quale sia la percentuale di donne che frequentano la politica e partecipano attivamente nelle sezioni, nelle segreterie, sul territorio, nelle circoscrizioni, nei comuni e in tutti quei luoghi dove la politica si svolge?
Io, pur senza avere dati certi (che nessuno dice esplicitamente, perché, questa sì, è una realtà occultata) so che in molti partiti (molti, non tutti) la semplice percentuale delle iscritte non va oltre il 15/20 percento, ad essere generosi. E questo dato ancora non dice quanta parte di queste abbia un impegno effettivo o possegga solo una semplice tessera. A questo riguardo, sarebbe utile ed importante se qualcuno di noi (io non ho tempo sufficiente per farlo) svolgesse una piccola ricerca sul web per raccogliere questi dati sin dove possibile. Sono convinto che ne uscirebbe un quadro significativo.
Poi, chiunque conosca minimamente la politica sa perfettamente che la carriera e la sua ascesa sono garantite solamente dal seguito personale dell’attivista, dal numero di tessere che riesce a far sottoscrivere e dal suo bacino di consenso.
Se una segreteria di partito dovesse sostituire a questi criteri per formare le candidature quelli del sesso di appartenenza, pregiudicherebbe il rapporto effettivo con l’elettorato perdendo voti e rappresentanza. E’ quello che sta succedendo ai DS che, privilegiando in astratto la componente femminile, ad ogni tornata perdono quote di elettorato.
Secondo: tu dici che un ulteriore impedimento alle donne sarebbe dato dal dover crescere i figli.
Intanto, io non riesco più a capire come si faccia seriamente ad invocare, da un lato, la maternità come valore aggiunto della donna e, dall’altro, ad additarla come fattore di impedimento al suo sviluppo sociale. Da questa contraddizione, secondo me, si stanno producendo quei guasti psicologici individuali, che hanno il loro sintomo più drammatico nelle ormai numerose madri che sopprimono i figli a calci nella schiena o infilandoli nella lavatrice. Neanche questo aspetto viene mai considerato dai media, che preferiscono parlare, invece, di astratte depressioni post-partuum…….
Ma, a parte questo (che meriterebbe un approfondimento a parte), secondo te e molti altri, data questa evidenza biologica bisognerebbe alterare le regole del gioco democratico e della rappresentanza, nonché dei criteri meritocratici di selezione, solo per consentire alle donne una maggiore partecipazione sine titulo alla vita politica. E’ un punto di vista; sicuramente non il mio che lo considero una pericolosa falsificazione della rappresentanza politica.
Ma ci si dimentica di osservare, soprattutto, che questa eventualità poggia, in ultima analisi, sul sacrificio di altrettanti uomini che si guadagnano la carriera sul campo e non sull’appartenenza di genere e che si vedrebbero scavalcati da altrettante donne con la semplice giustificazione che “sono donne”.
Le chiamano esplicitamente “discriminazioni positive”, quindi ben comprendendo l’intimo aspetto discriminatorio che comportano, che sarebbe reso accettabile, chissà perché, dall’aggettivo positive. Naturalmente la positività della cosa non è estesa a tutti i cittadini, unico fattore che la renderebbe tollerabile, ma solo ad una parte di essi: quella femminile.
Io credo che qualunque discriminazione, anche a mente del dettato Costituzionale che tu stesso hai ricordato, non abbia mai alcun aspetto positivo, ma sia solo la legittimazione di un nuovo sistema di privilegi di una parte a danno dell’altra.
Se per te questo è progresso e civiltà siamo ben lontani dal comprenderci.

Offline Sardus_Pater

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #160 il: Dicembre 14, 2018, 19:36:07 pm »
Citazione
"Sono stati i metodi della Rivoluzione di velluto, cioè la de-centralizzazione, l'orizzontalità, che hanno permesso alle donne di partecipare.

A me puzza tanto di simil-rivoluzione arancione come quello dietro cui c'è stata la longa manus di Soros. Guarda caso, il PR armeno aveva il beneplacito di Putin.
Il femminismo è l'oppio delle donne.

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #161 il: Dicembre 14, 2018, 23:47:20 pm »
Il femminismo sembra proprio uno strumento indispensabile alla governabilità globale, nella misura in cui dà al tessuto sociale la consistenza della gelatina.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #162 il: Dicembre 24, 2018, 18:43:33 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Sarajevo-aria-irrespirabile-191807

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Sarajevo, aria irrespirabile
aree   Bosnia Erzegovina ita

Nei giorni tra il 2 e il 4 dicembre, Sarajevo è stata la capitale più inquinata al mondo, almeno secondo i dati forniti dalle ambasciate statunitensi che monitorano abitualmente la situazione ambientale delle città in cui hanno sede

21/12/2018 -  Alfredo Sasso Sarajevo
Era una domenica invernale come tante, quelle in cui i sarajevesi normalmente attendono le ore più calde per fare due passi nella centralissima Ferhadija o nel rilassante Vilsonovo, il viale pedonale che costeggia la Miljacka. Ma nel pomeriggio del 3 dicembre, alcuni numeri iniziavano a rimbalzare sui social di tutta la Bosnia Erzegovina e nelle agenzie di mezza Europa, invitando a rinviare la passeggiata. Numeri sparsi tra il 300 e il 400, fino a raggiungere, in tarda serata, il valore-record di 428  . Si tratta dell’AQI (Air Quality Index), un valore che indica  su una scala da 1 a 500 la quantità di PM 2.5. Queste ultime sono il cosiddetto “particolato fine”, prodotto da ogni tipo di combustione, in grado di penetrare più profondamente nelle vie respiratorie rispetto al PM 10 e dunque più dannoso ancora per la salute, potenziale causa di malattie polmonari, cardiache e del sangue.

Per dare un’idea, un valore AQI è “accettabile” fino a 100, per poi diventare “malsano”, “molto malsano” e, oltre i 300, “allarmante”, un dato che di fatto costringe l’intera popolazione a non uscire di casa e prendere precauzioni.

Sul profilo Twitter “Kvaliteta zraka - Sarajevo  ” (“Qualità dell’Aria”), un bot che segnala ad ogni ora l’AQI della capitale bosniaca attraverso una scala di emoticon, dalle faccine sorridenti a quelle più disperate, in quelle ore compariva stabilmente l’immagine corrispondente al valore più allarmante: un teschio.

È così che, nei giorni tra il 2 e il 4 dicembre, Sarajevo è stata la capitale più inquinata al mondo, almeno secondo i dati  offerti dalle ambasciate statunitensi che monitorano abitualmente la situazione ambientale delle città in cui hanno sede.

È un altro riconoscimento indesiderato per la Bosnia Erzegovina che è tradizionalmente nei primissimi posti per mortalità da inquinamento atmosferico secondo i rapporti dell’Organizzazione Mondiale della Salute. È stata infatti quinta nel 2016  (peggio solo Ucraina, Bulgaria, Bielorussia e Russia) e seconda nel 2017  , dietro la Corea del Nord.

Nel giro di pochi giorni, le mascherine nelle farmacie andavano quasi esaurite, mentre gli ospedali registravano un deciso aumento di pazienti per infezioni respiratorie. Nei giorni immediatamente successivi, il vento e le precipitazioni facevano abbassare i livelli, che tuttavia sono tornati a salire negli ultimi giorni.

Al momento in cui scriviamo questo articolo, il 20 dicembre, l’AQI è tornato sopra i 300, e il teschio fa nuovamente capolino su Kvaliteta Zraka.

Le cause
Negli ultimi anni, il picco d’inquinamento invernale è sempre più ricorrente. In una città come Sarajevo, chiusa in una conca tra colline e montagne con scarsa circolazione d’aria, il fenomeno dell’inversione termica aggrava ulteriormente la situazione. Ma le cause sono naturalmente artificiali e, se si guarda al panorama della Bosnia Erzegovina, molto diversificate. In alcune città bosniache le emissioni industriali rappresentano una parte consistente del problema, come nel caso della centrale termoelettrica a carbone di Tuzla, o dell’acciaieria Arcelor-Mittal di Zenica, con emissioni totalmente fuori scala di diossido di azoto e diossido di solforo.

A Sarajevo, invece, si considerano come fattori principali d’inquinamento il riscaldamento, l’inefficienza energetica delle abitazioni e il traffico automobilistico. Dall’ultimo dopoguerra, a causa delle difficoltà economiche diffuse e delle distorsioni dei prezzi, si è assistito a un rapido ritorno ai combustibili solidi, ovvero legna e carbone. Quest’ultimo è il materiale più conveniente, ma anche di gran lunga il più inquinante. Da anni le associazioni ambientaliste, seguendo le richieste dell’OMS, ne chiedono il divieto. Secondo i dati del censimento 2013, nel cantone di Sarajevo le abitazioni sono suddivise così per fonte di riscaldamento: 146.000 abitazioni a legna, 69.000 a gas, 21.000 a carbone, 16.000 a elettricità e altrettante con oli combustibili. Gli esperti denunciano che non esistono certificazioni energetiche e controlli di emissioni, e che si permette la vendita di materiali di scarsa qualità.

Su questo tema spesso si invocano gli alibi dell’industria pesante e della scarsa cultura ecologica ereditati dal comunismo jugoslavo, ma è un argomento valido solo in parte. Negli anni ’70, dopo un periodo di allarmanti crisi con gravi ripercussioni sulla salute pubblica, l’amministrazione di Sarajevo fornì diversi incentivi per la conversione a gas del riscaldamento domestico. Si ottenne così una drastica riduzione delle emissioni. Oggi la politica non mostra la stessa attenzione, anzitutto per lo spezzatino tra i diversi livelli di governo, fattore notoriamente onnipresente in Bosnia Erzegovina. Non esiste un ministero dell’Ambiente statale, essendo una materia gestita interamente dalle due entità (Federazione di BiH e Republika Srpska) e, nel caso della Federazione, è prevalentemente delegata al livello dei cantoni.

In verità, anche a livello locale, le risorse non mancherebbero. Il cantone di Sarajevo è spesso definito “il più ricco del paese” per l’ampio gettito fiscale di cui dispone. Ma nessuna forza politica ha mai mostrato volontà di operare misure strutturali, che potrebbero essere impopolari e difficili da gestire. Una delle poche proposte in questo senso, arrivata il mese scorso dal ministro dell’Ambiente cantonale Lukić, è quella di un piano per estendere i sistemi centralizzati a gas. Sarebbe la soluzione più efficace per ridurre l’inquinamento atmosferico. Tutto sembra però procedere lentamente, e senza una parallela politica di incentivi sui prezzi è difficile aspettarsi risultati tangibili.

Traffico
L’altro grande problema di Sarajevo è quello delle auto, di norma vecchie e inquinanti. In Bosnia Erzegovina ogni veicolo ha un’età media di 17 anni. Il 69% è diesel, dunque con maggiori emissioni (dati ufficiali dell’Agenzia statistica bosniaca 2016). Solo nel cantone di Sarajevo, il 21% delle auto è euro 0  , risalente a prima del 1991. Peraltro le crescenti limitazioni alle auto diesel in molti paesi europei potrebbero dare un’ulteriore spinta alla già florida importazione in Bosnia Erzegovina di auto usate, aumentando ancora di più l’impatto dei veicoli inquinanti se non si prenderanno misure di restrizione.

Anche in questo ambito si agisce molto lentamente. Il test sui gas di scarico (eko-test) diventerà vincolante per la revisione solo dal 2020. Ma sarà valido solo in Federazione BiH, non in Republika Srpska. Le targhe alterne, nonostante a Sarajevo fossero sul tavolo da sempre, sono state applicate per la prima e ultima volta il giorno di Natale del 2016, causando un mare di polemiche. D’altra parte, l’attuale condizione del trasporto pubblico nella capitale sarebbe inadeguata e insufficiente ad assorbire la riduzione del traffico privato.

App e ćevapi
Secondo i soggetti che maggiormente seguono i problemi ambientali, ciò che manca in Bosnia Erzegovina non è solo la volontà politica, ma il suo presupposto precedente: risorse per l’analisi, monitoraggio dei dati e degli effetti sulla salute, cifre più attendibili che stimolerebbero una vera presa di coscienza della popolazione e una più forte pressione verso le istituzioni. “Ci manca una diagnosi precisa della situazione”, dice a OBCT Anes Podić, il coordinatore di “Eko Akcija”, una delle organizzazioni ambientaliste più attive, la prima a creare una pagina web e una app per smartphone che fornisce informazioni sulla qualità dell’aria nelle principali città bosniache. Sono stati attivisti e cittadini comuni a lanciare questi strumenti, di fronte all’inazione, e talvolta alla deliberata indifferenza, delle istituzioni. “Ma il governo cantonale a chi ha dato la colpa dei problemi? A noi che abbiamo creato l'app, diffondendo panico e notizie false”, ricorda sarcasticamente Podić.

La pagina twitter Kvaliteta zraka Sarajevo, quella che traduce in faccine, teschi e grafici l’indice di qualità dell’aria misurato dall’ambasciata statunitense, è stata creata spontaneamente da Imer Muhović, un sarajevese ricercatore in ingegneria che lavora all’estero, a Barcellona. Muhović non è nuovo a iniziative di questo tipo. È diventato noto nell’ambiente mediatico bosniaco all’indomani delle elezioni di ottobre, quando aveva creato di propria iniziativa proiezioni e mappe dei risultati, sostituendosi di fatto alla Commissione Elettorale Statale. Mentre questa si era distinta per una serie impressionante di ritardi e inettitudine nel fare circolare le informazioni, Muhović incarnava uno spirito di riscossa civica, lo stesso che si può intravedere in questa nuova iniziativa.

Contattato da OBCT, Muhović spiega: “La gente comune usava poco il sito dell’ambasciata americana. Le emoticon e la traduzione in bosniaco sono più efficaci per la comunicazione, e il grafico dà una visione completa del ciclo di 24 ore”. Ma quale è stata la reazione della gente, soprattutto dopo il 3 dicembre? “Inizialmente c’è stata molta preoccupazione, è stata fatta una petizione online [su change.org, ndA] con grande diffusione per chiedere provvedimenti al governo, ma poi nei giorni successivi quando l’AQI è sceso è calata anche la reazione. E il governo cantonale ha dimostrato di non sapersi confrontare con quanto accaduto”.

La reazione del potere locale è stata infatti, ancora una volta, quella di minimizzare, di auspicare il bel tempo nei giorni successivi che risolverà tutto, di trovare spiegazioni poco plausibili. All’indomani del primato mondiale, un consulente scientifico del parlamento cantonale aveva affermato che il misuratore della qualità dell’aria non sarebbe stato attendibile, perché sarebbe stato alterato dal camino di una vicina ćevabdžinica (un ristorante dove si vendono i ćevapi, le tipiche salsicce di carne macinata). L’affermazione fuori luogo ha immancabilmente scatenato l’ironia di molti sarajevesi e l’irritazione dell’ambasciata statunitense, presa in causa perché il sensore si trova sul suo edificio. Soprattutto, ha nutrito l’ennesimo pregiudizio e acceso l’ennesima indignazione verso un ceto di politici e tecnici pronto a scaricare le responsabilità su qualunque cosa, anche sul camino di una ćevabdžinica, pur di non affrontare i problemi reali. Viene proprio da dire: tutto fumo.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #163 il: Dicembre 24, 2018, 18:47:44 pm »
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UNGHERIA: La protesta è un complotto della sinistra
Gian Marco Moisé  3 giorni fa

L’Ungheria protesta, oggi, ieri, da giorni. L’Ungheria è in piazza, vandalizza le sedi del partito di maggioranza, occupa le sedi della TV nazionale, che da giorni ignora le richieste dei rappresentanti dell’opposizione.

L’ignoranza è forza

Ieri, giovedì 20 dicembre, la sera della firma del presidente della repubblica sulla legge che è stata soprannominata dai sindacati e dalle opposizioni “legge schiavitù”, la folla è scesa ancora una volta in piazza. Le manifestazioni si tengono da mercoledì 12 dicembre, giorno dell’approvazione della legge, e cercano di scuotere l’anima profonda di un paese che si sta abituando alla fine delle sue libertà.

D’altra parte, non nutrivano per gli eventi pubblici neanche quell’interesse minimo per capire che cosa stava succedendo. L’incapacità di comprendere salvaguardava la loro integrità mentale. Ingoiavano tutto, senza batter ciglio, e ciò che ingoiavano non le faceva soffrire perché non lasciava traccia alcuna, allo stesso modo in cui un chicco di grano passa indigerito attraverso il corpo di un uccello.

1984, Geoge Orwell

“È tutto un complotto. Tutto queste proteste di cui parla distrattamente la televisione, non sono l’Ungheria. La vera Ungheria, quella che conta, si è espressa democraticamente ad aprile, ha dato al Capitano il mandato per fare ciò che tutti noi volevamo facesse, mettere alla porta i migranti, gli sfruttatori, i criminali. Quelle persone che marciano sono marce, pagate dalle élite mondialiste, da una sinistra allo sbando, da quell’ebreo traditore che specula sulla pelle degli ungheresi, quelli veri. Vero come il Capitano. Noi ce lo ricordiamo il Capitano. Abbiamo sconfitto i comunisti insieme. Eravamo giovani allora, Capitano, ma adesso che siamo più vecchi, abbiamo capito che avevano ragione loro. Questi giovani non hanno vissuto quello che abbiamo vissuto noi. Questi giovani che parlano di libertà, non hanno capito che la libertà è schiavitù. Eppure, il ministero della verità lo ripete su tutti i canali: la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza.” È questa la coscienza ungherese? O l’Ungheria è composta anche dalle migliaia di persone che protestano da giorni?

La libertà è schiavitù

Il presidente della repubblica, János Áder, ha firmato con un giorno d’anticipo la legge che è stata soprannominata dai sindacati e dalle opposizioni “legge schiavitù”. Dopo aver constatato che l’ammontare delle ore di lavoro straordinario istituite dall’emendamento al codice del lavoro è previsto anche dalle legislazioni di Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca e Repubblica Ceca, e che tali ore di lavoro non potranno essere imposte dal datore di lavoro, ma solo concordate col lavoratore, il presidente ha ritenuto la normativa non lesiva dei diritti del lavoratore. Nel concludere il suo intervento, Áder ha aggiunto che questa modifica non deve turbare le celebrazioni del Santo Natale, augurando buone vacanze ai suoi concittadini.

Eppure, il diavolo sta nel dettaglio. La normativa crea problematiche perché depotenzia l’efficacia contrattuale dei sindacati con le imprese, mettendo i lavoratori in una situazione potenzialmente ricattatoria. Infatti, i datori di lavoro potranno proporre individualmente un aumento delle ore di straordinario, e qualora i lavoratori rifiutassero, cosa impedirebbe a un datore di lavoro di poter scegliere tra un lavoratore più, e uno meno disposto a lavorare più ore, in presenza di questa legge? Forse lo sciopero di una sola persona? Infine, la possibilità concessa al datore di lavoro di pagare le ore di straordinario fino a 36 mesi di distanza, non sembra una delega allo sfruttamento dei lavoratori? Il primo ministro Viktor Orbán in persona ha detto che la normativa è nell’interesse dei lavoratori e lui rispetta i sindacati, ma hanno torto a protestare.

Ma il governo Orbán non era un esecutivo sovranista disposto a difendere la nazione dalle forze mondialiste? Non era Capitan Ungheria in persona, l’eroe che avrebbe dovuto salvare gli ungheresi dal nemico esterno? Il governo ha ammesso che questa norma è necessaria agli stabilimenti automobilistici tedeschi che da anni sono in carenza di personale. Con l’aumento dei giovani che lasciano il paese in cerca di opportunità lavorative all’estero, e il blocco di qualsiasi migrante economico ai confini, come si possono convincere le imprese tedesche a non delocalizzare gli stabilimenti? Qual è la nazione difesa da Capitan Ungheria? Di certo non i lavoratori, non i sindacati, e dopo la stretta sulle università dei mesi scorsi, neanche i giovani. D’altronde in questo consiste il bipensiero, nel dire tutto e il suo contrario, senza vederci contraddizione.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #164 il: Gennaio 02, 2019, 20:25:18 pm »
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BOSNIA: Arresti e divieti, la repressione contro i manifestanti per la giustizia
Giorgio Fruscione  6 giorni fa

Sono state due giornate di alta tensione a Banja Luka, capoluogo della Republika Srpska – una delle due entità autonome che compongono la Bosnia Erzegovina. I genitori di David Dragicevic, ventiduenne ammazzato a marzo e per il quale da allora ogni giorno ininterrottamente chiedono giustizia, sono stati arrestati il giorno di Natale. Durante il loro fermo, molti cittadini si sono recati in piazza per esprimere solidarietà, scatenando la repressione della polizia. Il movimento “Giustizia per David” ha quindi ricevuto il divieto di radunarsi, ma ha affermato che le proteste continueranno.

I fatti

Davor Dragicevic è stato arrestato la mattina di martedì 25 dicembre poco dopo esser uscito di casa. Ufficialmente, l’arresto è dovuto al rifiuto di Davor di recarsi alla polizia per rispondere della protesta – considerata illegale – condotta lo scorso 17 dicembre davanti al parlamento della Republika Srpska. Quel giorno si nominava il governo dell’entità e veniva confermato al ministero degli Interni Dragan Lukac, che Davor continua a ritenere responsabile politico dell’uccisione del figlio. Poco dopo, nella centralissima piazza Krajina, punto di ritrovo delle proteste del movimento “Giustizia per David”, veniva fermata anche Suzana Radanovic, madre del giovane, nonché diversi attivisti. Mentre la madre di David è stata rilasciata poche ore dopo, Davor Dragicevic – che in occasione dell’arresto ha riportato una frattura alla mano – è stato trattenuto fino al giorno dopo.

La polizia ha arrestato anche alcuni esponenti dell’opposizione, tra cui Branislav Borenovic e Drasko Stanivukovic del Partito del Progresso Democratico, Vojin Mijatovic dei socialdemocratici, così come l’ex deputato del parlamento regionale Adam Sukalo.

Gli arresti e le cariche – le cui immagini testimoniano la prova di forza messa in atto dalla polizia – sono stati effettuati da reparti speciali  ben equipaggiati e hanno scatenato l’indignazione di molti cittadini contro le autorità, accusate di arrestare i genitori del giovane ammazzato invece che i suoi assassini. Nella serata del 25 dicembre, la folla di cittadini si era radunata davanti alla chiesa del Cristo Salvatore per poi essere dispersa da un fitto cordone di polizia in tenuta antisommossa. Nel corso della giornata, inoltre, la polizia ha fatto rimuovere tutti i ricordi, le fotografie e gli oggetti che da quasi 300 giorni caratterizzavano il sit-in permanente in piazza Krajina (rinominata “piazza David”) – un’azione dall’alto valore simbolico con cui le autorità della Republika Srpska e il suo ex presidente Milorad Dodik (oggi alla presidenza collegiale bosniaca) hanno “ripulito” Banja Luka da qualunque dissenso, nonostante questo sia sempre stato pacifico.

Protesta a oltranza

Come c’era da immaginarsi, appena rilasciato Davor Dragicevic ha espresso la sua intenzione di protestare ad oltranza. Tuttavia, nelle stesse ore il ministro Lukac ha vietato al movimento “Giustizia per David” di radunarsi in piazza, affermando come per nove mesi la protesta sia stata “tollerata” nonostante il suo carattere illegale. Davor Dragicevic non si è fatto intimorire e ha quindi organizzato un corteo: la “marcia di David”, ripercorrendo la strada compiuta dal giovane poco prima di scomparire lo scorso 18 marzo. Alla fine, in modo altamente simbolico, Davor si è sdraiato sul punto esatto in cui una settimana dopo venne rinvenuto il corpo del figlio, completamente ricoperto di ematomi, abbandonato sulle rive del torrente Crkvena.

Non ci sono dubbi sul fatto che Davor, Suzana e tutti i cittadini che chiedono giustizia per David continueranno la loro protesta. All’indomani dell’arresto, la solidarietà è arrivata da tutta la Bosnia, a partire da Sarajevo, dove la causa di David Dragicevic è sostenuta da Muriz Memic, padre di Dzenan, giovane ammazzato nel 2016 in circostanze oscure. Muriz e Davor, che l’appartenenza etnica vorrebbe divisi, sono uniti dalla  tragica sorte toccata ai loro giovani figli e da marzo rappresentano la lotta trasversale contro l’ingiustizia e l’impunità in Bosnia-Erzegovina. Anche a Belgrado, all’indomani degli arresti, è stata organizzata davanti all’università la manifestazione “un cuore per David”, e una manifestazione simile si terrà  oggi anche a Zagabria.

Davor Dragicevic – che per tutti questi mesi ha sostenuto di conoscere i mandanti dell’omicidio – aveva anche precedentemente dichiarato che ad aprile, qualora non si arrivasse alla verità, andrà personalmente a dissotterrare il corpo del figlio.

Il vero volto di Dodik

La repressione poliziesca nel giorno del Natale cattolico sembra aver mostrato il vero volto autocratico dell’entità autonoma amministrata per anni da Milorad Dodik, che lo scorso ottobre è stato eletto a membro della presidenza tripartita della Bosnia. Pochi giorni prima del voto Dodik aveva profeticamente annunciato che dopo le elezioni Davor Dragicevic – “che si crede un figo” – non sarebbe più stato in piazza.

“La gente porterà in piazza nuovi cimeli, i lividi dei manganelli passeranno. Quello che invece non passerà e non verrà ignorato così facilmente è l’immagine vergognosa che le istituzioni [di Banja Luka, ndr] hanno mandato al mondo intero, che ha visto come la polizia picchi vecchi e bambini. Grazie a queste immagini terribili il caso Dragicevic è tornato sui media internazionali”, ha dichiarato per East Journal Vanja Stokic, direttrice del portale eTrafika.net, che aggiunge: “Le istituzioni hanno lanciato un boomerang che gli è subito ritornato indietro”.

La protesta per chiedere verità e giustizia per David continuerà, come sempre, ogni giorno alle 18, sfidando il divieto delle autorità. Quello che non è dato sapere, invece, è fino a che livello si spingerà la repressione.