Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 76212 volte)

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #210 il: Marzo 05, 2019, 19:28:17 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Balcani-inverni-in-abitazioni-fredde-e-citta-inquinate-Qualcosa-sta-cambiando-193177

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Balcani: inverni in abitazioni fredde e città inquinate? Qualcosa sta cambiando

Il fotografo Ivo Danchev ha dedicato gran parte del suo lavoro alle campagne dei Balcani. Ed alle loro genti. Una foto scattata nella Bulgaria nord-occidentale

Molti cittadini dell'Europa sud-orientale non possono permettersi di scaldare adeguatamente la propria casa. L'impatto sulla loro salute e sull'inquinamento atmosferico è grave, ma la povertà energetica ha iniziato a diminuire

05/03/2019 -  Lorenzo Ferrari
Il 37%  della popolazione bulgara non riesce a riscaldare adeguatamente la propria abitazione in inverno. Un problema che tocca in modo consistente anche i paesi confinanti, come la Grecia, la Macedonia del Nord e la Turchia, e in misura minore la Romania. Le difficoltà di riscaldamento toccano l’8% degli abitanti dell’Unione europea nel suo complesso: una percentuale nettamente inferiore, ma che comunque indica che più di 40 milioni di cittadini dell’Ue hanno vissuto il freddo quest’inverno.

La difficoltà a scaldarsi è una delle manifestazioni più immediate e tangibili della povertà: sono poche le altre esigenze umane più basilari. In effetti, il problema è innanzitutto economico. In paesi come la Macedonia del Nord, la Bulgaria e la Romania le famiglie arrivano a spendere in media il 10-12%  del loro reddito per il riscaldamento, a fronte di una media del 7% per i paesi dell’Europa meridionale – ma nonostante questo sforzo molti cittadini rimangono comunque al freddo.

Il problema della legna e del carbone
L’approvvigionamento energetico rappresenterebbe una voce ancora più grande dei bilanci familiari se le persone in difficoltà non ricorressero a combustibili solidi per riscaldarsi, come la legna o il carbone. Questa forma di consumo non è limitata alle zone rurali, dove gli allacciamenti possono essere più difficili e costosi: ad esempio, in una grande città della regione, Sarajevo, i due terzi delle abitazioni continuano a essere riscaldate con la legna e il carbone.

Pur essendo più accessibili rispetto al gas o all’elettricità, i combustibili solidi provocano però problemi ambientali molto seri: non è un caso se le città dell’Europa sud-orientale in inverno raggiungono picchi allarmanti di inquinamento da PM2.5, le polveri sottili più pericolose per la salute. La ricaduta dell'inquinamento atmosferico è estremamente pesante, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima  che il ricorso al legno e al carbone per il riscaldamento domestico sia responsabile ogni anno di circa 61.000 morti premature in Europa.

Abitazioni più calde e più salubri
Benché una porzione ancora troppo alta dei cittadini dell’Europa sud-orientale continui a soffrire l’inquinamento atmosferico e il freddo, almeno per quanto riguarda questo secondo aspetto la situazione è migliorata sensibilmente nel corso dell’ultimo decennio. In Romania la quota di popolazione in difficoltà dal punto di vista energetico si è ridotta di due terzi  tra il 2007 e il 2017, mentre nello stesso periodo in Bulgaria è passata dal 67 al 37%.

Questa evoluzione non è solo un indice del graduale aumento del reddito pro capite, che anno dopo anno permette alle famiglie di acquistare più combustibili. È in corso un rinnovamento del patrimonio edilizio, segnalato da molti indicatori: le case sono meno soggette  alle infiltrazioni e all’umidità, dispongono sempre più spesso  di servizi igienici – e sono meglio isolate, dunque costa meno tenerle calde d’inverno.

Le ristrutturazioni e la sostituzione delle stufe con impianti elettrici e a gas non ricadono solo sui privati: le autorità pubbliche intervengono a diversi livelli con incentivi e finanziamenti, che però non sono sufficienti. Per quanto riguarda l’Unione europea, questi sforzi ricadono nel pacchetto di iniziative “Energia pulita per tutti gli europei”  , che da un lato cerca di ridurre il ricorso a fonti inquinanti e dall’altro punta ad affrontare per la prima volta in modo diretto il problema della povertà energetica in Europa. D’altra parte la possibilità di accedere ai servizi energetici è stata riconosciuta come uno dei diritti sociali  di cui tutti i cittadini europei devono godere.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network   ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #211 il: Marzo 05, 2019, 19:31:19 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Kosovo-scioperi-e-rivendicazioni-salariali-193204

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Kosovo, scioperi e rivendicazioni salariali

Il Kosovo è scosso da scioperi a catena per rivendicare migliori condizioni salariali, dopo che il premier Haradinaj si è raddoppiato lo stipendio a fine 2017. La recente approvazione di una nuova legge sui salari non sembra aver riportato la calma

05/03/2019 -  Majlinda Aliu   Pristina
Alla fine del 2017, il governo del Kosovo ha preso la decisione di raddoppiare gli stipendi dei propri membri. Il notevole aumento di stipendio di Haradinaj, da 1.443 a 2.950 Euro, ha segnalato agli altri dipendenti del settore pubblico che costringere il governo ad aumentare i loro stipendi era possibile. Per placare la pressione dell'opinione pubblica, il primo ministro ha deciso di emanare una nuova legge sulle retribuzioni, poi approvata dal parlamento il 2 febbraio 2019, mirante a mettere una soglia ai salari classificando le posizioni nella pubblica amministrazione e assegnando a ciascuna un "coefficiente salariale". Tuttavia, questo non ha fatto altro che buttare benzina sul fuoco.

Scioperi a catena
Le prime critiche sono arrivate dal sindacato dell'istruzione SBASHK (Sindacato educazione, scienza e cultura). A gennaio 2019, SBASHK ha chiamato i suoi membri a scioperare: la protesta è durata tre settimane, tenendo a casa oltre 500mila alunni e studenti esattamente all'inizio del nuovo quadrimestre. Gli insegnanti chiedevano un aumento del 30%: alla fine, il governo ha offerto loro un aumento più limitato. Lo stipendio degli insegnanti delle scuole superiori aumenterà di 74,5 euro per raggiungere i 515 euro, mentre gli insegnanti della scuola primaria otterranno un aumento di 49,5 euro e il loro nuovo stipendio sarà di 466 euro.

La categoria più agguerrita è quella dei chirurghi, che si sono sentiti offesi e sottovalutati dalla posizione salariale loro assegnata e hanno iniziato a scioperare a fine dicembre 2018, tenendo i pazienti in lista d'attesa per gli interventi. Dopo tre mesi di sciopero sono tornati al lavoro, a condizione di emendare la legge e aumentare il loro coefficiente a 8, pari a quello di giudici e pubblici ministeri. La legge approvata raddoppia il loro stipendio da 600 a 1.200 euro.

All'inizio di febbraio hanno iniziato a scioperare anche i controllori del traffico aereo. Il capo del sindacato di categoria, Artan Hasani afferma che, se lo status loro assegnato dalla legge non cambierà entro ottobre, per il governo ci saranno nuovi problemi. Secondo Hasani, la legge attuale non è in linea con i regolamenti dell'Unione Europea. "Le regole Ue non consentono ai governi di interferire con il bilancio di organismi indipendenti, come il controllo del traffico aereo. Riteniamo che la legge sui salari collochi tutte le categorie in un unico calderone, ostacolando la possibilità di promuovere le capacità professionali", ha detto a OBCT.

La legge non è uguale per tutti
Secondo il governo, la legge sulle retribuzioni metterebbe ordine nei salari del settore pubblico, dal momento che finora ci sono stati diversi stipendi per posizioni identiche in diverse istituzioni. Tuttavia, secondo Agron Demi, policy analist presso l'istituto GAP di Pristina, la legge non ha incluso tutti i settori. "Ad esempio, i dipendenti dell'Agenzia per le privatizzazioni, Post Telecom ecc. non sono stati inclusi. Un custode dell'Agenzia per le privatizzazioni guadagna 400 euro, un impiegato in teatro 337 euro. Invece di mettere ordine, la legge sui salari è stata utilizzata come strumento per aumentare i salari quasi del 100% in alcuni settori", afferma Demi.

La legge sulle retribuzioni, che aumenta i salari in molti settori pubblici nel 2019, costerà al bilancio del Kosovo 730,7 milioni di euro: un aumento di 140,7 milioni di euro rispetto all'anno precedente. Ruud Vermeulen, rappresentante residente del Fondo monetario internazionale in Kosovo, ha affermato che un aumento del 30% dei salari sarebbe troppo oneroso per l'economia, che l'FMI prevede cresca quest'anno del 4,2%, rispetto al 4% del 2018 secondo un rapporto Reuters.

Demi ritiene che il governo abbia violato la legge sulle finanze pubbliche, approvata tre anni fa, secondo cui gli aumenti salariali devono essere in linea con la crescita del PIL. Secondo l'analista, mentre la crescita del PIL nel 2017 è stata del 4% circa, il capitolo di bilancio per i salari nel 2019 è aumentato del 23%.

La tensione è destinata a rimanere alta
La legge sulle retribuzioni, approvata dal parlamento a gennaio, sarà attuata fra dieci mesi (ottobre 2019). Nel frattempo, i sindacati scontenti continueranno a chiedere aumenti salariali in quasi tutti i settori pubblici. Controllori del traffico aereo, infermieri e altri operatori del settore pubblico hanno avvertito che torneranno a scioperare se il governo non li ascolterà. Alcuni si aspettavano che il presidente ponesse il veto alla legge e la rimandasse in parlamento, ma Hashim Thaçi non ha firmato né intrapreso altri passi legali, quindi la misura è entrata in vigore in modo automatico.

Con la nuova legge, il salario medio nel settore pubblico sale a circa 761 euro, mentre nel settore privato rimane molto più basso, intorno ai 416 euro. Tale discrepanza rende il settore privato meno attraente per i lavoratori, afferma Agron Demi, sottolineando che l'aumento delle retribuzioni nel settore privato negli ultimi sette anni è stato solo del 4,6% contro il 6% dell'inflazione cumulativa nello stesso periodo.

Quel che è peggio, nepotismo, clientelismo e assunzioni pilotate sono un "segreto pubblico" in Kosovo e, come dice Demi, molte persone sono costrette a diventare membri di un partito per trovare lavoro. Ciò ha vaste implicazioni nel mercato del lavoro, nell'istruzione, nei servizi pubblici, nella responsabilità e nella corruzione.

"Nella letteratura politica, paesi come il Kosovo sono considerati stati 'neo-patrimoniali': dall'esterno sembrano paesi moderni, con una costituzione, un sistema legale funzionante, ecc., ma le effettive operazioni del governo e la gestione delle risorse statali sono spartite tra amici e familiari", conclude Agron Demi.

Nonostante le richieste di OBCT, i funzionari governativi hanno rifiutato di rispondere a domande relative alla legge sui salari.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #212 il: Marzo 13, 2019, 20:21:02 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-Erzegovina-l-Europa-resta-lontana-193340

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Bosnia Erzegovina: l’Europa resta lontana

Il recente annuncio che fra tre anni i cittadini della Bosnia Erzegovina potranno effettuare chiamate verso altri paesi della regione senza costi di roaming fa ben sperare nel progressivo avvicinamento agli standard UE. Ma è un percorso da non dare assolutamente per scontato

12/03/2019 -  Ahmed Burić   Sarajevo
L’annuncio che a partire dal 2021 i cittadini della Bosnia Erzegovina potranno effettuare chiamate verso altri paesi dei Balcani senza alcun costo aggiuntivo è una di quelle notizie che non si sa mai come prendere: con una certa dose di ottimismo oppure rassegnandosi al fatto che i cittadini bosniaco-erzegovesi vengono irrimediabilmente ingannati.

Qualche giorno fa il presidente della Presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina Milorad Dodik, che ultimamente sembra sempre più “collaborativo”, ha dichiarato che “per volere della Presidenza, la Bosnia Erzegovina firmerà un accordo regionale sul roaming, che ci permetterà di ridurre dell’80% i costi del roaming verso tutti i paesi della regione e che prevede che entro il 1 gennaio del 2021 anche i costi delle chiamate verso i paesi membri dell’Unione europea vengano ridotti dell’80%. Ciò significa che tra due anni in Bosnia Erzegovina e in altri paesi della regione il roaming verrà probabilmente abolito, come già avvenuto nei paesi membri dell’UE”.

In un’altra occasione, sempre nei giorni scorsi, Dodik ha dichiarato: “Non ho tempo da perdere. Se entro un anno al massimo non dovessi riuscire, insieme ad altri colleghi della Presidenza, a riportare la Bosnia Erzegovina, ormai diretta verso l’autodistruzione, sulla strada giusta, lascerò la Presidenza e tornerò a Banja Luka, anche se tutto dovesse crollare”.

La Bosnia Erzegovina è un paese strano, probabilmente il paese più strano d’Europa. Un paese dove, stando alle statistiche, la spesa media mensile delle famiglie ammonta a circa 1000 euro, mentre lo stipendio medio mensile è inferiore ai 500 euro.

Un paese che non smette mai di stupire: il prezzo del gas è superiore addirittura del 30% rispetto alla media europea, e fare la spesa a Sarajevo costa quanto, ad esempio, a Trieste o a Berlino. Anche le bollette telefoniche superano la media europea, ma non sono le autorità competenti né tanto meno gli operatori telefonici a decidere le tariffe bensì, a quanto pare, la Presidenza del paese.

Se a tutto questo aggiungiamo il fatto che alcuni operatori via cavo e provider internet accettano esclusivamente pagamenti in contanti, e che queste somme di solito non vengono dichiarate al fisco, possiamo immaginare attraverso quali canali passa e dove finisce questo denaro: nelle tasche di chi tollera l’evasione fiscale o da qualche parte all’estero.


Ma finalmente le maschere sono cadute. Gli operatori telefonici sono una delle armi più potenti nelle mani dei partiti di governo. La scelta delle persone a cui affidare le posizioni chiave nel settore delle telecomunicazioni non viene effettuata secondo i criteri di competenza e professionalità, bensì secondo dettami prettamente politici, e non sembrano esistere strumenti in grado di proteggere i cittadini dai furti delle compagnie telefoniche.

Resta da vedere se l’accordo regionale sul roaming sarà effettivamente firmato, come annunciato, al secondo Summit digitale dei Balcani occidentali che si terrà a Belgrado il 4 e 5 aprile prossimi, ma ci si augura che ciò accada.

Perché la firma di questo accordo dimostrerebbe in modo inequivocabile la volontà di implementare l’agenda digitale europea e aprirebbe la strada ai negoziati sulla riduzione dei costi del roaming tra l’UE e i Balcani occidentali. E i cittadini “percepiranno molto presto i benefici derivanti dall’accordo”, almeno stando alle parole di Pranvera Kastrati, esperta del Consiglio regionale di cooperazione  . “In parole povere, i cittadini dei Balcani occidentali telefoneranno di più, navigheranno su Internet di più, invieranno più messaggi, e pagheranno di meno”, ha dichiarato la Kastrati.

Proprio quando è sembrato che fossero state raggiunte le condizioni per la firma dell’accordo, è stato reso noto che l’accordo sarà firmato con riserva, senza però precisare che cosa questo potrebbe effettivamente implicare. Tuttavia, sapendo come funzionano le cose in Bosnia Erzegovina, non vi è dubbio che la riduzione dei costi del roaming sarà un processo lento. Perché i cittadini bosniaco-erzegovesi si sono ormai abituati al fatto che lo stato faccia pagare loro tutte quelle cose che nell’Unione europea sono gratuite o quasi.

La leadership al potere in Bosnia Erzegovina non deve preoccuparsi della possibilità che nel paese si verifichino disordini sociali o una rivolta organizzata, perché i cittadini continueranno a interpretare le vicende politiche in chiave identitaria, prestando più attenzione all’appartenenza etno-nazionale dei leader politici che alle loro azioni.

Per molti cittadini bosniaco-erzegovesi l’Europa resterà ancora per molto tempo una destinazione lontana. Della quale continueranno a parlare, a prescindere dal costo delle telefonate, con i loro amici e cugini che negli ultimi anni se ne sono andati in centinaia di migliaia dalla Bosnia Erzegovina, e che continuano ad andarsene.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #213 il: Marzo 13, 2019, 20:24:37 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Cecenia/Cecenia-i-taxi-l-Islam-e-l-indipendenza-193308

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Cecenia: i taxi, l'Islam e l'indipendenza

Presto le donne cecene potranno usufruire di taxi guidati da donne e per sole donne. Un'iniziativa sponsorizzata da un fondo d'investimento arabo che ha provocato reazioni molto diverse tra loro

13/03/2019 -  Marat Iliyasov
L'iniziativa di avviare in Cecenia un nuovo servizio di taxi esclusivamente per donne, annunciata pochi giorni prima dell'8 marzo, la festa delle donne, ha suscitato più attenzione all'estero che nella Cecenia stessa. La reazione più diffusa tra i cittadini ceceni è stata quella del ritenerla una notizia insignificante. Il dibattito sui social network è morto sul nascere.

“Sì, ne ho sentito parlare. Un'iniziativa positiva, siamo sulla strada giusta”, ha dichiarato un quarantenne della capitale, per poi cambiare rapidamente discorso. Né per lui né per altri è certamente una breaking news. L'iniziativa sembra normale e tempestiva: in Cecenia molti ritengono infatti che dovrebbe esistere un servizio di trasporto per sole donne.

Anche tra le donne l'iniziativa è vista in modo positivo. “È tutto estremamente logico. È un passo a favore delle donne, per la loro comodità e sicurezza...”, afferma un'utente di Instagram commentando la notizia  . Anche una studentessa di una scuola religiosa a Grozny, intervistata da Caucasian Knot  , sostiene questa nuova iniziativa imprenditoriale. “Al giorno d'oggi molte donne studiano l'Islam nelle scuole religiose e, secondo quanto prescrive la nostra religione, una donna non può stare da sola con un uomo sconosciuto. Ritengo che saranno in molte ad usufruire di questo servizio tra le studentesse delle scuole religiose”.

“Più concorrenza - è il commento di un tassista della capitale Grozny – come se ce ne fosse stato bisogno. Le donne se ne stanno già separate dagli uomini. Se una donna prende un taxi, ed è un taxi condiviso, nessuno siede al suo fianco o in ogni caso sul sedile posteriore o – a seconda dei casi – anteriore. Insomma, se ne stanno separati”.

Solo lo status quo
L'avvio di un nuovo servizio destinato esclusivamente a donne è sembrato ad alcuni avesse implicazioni politiche. Fin dall'ascesa al potere di Ramzan Kadyrov la Cecenia è stata etichettata come una zona del tutto particolare della Federazione Russa. Giornalisti ed analisti ripetono spesso che la repubblica sia diventata più indipendente di quanto Dzhokhar Dudayev (leader della Cecenia indipendente tra il 1991 e il 1994) abbia mai sognato  . Esperti internazionali arrivano ad affermare che la Cecenia è un vero e proprio stato  (o stato islamico) all'interno della Federazione russa e sottolineano che le leggi russe non vengono rispettate sul suo territorio  . È in ogni caso una situazione molto tesa dal punto di vista politico dove anche un'iniziativa come quella dei taxi per sole donne può contribuire all'immagine di una repubblica che non agisce all'interno della cornice legale della Russia.

Ma la realtà delle cose potrebbe essere politicamente più neutra. È cosa nota che l'identità religiosa è particolarmente forte nel Caucaso del nord e che in molti prediligono le norme dell'Islam a quelle secolari. Qualcuno ricorderà che nei primi anni '90 l'allora presidente dell'Inguscezia Ruslan Aushev propose di legalizzare la poligamia. In analogia con la recente iniziativa dei taxi al femminile la notizia fece da innesco ad una discussione se la proposta fosse connotata politicamente o meno e quanto andasse a sottolineare la differenza in termini di normativa tra il territorio dell'Inguscezia e quello della Federazione russa. Ai tempi, del resto, l'élite politica russa era preoccupata che l'Inguscezia potesse seguire la Cecenia nella richiesta di piena indipendenza politica.

Ma oggi come allora queste due notizie non erano connotate da questa chiave politica. L'iniziativa del leader inguscio intendeva solo legalizzare ciò che era di fatto lo status quo. Infatti, come in altre repubbliche popolate da musulmani nell'ex-Unione sovietica, in Inguscezia vi erano casi di poligamia, nonostante fosse proibita dalla legislazione sovietica.

Logica conseguenza
Allo stesso modo è probabile che anche l'iniziativa dei taxi al femminile non sia connotata di un gran significato politico. Verrebbe da dire che non è necessario. La Cecenia di oggi infatti non si batte più per ottenere un'indipendenza politica formale. Questa repubblica sta seguendo un cammino tutto suo fatto di un mix di tradizioni locali, tradizioni islamiche e leggi russe. E pare che a Mosca tutto questo vada bene.

Per questo l'iniziativa non è altro che un ulteriore passo della progressiva islamizzazione della Cecenia, che sempre vede come primo obbiettivo le donne. Alla fine degli anni '90 in Cecenia correnti wahabite iniziarono a spingere per imporre nuove regole volte ad impedire l'apparizione in pubblico di donne senza velo. Kadyrov-junior ai tempi concordava sul fatto che nuove norme sulle regole di abbigliamento dovessero essere introdotte ed iniziò a mettere in pratica attivamente la cosa un decennio dopo, tra il 2010 e il 2011. Come? Invece di applicare controlli sui trasporti pubblici e multare le donne che non portavano il velo nella Cecenia di Kadyrov le donne senza velo venivano “cacciate” sparando loro, da parte delle forze di sicurezza associate al leader del paese, pallini di paintball  .

Nei fatti l'islamizzazione della Cecenia è proceduta rapidamente. Oggi le donne cecene sono private di gran parte dei loro diritti. Basti pensare alla ancor ampia diffusione del delitto d'onore e le moltissime vittime di violenze domestiche.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #214 il: Marzo 13, 2019, 20:26:14 pm »
http://www.eastjournal.net/archives/96566

Citazione
RUSSIA: Manifestazione a Mosca per la libertà di internet
David Finotti  1 giorno fa

Lo scorso 10 marzo circa 15 mila persone si sono radunate in piazza a Mosca per protestare contro un disegno legge volto a riformare il modo in cui internet viene erogato in Russia. Sono stati arrestati quindici manifestanti nella capitale, mentre si sono svolte delle proteste di minore entità a Voronezh, Khabarovsk e San Pietroburgo.

La “Cortina di ferro” di internet

La cosiddetta “legge di sovranità digitale”, approvata in prima lettura a febbraio nella Duma, prevede l’obbligo per le compagnie di telecomunicazione russe di far passare il traffico internet esclusivamente attraverso router approvati dal ministero per le telecomunicazioni. Lo scopo dichiarato della legge sarebbe quello di ridurre la dipendenza informatica dagli Stati Uniti e rafforzare la sicurezza digitale della Russia. La seconda lettura è prevista per marzo, dopodiché passerà al vaglio della Camera alta del parlamento per essere infine firmata dal presidente Vladimir Putin.

Per gli oppositori di questa proposta di legge, si tratterebbe di un’ulteriore strategia per controllare e censurare i movimenti dell’opposizione in rete. Se approvata, infatti, la legge renderebbe inefficaci i cosiddetti VPN (Virtual Private Network) usati per navigare in modo anonimo su internet e per questo molto utilizzati per aggirare la censura.

I precedenti

Negli ultimi anni, il governo russo ha approvato misure che aumentano il proprio controllo su internet. Nel maggio del 2018 era stata annunciata la chiusura del servizio di messaggistica Telegram, dopo che la società si era rifiutata di fornire le chiavi per la decrittazione di messaggi al servizio di intelligence FSB. Circa 7.000 persone avevano risposto manifestando il proprio dissenso e spingendo il governo a sospendere la chiusura di Telegram.

Inoltre, lo scorso 7 marzo sono state approvate due leggi che prevedono multe per chi diffonde in rete “contenuti che insultano la società e lo Stato” e fake news che “provocano la morte o ledono la salute di una persona e minacciano la stabilità sociale”. L’inedito potere delle due leggi deriva dall’autorità, data direttamente ai procuratori, di stabilire l’adeguatezza e l’accuratezza degli articoli.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #215 il: Marzo 15, 2019, 19:23:06 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Sviluppo-regionale-in-Romania-c-e-chi-fa-miracoli-193351

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Sviluppo regionale in Romania: c'è chi fa miracoli...

Da sei anni un ampio programma di sviluppo rurale ha assorbito dieci miliardi di euro dal bilancio nazionale. Ma i villaggi restano nel fango ed i loro abitanti in miseria. Un'inchiesta di Recorder.ro

14/03/2019 -  Alex Nedea,    David Muntean
(Pubblicato originariamente su Recorder  il 7 marzo 2019, selezionato da LcB  e OBCT)

Sâmbăta Nouă è un villaggio isolato della contea di Tulcea dove tutto sembra sul punto di crollare. Qui qualche centinaia di abitanti vivono ai limiti della sussistenza, come del resto milioni d'altri in molti villaggi della Romania. Nel mezzo degli edifici fatiscenti se ne erge uno dall'aspetto del tutto anomalo: una grande villa a due piani circondata da un'alta recinzione. È la casa del prete Mădălin Iscru che, da due anni, veglia sulla comunità. La sua autovettura – una Volvo XC90 del valore di circa 60.000 euro, è parcheggiata al fianco di quella della moglie, una Mercedes GLE350 del valore di poco inferiore, circa 45.000 euro.


Mădălin Iscru non è solo un servitore di Dio. Quando dismette la tunica diviene un uomo d'affari le cui relazioni arrivano sino ai vertici dello stato. La sua ricchezza non è solo legata a Sâmbăta Nouă ma a tutti i villaggi della Romania. Ha trovato una buona ricetta – o in altri termini una vacca da mungere – nel principale programma nazionale di modernizzazione dei villaggi rumeni.

Dieci miliardi di euro per far uscire i villaggi dal fango: questo era l'obiettivo che si proponeva il Programma nazionale di sviluppo locale (PNDL) quando venne istituito per decreto nel 2013 dal governo social-democratico di Victor Ponta. Risorse finanziarie tolte ai progetti legati alle grandi infrastrutture, come ad esempio dalla rete ferroviaria che sta cadendo in rovina. Il suo inventore: Liviu Dragnea, attualmente a capo del Partito social-democratico (PSD) che, dopo aver trascorso anni all'ombra di Ponta, è dal 2016 al timone. “Il PNDL è il più rilevante programma di sviluppo dopo la rivoluzione, e il più coraggioso, è un programma che mi è molto caro”, dichiarava a quei tempi durante un incontro del Psd. “L'ho creato io assieme a Sevil Shhaideh”. Quest'ultima è l'ex ministra per lo Sviluppo regionale. È questo il ministero incaricato di distribuire i 10 miliardi di euro ai comuni dell'intera Romania. Risorse destinate a pagare le aziende impegnate nella modernizzazione delle infrastrutture dei villaggi. Ma, in realtà, serve come paravento per un grande furto.


Durante l'estate del 2018 Mădălin Iscru venne nominato consigliere presso il ministero dello Sviluppo regionale sotto la supervisione diretta del ministro Paul Stănescu, barone dei Socialdemocratici dell’Olt e vice-primo ministro (incarico nel frattempo che gli è stato revocato da parte di Liviu Dragnea a seguito di un rimescolamento delle carte in seno al Psd). Qualche settimana dopo il prete divenne proprietario dell'azienda Hercinic SRL, un ex negozio di quartiere che ha sede in un appartamento: nessun dipendente, nessun fatturato, nessuna esperienza nel ramo delle costruzioni. Ciononostante il ministero per lo Sviluppo regionale ha immediatamente iniziato ad allocare fondi all'azienda di Mădălin Iscru attraverso l'intermediazione dei sindaci dei villaggi. Ha ricevuto fondi per la ristrutturazione di scuole, ambulatori medici, centri culturali. In quattro mesi ha ottenuto 130 contratti pubblici. Un record: Hercinic SRL occupa il primo posto all'interno del Sistema elettronico di acquisizioni pubbliche (SEAP), davanti a giganti dell'economia reale come OMV Petrom, Telekom, Selgros, Dedeman...

Drenaggio organizzato di fondi pubblici
Per capire come Hercinic SRL ha potuto racimolare 130 contratti in 4 mesi ci siamo recati nel comune di Gârliciu, nella contea di Costanza. Il sindaco, Constantin Cinpoiașu, desiderava far costruire un campo sportivo per i bambini del villaggio. Ed è l'azienda di Mădălin Iscru ad aver ottenuto il contratto. Di fatto Hercinic SRL si è vista attribuire in pochi minuti più contratti dalla municipalità di Gârliciu per un totale di 300.000 euro. Perché il sindaco Constantin Cinpoiașu ha scelto proprio quest'azienda? “Come l'abbiamo scelta?...”, ripete il sindaco imbarazzato dalla domanda. “Eh, dal SEAP. È così che l'azienda è stata selezionata”. Cosa aveva quest'azienda in più delle altre? “La serietà!”. E mentre Recorder.ro mostrava al sindaco che Hercinic SRL non aveva alcun dipendente né fatturato l'imbarazzo cresceva. “L'azienda non ha dipendenti...?”. Non lo sapeva? “Chiediamo alla segretaria”.

In Romania contratti pubblici possono essere assegnati ad un'azienda privata in due modi: con appalto o assegnazione diretta. Per quanto riguarda l'assegnazione diretta il totale del contratto deve essere inferiore ai 100.000 euro. Il vantaggio è che l'ente pubblico può scegliere in modo più agile l'azienda con cui intende lavorare. Il comune di Gârliciu intendeva costruire dei marciapiedi nel villaggio. Ma la somma del progetto superava i 100.000 euro e, affinché ottenesse il contratto la Hercinic SRL, venne diviso in due contratti distinti, ciascuno inferiore al limite dei 100.000 euro. Recorder.ro ha chiesto al sindaco Constantin Cinpoiașu quale fosse la differenza tra i due contratti. “Sono due contratti per il miglioramento del traffico a piedi”, ha risposto. Ma quale la logica della divisione? Il sindaco non sapeva che rispondere ed ha messo in calcio d'angolo.

Dividere i progetti in più contratti inferiori ai 100.000 euro è una pratica che avviene in tutto il paese. Il programma PNDL è stato concepito in modo che questa modalità operativa si sia potuta diffondere in modo incontrollabile.

Una rete di vassallaggi
Il sindaco di Ciochina, nella contea di Ialomița, ha ricevuto 400.000 euro dal ministero dello Sviluppo regionale per ristrutturare tre asili d'infanzia del comune. È Mădălin Iscru, ancora lui, ad avere ottenuto il contratto tramite un'altra società che controlla e che, come la Hercinic SRL, è “abbonata” al PNDL. I lavori sono terminati tre mesi fa. Il risultato è spaventoso.

Questi rubinetti sono nuovi? “Si”, risponde una dipendente. Sono già rovinati dopo solo tre mesi. “Sono di cattivo materiale”. Il sindaco Vasile Câmpulungeanu spiega cosa è stato ristrutturato: “Sono state tinte le pareti, questo muro è stato rifatto...”. Ma la stanza è in uno stato pietoso come se di ristrutturazione non ve ne fosse mai stata. Un interruttore non funziona, l'intonaco si stacca, nel muro vi sono crepe, il mobilio, di pessima qualità, ha già bisogno di riparazioni. “La ditta non aveva molto tempo...”, spiega il sindaco con un sorriso imbarazzato. “Mi hanno detto che quando arriverà primavera e quando il tempo lo permetterà ritorneranno a riparare tutto”.

Il rubinetto gocciola, l'interruttore è bloccato, i mobili rotti... e questo non significa che sono stati pagati poco. Recorder.ro ha ottenuto i prezzi applicati dall'azienda del prete Mădălin Iscru per la ristrutturazione degli asili d'infanzia: il prezzo per la manodopera, 9 volte superiore al prezzo di mercato; per 100 metri quadri di piastrelle Mădălin Iscru ha chiesto 4 volte il prezzo di mercato; per 1 m² di parquet, 8 volte il prezzo di mercato... quando gli viene fatto notare che per 100.000 euro si sarebbe potuto costruire un nuovo asilo Vasile Câmpulungeanu dimostra nuovo imbarazzo. E finisce per parlare a mezze parole.

Come ha selezionato quest'azienda? “Con... una telefonata. 'Qualcuno vi aiuterà per quel vostro progetto di ristrutturazione degli asili nel vostro comune'”. Una telefonata ricevuta da dove? “Eh... dal centro”. Dal partito?. “Centrale”, risponde il sindaco con un sorriso. Del partito al potere? “Si”. Temeva di perdere i fondi ministeriali se non avesse sottoscritto il contratto con l'azienda che le era stata segnalata? “Si, ci avrebbero accusati di non essere in grado di attirare i fondi a disposizione”. Alla fine il sindaco ammette di essersi pentito di aver accettato il contratto con l'azienda di Mădălin Iscru, ma che non aveva altra scelta: gli è stato detto che se non firmava con il prete non avrebbe ricevuto alcun fondo dal ministero. Una minaccia alla quale dice di essersi piegato per il bene dei bambini.

L’influenza di Mădălin Iscru deriva direttamente dal governo rumeno. Nell'autunno del 2018, quando ha sottoscritto il contratto per la “ristrutturazione” degli asili di infanzia a Ciochina, il prete era già consigliere presso il ministero per lo Sviluppo regionale, che concede i fondi. E mentre attingeva ai soldi del ministero, il prete ha nascosto nella sua dichiarazione dei redditi di essere amministratore della sua azienda. Un sindaco che ha accompagnato Mădălin Iscru al ministero e che si è ritrovato nella stessa situazione di Vasile Câmpulungeanu nell'essere obbligato a siglare i contratti con la Hercinic SRL ha dichiarato a Recorder.ro, sotto condizione di anonimato: “Mădălin Iscru ruba denaro utilizzando le firme dei sindaci”, e assicura di averlo detto anche in faccia al prete. Va notato che non è detto che Mădălin Iscru sia necessariamente il destinatario finale di questa presunzione di sottrazione di fondi pubblici.

Recorder.ro ha tentato di scoprire se colui il quale all'epoca ricopriva la carica di ministro dello Sviluppo regionale, Paul Stănescu, fosse a conoscenza di ciò che faceva il suo “consulente” e quali fossero i motivi reali del suo impiego presso il ministero. Interrogato in merito davanti al Palazzo del Popolo, sede del parlamento rumeno, Paul Stănescu ha risposto: “Assumo chiunque ritengo di avere la necessità di assumere”, prima di entrare nella sua vettura di servizio.

Altân Tepe è un villaggio dove vivono 200 persone dimenticate ai confini della contea di Tulcea. Qui l'ampiezza dei problemi è tale che le falle nel sistema di cui siamo stati testimoni sembrano avere meno importanza che altrove. “Ah mio caro, qui vedete il Medioevo, gli edifici stanno cadendo in rovina e tutti se ne fregano”, denuncia un'abitante. “Guardi questa crepa, se tocco, cade tutto... se vi è un terremoto cade tutto giù. Questi edifici vanno ristrutturati”. Molti appartamenti sono abbandonati. La gente se ne è andata. Alcuni servono solo come deposito per la legna. “Non abbiamo più un riscaldamento centrale. Quando la miniera funzionava ancora ce l'avevamo. Allora ci siamo arrangiati con delle stufette”. Comignoli di fortuna escono dalle finestre... la povertà grida vendetta ma le priorità dell'amministrazione locale sembrano non avere nulla a che fare con i bisogni degli abitanti.

Altân Tepe fa parte del comune di Stejaru. L’anno scorso il sindaco Nicolae Gioga ha firmato un contratto di 100.000 euro per installare “un'illuminazione pubblica intelligente”. Il contraente: Mădălin Iscru e la sua azienda. I fondi sono stati trasferiti al comune tramite il PNDL ma nessuno al ministero ha controllato di quanti lampioni avesse bisogno Altân Tepe. Il villaggio è costituito da poche vie... Abbiamo verificato: sono state installate 46 “lampadine intelligenti” per 100.000 euro, cioè 2173 euro a lampadina il cui prezzo unitario è, sul mercato, di circa 50 euro. U prezzo gonfiato quindi 40 volte.

“Sarebbe stato meglio fare dei tetti agli edifici piuttosto che questi lampioni”, afferma un abitante dopo essere venuto a conoscenza dell'ammontare speso per il progetto di illuminazione pubblica. “Perché hanno installato queste lampadine? Perché si vedano i fantasmi vagare? La verità è che lassù in alto accade di tutto e che siamo troppo piccoli per questa battaglia”.

Il sindaco è assente, il vice malato
Recoder.ro ha sollecitato il municipio di Stejaru per capire come sono stati spesi i fondi del Programma di sviluppo locali per il progetto di illuminazione pubblica ma non ha ottenuto alcune risposta. Dopo due settimane Recorder.ro è tornato sul posto ma sindaco e vice-sindaco erano assenti. “Dovrebbe arrivare presto, ci ho parlato stamattina, mi ha detto che sarebbe arrivato”, assicura un'impiegata comunale. Poi più tardi: “dice che non può venire, è a Tulcea per degli incontri”. E il vice-sindaco? Lei lo chiama e gli dice che ci sono dei giornalisti che desiderano fargli alcune domande. “È malato”, riporta lei.

Recorder.ro ha scritto a 20 comuni delle contee di Tulcea, Constanța, Brăila, Buzău, Vrancea e Mureș richiedendo documentazione pubblica per giustificare ciò che il “consulente” Mădălin Iscru ha fatto con i soldi ricevuti dal ministero dello Sviluppo regionale. Nessuna risposta.

Ritorniamo alla chiesa di Sâmbăta Nouă dove il prete ha tenuto messa. “Possa Dio avere pietà, che Gesù sia con tutti voi. Dio fa sorgere il sole su coloro i quali fanno il bene e quelli che fanno il male; fa cadere la pioggia sui giusti e sugli ingiusti, aiuta tutti senza distinzioni”, intona davanti ai fedeli.

All'uscita della messa proviamo a porgli delle domande. “Vi ho invitati alla mia tavola, non avete accettato, mi spiace, non rispondo alle vostre domande”, risponde lui. “A seconda di come vi comporterete vi risponderò forse un'altra volta, va bene?”, sottolinea con un tono paternalista al quale sembra essere abituato.

- “Vogliamo solo sapere come si fa a costituire un'azienda fantasma e poi ottenere 130 contratti pubblici in pochi mesi”

- “È un'opinione vostra noi non abbiamo...”, si difende il prete

- “È un miracolo incredibile”

- “Dio fa dei miracoli. È per questo che noi siamo suoi servitori, perché ci ama e fa dei miracoli”

Dio sembra effettivamente aver fatto dei miracoli con il denaro dei contribuenti. Un abitante di Sâmbăta Nouă ce lo spiega: “Il Psd compera 70 lei di gessi che ne costano 1. È così il Psd. È così la Romania”, spiega. Il miracolo è tale che Viorica Dăncilă, primo ministro e portavoce di Liviu Dragnea, ha annunciato un «PNDL 2», quindi altri 10 miliardi di euro per lo sviluppo regionale. 10 miliardi di euro per le tasche di qualcuno e per spingere ancor più i villaggi rumeni nel fango.

 
Post-scriptum: dopo l'inchiesta di Recorder.ro la Direzione nazionale anti-corruzione DNA ha aperto un'inchiesta sul “Dio dei contratti”

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #216 il: Marzo 20, 2019, 19:03:46 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Giorni-difficili-per-il-giornalismo-croato-193519

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Giorni difficili per il giornalismo croato

Mentre la Croazia si avvicina gradualmente ad assumere il semestre di presidenza del Consiglio Ue, nel gennaio 2020, Zagabria registra un record negativo: è l’unico paese europeo in cui la TV pubblica fa causa ai suoi dipendenti

20/03/2019 -  Giovanni Vale   Zagabria
"Chi scrive contro la Croazia dovrebbe ricevere un proiettile in testa", ha detto un tassista di Zagabria alla giornalista Gordana Grgas di Jutarnji List. "Morte ai giornalisti", si legge su un graffito apparso pochi giorni fa di fronte alla redazione della televisione N1 e dei portali Telegram.hr e Net.hr. Una scritta identica è spuntata a poca distanza, in un’altra via del centro della capitale croata.

Questo mese di marzo ha registrato diversi segnali preoccupanti per lo stato di salute della libertà di espressione in Croazia. E questi sono solo alcuni degli esempi. Cosa sta succedendo al mondo del giornalismo nell’ultimo stato membro dell’Unione europea? Assistiamo forse al deterioramento di una libertà fondamentale, nel momento in cui Zagabria sta per assumere la presidenza del Consiglio dell’UE il prossimo primo gennaio 2020?

"Lavoriamo in un clima di minacce"
La vicenda riportata da Gordana Grgas e il caso dei graffiti sono sintomatici di un’atmosfera generale, che vede la figura del giornalista diventare sempre meno popolare. Un fenomeno che non è appannaggio esclusivo della Croazia, ma contro il quale l’Associazione dei giornalisti croati (HND) ha più volte puntato il dito. "È un’altra prova del clima di minacce in cui lavorano giornalisti e media", spiega Hrvoje Zovko, presidente dell’HND.

"Da tempo, avvertiamo che la libertà dei giornalisti e dei media è in pericolo in Croazia", prosegue Zovko, che si chiede: "Chissà se anche dopo queste minacce, il premier Andrej Plenković continuerà a sostenere che le valutazioni sul peggioramento della libertà di espressione in Croazia sono ridicole". "Perché in realtà ciò che è ridicolo per il premier, non lo è per nessun altro", conclude il presidente dell’HND.

La polizia sta ancora investigando sulle scritte apparse nei pressi delle redazioni dei giornali, mentre contro il tassista incontrato da Gordana Grgas è già stata aperta un’inchiesta. Nel frattempo, la App estone Bolt (nota in precedenza con il nome di Taxify), per la quale lavorava il tassista, ha immediatamente sospeso il profilo del guidatore, prendendo ufficialmente le distanze dal suo comportamento.

Cause temerarie e poliziotti nelle redazioni
Sintomatici di una situazione più generale, i recenti incidenti si iscrivono in un contesto difficile per il giornalismo croato. A inizio mese, l’Associazione dei giornalisti croati è scesa in piazza per protestare contro la pratica diffusa delle cause temerarie (oltre mille manifestanti). Ad oggi, l’HND conta 1163 processi in corso contro giornalisti e media: la causa per diffamazione è diventata un modo per far pressione sui reporter.

Nella guerra della cause, un ruolo particolare è svolto dalla televisione pubblica, HRT, che ha fatto causa a 35 giornalisti  , anche tra i suoi stessi dipendenti. L’importo che la HRT esige dalle persone e dai giornali citati in giudizio ammonta ad oltre 2 milioni di kune (quasi 300mila euro), un importo non in linea con quanto stabilito di recente della Corte europea dei diritti dell’uomo  , contraria alle richieste di risarcimento eccessive.

La televisione pubblica se la prende con quei giornalisti che denunciano «un clima di censura» e delle «pressioni politiche» in seno alla HRT, reagendo appunto con delle cause per diffamazione. Per tutta risposta, una trentina di associazioni hanno decretato un boicottaggio della HRT, rifiutandosi di invitarne i giornalisti alle proprie conferenze stampa. L’Unione europea di radiodiffusione (EBU) ha criticato questa decisione  .

Ma la HRT non è l’unico ente pubblico ad abusare delle cause per diffamazione. La stessa Università di Zagabria ha citato in giudizio diversi media, così come hanno fatto alcuni giudici. Si tratta di una pratica non nuova, ma che si è accentuata a partire dal 2013, quando è stato introdotto il nuovo reato di “shaming”, che allarga il ventaglio delle possibilità per cui si può fare causa a un giornalista.

Inoltre, ciò che ha sorpreso in questo mese di marzo, oltre al numero vertiginoso dei processi in corso, è anche il fatto che la polizia croata sia entrata nella sede di un portale (Net.hr) per verificare l’identità e l’indirizzo di una giornalista contro cui un politico aveva fatto causa per diffamazione. Al proposito, è intervenuto anche Harlem Désir, il Rappresentante per la libertà dei media presso l’OSCE. "Sono preoccupato per la visita della polizia al portale Net.hr […] Questo fatto può essere visto come una pressione nei confronti dei giornalisti e non deve diventare una prassi", ha dichiarato Désir su Twitter  . Il Rappresentante dell’OSCE ha commentato anche il caso della HRT, invitando i vertici della TV pubblica a "un dialogo costruttivo e al di fuori dei tribunali con i giornalisti al fine di risolvere le dispute in corso".

Tentativi di dialogo e attenzione internazionale
Harlem Désir si è rallegrato del fatto che la HRT abbia effettivamente iniziato un processo di discussione con le altre parti in causa per arrivare ad una risoluzione extra giudiziaria dei contenziosi. Per il momento, questa pratica non è però stata iniziata con tutti i media e giornalisti citati in giudizio. In particolare, rimane il nodo delle cause fatte da HRT nei confronti di Hrvoje Zovko e dell’Associazione dei giornalisti.

Il problema delle cause temerarie è nel frattempo arrivato al Consiglio d’Europa  (COE), al quale la Federazione europea dei giornalisti (EFJ) ha segnalato la possibile minaccia alla libertà di espressione. La stessa EFJ ha pubblicato a metà marzo un comunicato duro  in cui interpella direttamente il premier croato Andrej Plenković e gli chiede se ritiene «normale» la situazione nel paese.

In patria, l’esecutivo ha fino ad ora respinto le lamentele dei giornalisti croati, parlando di «esagerazioni» sia per quanto riguarda le denunce di censura e di pressioni politiche in seno alla HRT, sia per quanto concerne il generale peggioramento della libertà di espressione nel paese. "Non vedo in questo paese alcun problema con i media", ha dichiarato il Primo ministro croato a inizio marzo  .

Con l’avvicinarsi del semestre europeo, tuttavia, c’è da sperare che il governo croato prenda più sul serio le preoccupazioni dei giornalisti e in particolare la crisi in corso tra l’Associazione dei giornalisti e la televisione pubblica. Come hanno fatto notare diversi osservatori internazionali, la Croazia registra in questo momento un record: è l’unico paese europeo in cui la TV pubblica fa causa ai propri dipendenti.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #217 il: Marzo 27, 2019, 20:41:01 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Romania-i-cementifici-ed-il-business-dell-importazione-dei-rifiuti-193493

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Romania: i cementifici ed il business dell’importazione dei rifiuti

È un immenso scandalo sanitario ed ambientale quello che minaccia la Romania. I cementifici del paese bruciano rifiuti, spesso importati dall’estero, tra cui vi sarebbero sostanze illegali. Il tutto a spese dei cittadini che si trovano a vivere nel mezzo di fumi tossici. Un'inchiesta dell’Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP)

27/03/2019 -  OCCRP
(Pubblicato originariamente da Organized Crime and Corruption Reporting Project  , tradotto e selezionato da Le Courrier des Balkans  e OBCT)

Fin dall’inizio degli anni Novanta, la Romania ha adottato misure che proibiscono l’importazione di rifiuti destinati ad essere poi depositati nelle discariche pubbliche. Tuttavia, la legge ancora autorizza le aziende ad importare rifiuti nell’ambito di programmi energetici. Così, tutti i cementifici romeni usano rifiuti come combustibile, accanto al carbone.

Chi difende questo nuovo mercato dichiara che questi scambi hanno un impatto positivo sull'ambiente, che vi sarebbero meno emissioni di gas ad effetto serra di quando si ricorre ai combustibili fossili, e che tutto questo fornisce uno sbocco per i rifiuti che la nostra società dei consumi ha difficoltà a smaltire. I cementifici così ne approfittano: invece di pagare per acquistare del carbone, vengono pagati per bruciare rifiuti. Eppure, questa dinamica non è affatto l'operazione a somma zero che alcuni affermano essere.

Il traffico
Il porto di Costanza è il principale punto di accesso dei rifiuti stranieri utilizzati dai cementifici romeni. “La Romania è diventata un luogo allettante per l’immondizia di tutta l’Europa”, spiega Tiberiu Niță, un procuratore. Più di un milione di tonnellate, ossia un quinto dei rifiuti urbani prodotti nel paese, sono bruciate ogni anno nelle fabbriche di cemento, ma nessuno le controlla. Nessuna autorità governativa è incaricata di verificare che tipo di rifiuti vengono bruciati nelle fabbriche.

Tiberiu Niță indaga sul traffico di rifiuti in Romania da parecchi anni. “È diventato un problema enorme e nessuno vi presta attenzione. Eppure, sarebbe così semplice stabilire una normativa a riguardo. Alcuni “uomini d’affari” colgono l’opportunità per ripulire il proprio paese riempiendo la Romania di rifiuti. Quando arrivano alla frontiera, i camion sono belli, i rifiuti imballati in modo appropriato, come se ci inviassero del materiale scolastico”. In realtà, in mezzo ai rifiuti ordinari, vengono nascoste sostanze tossiche.

Le autorità competenti per l’ambiente incontrano grandi difficoltà nella gestione del problema. Alla frontiera romena, Răzvan Huber, ispettore ambientale della Guardia nazionale ambientale riporta la storia di un carico italiano, nel 2016. “Assomigliavano a rifiuti ordinari, ma quando abbiamo aperto i pacchi, abbiamo visto che contenevano rifiuti sanitari, provenienti probabilmente da diversi ospedali”. Questa spedizione era la prima di un contratto che prevedeva l’importazione di 12.000 tonnellate di rifiuti da bruciare nei cementifici romeni.

Chi si nascondeva dietro queste spedizioni? I rifiuti provenivano dall’Italia, ma i documenti ottenuti dall’OCCRP mostrano che sono stati cittadini romeni a negoziare l’affare per conto di un cementificio locale. Tiberiu Găneșanu è uno di questi intermediari romeni. A suo avviso, il carico conteneva solo una percentuale molto bassa di rifiuti sanitari. “Esiste una procedura da seguire quando si prelevano dei campioni: si aprono solo due pacchi”, si giustifica, ritenendo che gli ispettori hanno esagerato la quantità e la tossicità di quei rifiuti “clandestini”. Assicura che i suoi partner italiani sono puliti: “Andate a vedere in Italia. Lì, è così pulito che non vi è alcun odore nemmeno all’interno della fabbrica per il trattamento”.

Sponda italiana
Siamo andati a vedere in Italia. Più precisamente a Peccioli, in Toscana. “Tutti si sono trasferiti. Tutti quelli che hanno un po’ di cervello se ne sono andati”. Mario è un abitante del paese. “Questa zona che stiamo attraversando è costituita di campi dove sono stati scaricati rifiuti industriali”. Il trucco consisteva nello sbarazzarsi dei fanghi tossici dandoli agli agricoltori come concime. Questi ultimi li spargevano sul loro terreno o li sotterravano. Il terreno è contaminato ancor oggi.

L’uomo sospettato di essere dietro questo espediente è Domenico Del Carlo. È lui che si trova dietro la spedizione dei rifiuti sanitari confiscati in Romania nel 2016. Sospettato d’essere legato alla criminalità organizzata, è stato indagato nel 2017 per presunti legami con la Camorra. “Molti uomini d’affari che si occupano di rifiuti sono legati a persone coinvolte in gruppi criminali tipo la Camorra”, spiega Adriano D’Elia, comandante della Guardia di Finanza in Toscana.

Non sono solo i rifiuti sanitari ad essere proibiti. La legge romena proibisce che nei cementifici vengano usati come combustibili tanto i rifiuti radioattivi quanto altri rifiuti patogeni. Per gli pneumatici, le bottiglie di plastica e gli oli esausti, le norme sono leggermente più complesse: questi rifiuti possono essere bruciati se le emissioni sono mantenute sotto un certo livello.

Il combustibile non fossile più usato nei cementifici romeni resta l’immondizia urbana, anche detta, spazzatura. Questi rifiuti possono essere bruciati se sono differenziati e puliti. Nella maggior parte dei paesi europei, affinché i cementifici si occupino di questa operazione, bisogna pagarli parecchie centinaia di euro per tonnellata di immondizia. In Romania, è molto più economico: da 10 a 15 euro per tonnellata. È per questo motivo che il paese è una destinazione privilegiata.

La nostra inchiesta ci porta sulle tracce di un altro italiano, Sergio Gozza. Secondo i carabinieri, tra le 150.000 tonnellate di rifiuti spediti da Sergio Gozza dall’Italia alla Germania tra il 2007 ed il 2010, alcuni rifiuti erano contaminati dall’arsenico. Sergio Gozza aveva usato un laboratorio italiano per falsificare i test sui livelli di arsenico affinché il tasso non superasse il limite legale. Ciò nonostante, ha continuato ad esportare i rifiuti per l’Europa fino al giorno d’oggi.

Secondo la Procura romena, Sergio Gozza ha provato ad inviare 2.000 cargo pieni di rifiuti dall’Italia ai cementifici romeni nel 2013. È anche riuscito a far assumere uno dei suoi soci presso un ministero romeno. Il piano è saltato in aria quando la polizia romena - grazie ad una denuncia - ha intercettato il primo carico di questi 2000. Era pieno di rifiuti urbani italiani che non erano stati differenziati ed erano stati mescolati con altri tipi di rifiuti non elencati nell’inventario relativo alla spedizione. “Se qualcuno non spiffera, riescono ad arrivare, scaricare e ripartire”, spiega il procuratore Tiberiu Niță. Le 2.000 spedizioni di rifiuti di Sergio Gozza erano destinate ad un cementificio appartenente a Holcim Romania, filiale del consorzio svizzero LafargeHolcim. Questa fabbrica può bruciare fino a 300.000 tonnellate di rifiuti all’anno.

In Romania arrivano anche rifiuti provenienti dalla Germania. La Cina è stata a lungo la destinazione privilegiata dei rifiuti tedeschi di “minor valore” ma, dopo l’adozione di una nuova legislazione cinese che bandisce 24 tipi di rifiuti, la Germania si è rivolta alla Romania e alla Bulgaria per trovare uno sbocco per le sue eccedenze. Alcuni camion intercettati alla frontiera dagli ispettori romeni contenevano rifiuti non regolamentari.

A Chișcădaga, nella contea di Hunedoara, in Transilvania, Maius Mangu vive a 200 metri dal cementificio HeidelbergCement, uno dei sette cementifici della Romania. HeidelbergCement (più di 15 miliardi di euro di fatturato all’anno) è il secondo produttore mondiale di cemento dopo LafargeHolcim (22 miliardi di euro di fatturato). Il cementificio brucia all’incirca 200.000 tonnellate di rifiuti all’anno. I camion di Domenico Del Carlo ed i camion tedeschi fermati dagli ispettori romeni erano destinati a questo cementificio.

Le api e gli alberi muoiono
“Sentite questo odore?” chiede Marius Mangu. Effettivamente, è atroce. “Le correnti d’aria arrivano fin qui. In certi periodi dell’anno, questo odore è soffocante, letteralmente. Quando fanno più di 30 gradi, non si riesce a respirare”. Secondo Marius, gli uccelli e le api muoiono e l’acqua che dà ai suoi animali è contaminata. Allo stesso modo, diversi alberi del suo frutteto sono morti. “I ciliegi ed i peschi sono gli alberi più sensibili, muoiono per primi”. Ci mostra l’acqua piovana. “Quest’acqua è stata raccolta ieri sera. Prima la davo da bere agli animali. Visto a cosa assomiglia oggi, non oserei più, ho paura che li faccia ammalare. Bruciano gli pneumatici delle automobili ed i rifiuti, e noi ci ammaliamo.” Le tegole del tuo tetto sono nuove, datano otto mesi, ma sono già mezze annerite. “Bruciano qualsiasi cosa. Siamo la fossa biologica della Romania.”

Per mostrarci la scarsa considerazione di HeidelbergCement per l’ambiente e la legislazione romena, Marius ci accompagna nel bosco vicino al cementificio. Vi sono depositati decine di migliaia di pneumatici. È tanta la gomma che è in attesa d’essere bruciata. Dopo la segnalazione dei giornalisti dell’OCCRP, HeidelbergCement è stato condannato a pagare una multa di 10.000 euro per questo deposito illegale che rischiava di causare un incendio.

Marius non è il solo ad essere preoccupato. “A Chișcădaga si può sentire l’odore dei rifiuti, l’odore di cose in putrefazione, soprattutto in estate”, riporta il sindaco, Mihai Irimie, che è particolarmente preoccupato per via di alcuni picchi di emissione. “Il direttore mi ha assicurato che tutto si svolgeva nei limiti legali e che le emissioni erano sicure in quanto monitorate dal ministero dell’Ambiente.” Ma sarà vero?

Controlli (mancati) e tumori
Georgeta Barabaş è la direttrice dell’Agenzia ambientale regionale della contea. Racconta una versione diversa della storia. “Non abbiamo la possibilità di controllare queste emissioni perché non esiste nessun obbligo legale che vincola lo stato ad effettuare dei controlli. Non ci sono norme per le diossine e furani, e i nostri laboratori non sono attrezzati per controllarli.” Le diossine sono una sostanza altamente tossica prodotta dalla combustione di materie plastiche.

Preoccupato e disilluso, Ionel Circo, pneumologo a Simeria, ha constatato un aumento dei casi di cancro nella regione. “Numerosi studi dimostrano l’influenza delle diossine sui casi di cancro. Le diossine si diffondono attraverso l’aria, l’acqua e le piante. Arrivano nell’organismo con il cibo contaminato. Uno studio sulle conseguenze delle emissioni sugli abitanti che vivono intorno ai cementifici richiederebbe degli specialisti interessati ed un sostegno finanziario, e le conclusioni di certo non fornirebbero alcun vantaggio alle persone al potere. Pertanto, chiudiamo gli occhi e continuiamo”.

Nel 2004, alla Romania sono stati assegnati dei fondi europei per acquistare degli strumenti di controllo delle emissioni, specialmente quelle dei cementifici. Secondo Georgeta Barabaş, le autorità romene hanno comprato le attrezzature ma queste non sono mai state istallate. Dunque, le autorità romene non monitorano le emissioni dei cementifici. La legge, del resto, prevede che i cementifici si debbano autocontrollare. È un compito che tre dei sette cementifici subappaltano ad un’unica impresa: Tehno Instrument.

L’impresa appartiene a Mihai Fâcă. Questo vecchio deputato del Partito socialdemocratico (PSD) è stato il direttore dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente fino al 2013 e ha coordinato l’agenzia fino al 2015. All’epoca, aveva già creato la sua impresa di controllo delle emissioni, non ne faceva parte ma suo figlio ne era azionario. “Sappiamo che era l’impresa di Mihai Fâcă ad ottenere i contratti ma che cosa potevamo farci?” domanda Georgeta Barabaş. A suo avviso, è Mihai Fâcă che ha impedito l'istallazione degli strumenti di controllo acquistati con i fondi europei.

I conflitti d’interesse di Mihai Fâcă non si fermano qui, vi ritroviamo infatti Sergio Gozza, il trafficante internazionale di rifiuti: quando i suoi 2.000 carichi illegali sono stati approvati, il nome di Mihai Fâcă figurava sui documenti di autorizzazione. Corruzione ordinaria su piccola scala o crimine organizzato transfrontaliero? Ciò che è certo è che tutti, dai rappresentanti locali all’industria del cemento, traggono beneficio dal “sistema” attuale. Salvo le persone, gli animali, le piante ed i terreni: loro vengono avvelenati.

Online Frank

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #218 il: Marzo 29, 2019, 01:21:33 am »
https://www.eastjournal.net/archives/96987

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UCRAINA: Chi è Zelensky, il comico che vuole diventare presidente
Claudia Bettiol  12 ore fa

da KIEV – Da comico a presidente, è un attimo. Il candidato alle imminenti elezioni presidenziali ucraine che svetta in testa alla classifica dei sondaggi e delle scommesse elettorali destabilizzando concorrenti e rivali, è un attore, un comico e uno showman a tutto tondo: Volodymyr Zelensky, per gli amici “Ze”, anche conosciuto come il “servitore del popolo”.

Il giovane quarantunenne ucraino aspirante alla carica di presidente dell’Ucraina che porta il nome di Volodymyr Zelensky è un uomo dello spettacolo, un comico e un attore nato, che è riuscito a far carriera e se la cava molto bene anche nel mondo degli affari. Creatore e regista degli studi televisivi Kvartal 95, dal 2003 è legato al canale “1+1”, di proprietà dell’oligarca Igor Kolomoiskiy, noto rivale dell’attuale presidente Petro Porošenko e magnate che sembra celarsi dietro la candidatura del giovane Zelensky.

Zelensky: da presidente in tivù a presidente nella vita reale?

Prima di candidarsi come capo di stato del suo paese, Zelensky ha interpretato il ruolo di presidente in una serie televisiva dal titolo “Il servitore del popolo” (Sluha narodu), prodotta dagli studi Kvartal 95, riscuotendo un enorme successo su YouTube e continuando la sua ascesa anche su Netflix, che ne ha acquistato recentemente i diritti (Servant of the People).

La serie, che ricorda inevitabilmente l’americana House of Cards, si concentra sul personaggio di Vasyl Holoborod’ko (interpretato da Zelensky), un insegnante di storia che viene segretamente filmato mentre lotta contro la corruzione nel suo paese e critica apertamente le autorità. I suoi video diventano virali su YouTube, raccogliendo una marea di visualizzazioni, e il giovane insegnante si ritrova presto vincitore della campagna elettorale e presidente in un baleno. Naturalmente il neo-eletto è un presidente semplice, onesto e vicino al popolo, “uno di noi”.

Ed è proprio questo presidente modello che Zelensky propone oggi ai suoi elettori, candidandosi realmente (e non per finzione) per tentare di cambiare qualcosa in Ucraina. Il comico, proprio come il personaggio televisivo de “Il servitore del popolo”, non ha alcuna esperienza politica, nessun passato da oligarca; la sua campagna elettorale mediatica è povera di contenuti e non ha una vera squadra da presentare insieme al suo partito (Sluha narodu, creato nel marzo 2018 da alcuni collaboratori di Kvartal 95). Eppure il suo carisma e la sua presenza sui social network, con cui comunica e attira sostenitori (soprattutto giovani) si è rivelata a dir poco vincente. In pochissimi mesi Zelensky ha scalato con successo la classifica di qualsiasi sondaggio elettorale, scartando un candidato dopo l’altro e arrivando in cima alla vetta, con un netto distacco dalla ex-favorita Julija Tymošenko e dal presidente in carica Petro Porošenko.

Il segreto del successo

Al contrario degli altri candidati, Zelensky è riuscito non solo a conquistare il sostegno dei giovani, ma anche ad attirare l’attenzione dell’elettorato da est a ovest, a prescindere dal fatto che gli elettori siano parlanti russi o ucraini. Una conquista non indifferente se si pensa alla diatriba linguistica che spacca letteralmente in due il paese, creando non poche tensioni.

Molto popolare tra gli ucraini, Zelensky è praticamente sconosciuto al di fuori dei confini nazionali (Russia esclusa) e questo crea un alone misterioso intorno alla figura del comico, che si dice pronto a governare il proprio popolo e addirittura a negoziare con il presidente Vladimir Putin per porre fine alla guerra nell’est dell’Ucraina e vivere in un paese unito.

La sorprendente popolarità di Zelensky si può attribuire alla voglia di un cambiamento radicale da parte del popolo, che è stato coinvolto fin da subito per redigere con lui il suo programma elettorale, oggi ancora piuttosto vago. Un popolo che sogna un governo senza più oligarchi al potere che continuano a provocare scandali e a regnare in un sistema corrotto e ormai marcio; un sistema dove la rivoluzione di Maidan ha fallito. “Ze” sarebbe questo volto nuovo, un innovatore capace di distruggere il vecchio sistema e instaurare un governo dove possano dominare trasparenza e democrazia.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #219 il: Aprile 01, 2019, 21:04:05 pm »
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RUSSIA: L’emancipazione sempre mancata della donna
Matteo Zola  8 ore fa

Il Domostroj, galateo delle botte

“Dagli uomini cattivi nascono più figli maschi”, questo il titolo di un provocatorio articolo a firma di Yaroslav Korobatov apparso sulla Komsomolskaya Pravda, popolare tabloid russo, che ha fatto molto discutere fuori e dentro la Russia. L’articolo prende le mosse da uno studio di Satoshi Kanazawa, controverso psicologo evoluzionista, secondo cui le donne prese a botte godrebbero del vantaggio biologico di poter fare più figli maschi (che sono ovviamente meglio delle femmine) grazie al temperamento del partner. Quanto scritto da Korobatov non nasceva dal caso, quel giorno la Duma aveva approvato una legge per la depenalizzazione della violenza domestica e la stampa nazionale si prodigava nel difenderla in nome dei “valori tradizionali” della società. Sono passati alcuni mesi dall’istituzione di quella legge e, malgrado alcune espressioni di malcontento da parte delle associazioni femministe, la situazione non è cambiata, anche perché attinge ai valori tradizionali della società russa.

E la tradizione della violenza domestica è tutta riassunta in un celebre proverbio russo, “bët, značit ljubit”, se ti picchia vuol dire che ti ama. Un detto che richiama il Domostroj, sorta di galateo russo del XV secolo, volto a istruire il pater familias su come raggiungere la felicità domestica, il quale prescriveva botte alle donne che non dimostravano reverenza e obbedienza al marito. Certo negli ultimi cinque secoli la società russa è mutata e con essa il ruolo della donna che, specialmente in epoca sovietica, ha potuto emanciparsi dalla soggezione al marito. Tuttavia la vita domestica risente ancora del passato e la società russa non ha perso il suo antico carattere patriarcale. Il putinismo non ha fatto che riaffermare questo carattere strizzando l’occhio ai settori più conservatori della società russa tra cui spicca la Chiesa ortodossa.

Delitto senza castigo

Ma quella della depenalizzazione della violenza domestica è una storia tutta moderna. Come spiegato da Laura Luciani, tutto è cominciato nel giugno 2016, quando il governo decise di depenalizzare le percosse a eccezione della violenza domestica per cui invece si stabilì una pena di due anni di detenzione, di fatto equiparandola alla violenza per motivi razziali. Un discrimine volto a proteggere donne e minori che, secondo le stime, sarebbero sempre più vittime di maltrattamenti: ben 26.000 i bambini oggetto di violenza domestica ogni anno, e circa il 25% delle donne.

Tale distinzione non è però piaciuta al clero ortodosso, pronto nell’insorgere rammentando – sacre scritture alla mano – che “un uso ragionevole della punizione corporale è parte essenziale dei diritti che Dio conferisce ai genitori”. Su pressione di gruppi vicini al clero, il governo decise allora di ridurre le pene per violenza domestica a soli quindici giorni di lavori socialmente utili e a una multa di circa 500 euro, derubricando il reato a “violenza privata”, fattispecie in cui viene meno la notitia criminis ed è quindi la vittima a dover raccogliere le prove e sporgere denuncia.

I sostenitori del diritto al pestaggio domestico si sono radunati attorno a Elena Mizulina, deputata nota per le sue controverse leggi contro la “propaganda omosessuale”, che ha redatto una proposta di legge per la depenalizzazione della violenza domestica che prevede che la responsabilità penale si applichi solo se gli episodi di violenza vengono commessi per più di una volta all’anno.

L’emancipazione sempre mancata

Alexandra Kollontaj, rivoluzionaria russa, agitatrice e filosofa, prima donna a ricoprire la carica di ministro, scrisse nel 1921 alcune righe destinate a rimanere nella storia. Sostenitrice del “libero amore” era convinta che il matrimonio fosse un’ulteriore istituzione finalizzata allo sfruttamento e che “la liberazione della donna non può compiersi che attraverso una trasformazione radicale della vita quotidiana […] sulle nuove basi dell’economia comunista”.

Quello che il bolscevismo prometteva era una rivoluzione totale della società e la Kollontaj, consapevole della dimensione economica dell’emancipazione femminile, vedeva nel comunismo una via verso la libertà individuale della donna. Durante il periodo sovietico le donne assursero a ruoli importanti, in anticipo sulle società occidentali, ma i compiti all’interno della famiglia e della coppia restavano ben definiti soprattutto fuori dalle grandi città, in quelle sterminate campagne dove riposa l’eterna anima russa.

Come ricorda Vittorio Filippi, sociologo e docente a Ca’ Foscari, “nonostante le immagini della rabotnica, dell’operaia, venissero riprodotte in dimensioni superiori alla realtà, la liberazione della donna promessa dalla rivoluzione rimase sempre incompiuta, ondivaga e contraddittoria. Già alla fine degli anni Venti l’esaltazione della figura avveniristica della donna-operaio veniva affiancata dalla rivalutazione stalinista della madre eroina con prole numerosa. Poi nel 1968 la nuova legislazione familiare e matrimoniale segnò il trionfo del welfare state e della partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Ma non veniva ridotta l’asimmetria di genere, dato che sulle donne gravavano il lavoro extradomestico e quello domestico”.

La rivoluzione bolscevica non portò fino in fondo il discorso dell’emancipazione femminile lasciando la società russa a metà del guado. Nel 1989, mentre il mondo sovietico si accingeva al crollo, la Pravda scriveva che “la donna deve tornare a casa e non mettere il becco in nient’altro”. La fine della rivoluzione segnava l’ideale ritorno al punto di partenza, al Domostroj e alle regole della tradizione domestica. Un ritorno che molte donne hanno inizialmente accolto come una liberazione, visto che su di loro gravava il doppio fardello del lavoro in fabbrica e in casa, salvo accorgersi presto della necessità dell’indipendenza economica. Oggi, cento anni dopo le dichiarazioni di Alexandra Kollontaj, le donne russe si trovano nel mezzo di un rinascimento patriarcale basato – afferma ancora Filippi – “sui valori pre-socialisti della tradizione ortodossa e nazionalista panrussa” che le vede discriminate tanto nel mondo del lavoro, quanto in quello della politica.

Donne in politica, vetrina del maschio

Si è tuttavia registrato un aumento della presenza delle donne in politica: alla Duma la quota raggiunge il 14% dei parlamentari segnando il risultato più alto di sempre. Questo incremento – nella qualità e nella quantità – della presenza femminile in politica non è però il risultato di una legislazione atta a favorire la parità di genere. Si tratta piuttosto di una mossa tattica da parte di un Cremlino in cerca di nuovi consensi nell’elettorato femminile e di un tentativo di “ripulirsi” dopo i recenti scandali legati alla corruzione: un sondaggio diffuso tra i russi ha mostrato come l’elettorato ritenga le donne più oneste ed efficaci in politica rispetto ai loro omologhi uomini. Ecco allora che per riacquisire credibilità la classe politica ha deciso di aumentare la propria componente femminile. Tuttavia le donne accedono al potere solo quando l’uomo del Cremlino lo consente, e solo se di provata fedeltà e obbedienza. Ecco che la donna in politica è soggetta all’autorità e alla benevolenza del pater patriae replicando le dinamiche patriarcali già presenti nella società.

Diritti negati, lavori proibiti

“Se l’uomo è la testa, la donna è il collo” recita un popolare detto russo. Un proverbio che riconosce il fondamentale ruolo della donna all’interno della famiglia. La domanda tuttavia è: perché è l’uomo a dover essere la testa? La tradizionale subalternità della donna russa nella società e nella famiglia ha fin qui impedito lo sviluppo di un femminismo russo e di una consapevolezza di genere. La recente puntata di Kiosk, programma radiofonico realizzato da Radio Beckwith in collaborazione con la redazione di East Journal, dal titolo “Donne, diritti negati a est“, affronta questa problematica ricordando come, ancora oggi, esista in Russia una lista delle professioni proibite alle donne. Segno di come l’emancipazione della donna sia ancora di là da venire in Russia.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #220 il: Aprile 02, 2019, 23:31:48 pm »
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Cronache dalla Romania, tra ernie del disco, gaffe e referendum
Francesco Magno  7 ore fa

da BUCAREST – La primavera sembra aver fatto finalmente capolino tra i Carpazi e il Danubio, riscaldando l’aria e anche il dibattito politico. Il clima più mite e gli alberi nuovamente in fiore, tuttavia, non sembra abbiano apportato grosso giovamento alla salute dei leader socialisti. Mentre scriviamo queste righe, l’immarcescibile Ion Iliescu, l’uomo che avrebbe deciso la morte di Nicolae Ceausescu, si trova sotto i ferri a causa di gravi problemi al cuore. Anche il suo erede alla guida del partito social-democratico (PSD) Liviu Dragnea ha frequentato nelle scorse settimane gli ospedali della capitale, a causa di una ben più banale ernia del disco che lo ha costretto ad interrompere la campagna elettorale. Da buon socialista statalista, Dragnea è stato ovviamente ricoverato in strutture sanitarie private. Niente di sorprendente, per il leader di un partito sedicente social-democratico che ama la nazione e dialoga amabilmente con la chiesa ortodossa. Whitman diceva orgogliosamente che “essendo un uomo, conteneva moltitudini”. Pensava forse a Dragnea e alle sue multiformi ambiguità? Non impossibile. Il leader maximo interrogato sul perché avesse scelto ospedali privati e non pubblici, come gli onesti poveri cittadini da lui tanto osannati, ha orgogliosamente risposto che si trattava di una struttura finanziata al cento per cento da capitale romeno e non straniero. La Romania ha dato i natali all’inventore del teatro dell’assurdo, ma probabilmente delle moltitudini di Dragnea molti romeni farebbero volentieri a meno.

Dacian Ciolos e la sua lotta col comunismo

La situazione non è più rosea dall’altro lato dello schieramento politico, dove il povero Dacian Ciolos, ex primo ministro e leader del neonato partito PLUS, continua a litigare con lo spettro comunista. Dopo essere stato accusato di amicizie pericolose con ex membri della Securitate, Ciolos e i suoi alleati dell’Unione per la Salvezza della Romania (USR) hanno cercato di dimostrare la loro candida verginità proponendo una legge che vieti la diffusione di idee e dottrine marxiste, minacciando i rei con una pena di dieci anni di galera. In Romania il rapporto col regime continua ad essere manicheo; da chi lo osanna ricordandolo nostalgicamente a chi vorrebbe in galera chi ne propaga le idee, nessuno riesce a interiorizzarlo e a digerirlo. Non sembra che la proposta di Ciolos abbia scaldato i cuori della gente, se non di qualche nostalgico che ha puntualmente lanciato pubblici improperi all’indirizzo dell’ex primo ministro, che forse farebbe bene ad accantonare il passato, dove non ha molta fortuna, e ha concentrarsi sul presente.

Chi gestisce la politica estera?

Nel frattempo la sempre puntuale premier Viorica Dancila ha attirato su di sé le luci della ribalta dichiarando che la Romania è pronta a spostare la sua ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, dimenticando tuttavia un piccolo ma fondamentale particolare. Il governo non può prendere decisioni in materie di politica estera senza il consenso del presidente della Repubblica, Klaus Iohannis. Conscia della gaffe, Viorica ha cercato di salvarsi in corner dicendo di esser stata travisata. Qualche giorno prima, in un momento di tenerissima sincerità, Dancila ha dichiarato di leggere sempre durante i suoi discorsi per evitare di dire stupidaggini. Speriamo ardentemente per le sorti del paese che il ghost writer della premier non si dia alla macchia.

Iohannis e il referendum sulla giustizia

Quando non corregge gli strafalcioni della premier, Iohannis si impegna nel suo sport preferito, ossia fare opposizione al governo. Nei giorni scorsi il presidente ha proposto un referendum, da tenersi il 26 maggio in concomitanza con le europee, sulle politiche del governo in materia di giustizia. Il quesito, piuttosto vago e aperto, dovrebbe recitare più o meno così “siete d’accordo con le politiche del governo in materia di giustizia?”; una domanda che definir retorica è eufemistico. Certo è che l’eventuale mix elezioni europee-referendum potrebbe assestare un colpo ben più letale dell’ernia del disco per il povero (si fa per dire) Liviu Dragnea, che nonostante la morfina ha tuonato contro il suo acerrimo nemico Iohannis, definendolo “disperato, ossessionato e terrorizzato”.

Continua la guerra alla Kovesi?

I veri ossessionati e terrorizzati sembrano tuttavia Dragnea e i suoi, che vedono come il fumo negli occhi la possibilità che Laura Codruta Kovesi, ex procuratore della direzione anti-corruzione, possa essere nominata procuratrice capo europea. La settimana scorsa la Kovesi è stata nuovamente interrogata dai giudici che la accusano di abuso d’ufficio, falsa testimonianza e corruzione. Alla Kovesi è stato impedito di lasciare il paese e di parlare con la stampa. Una chiara misura repressiva per ostacolare la sua nomina a Bruxelles. Un fatto gravissimo, chiaramente emblema di un regolamento di conti estremo non degno di un paese europeo. Alcuni commentatori hanno addirittura affermato (esagerando) che la Kovesi potrebbe essere arrestata. A quel punto non basterà la primavera a colorare il grigiore di un paese che sta pericolosamente imboccando la strada dell’autoritarismo.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #221 il: Aprile 02, 2019, 23:34:51 pm »
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REP. CECA: Il primo paese ex-comunista a riconoscere il matrimonio gay?
Leonardo Benedetti  11 ore fa

Lo scorso 26 marzo il parlamento ceco ha discusso la proposta interpartitica di 46 deputati circa il riconoscimento del matrimonio gay. La nuova legge permetterebbe di superare l’attuale situazione legislativa, andando a colmare quella disparità normativa che a oggi distingue tra matrimonio e unione civile, con la conseguente limitazione di alcuni diritti per le coppie dello stesso sesso. Il voto finale è stato però nuovamente rimandato.

La legislazione attuale

La Repubblica Ceca è uno dei pochi paesi dell’area centro-orientale dell’Europa dove esiste un riconoscimento delle coppie dello stesso sesso sotto forma di unione civile. La società ceca è storicamente aperta, democratica, e tollerante verso le differenze. Anche grazie all’assenza del peso ideologico e politico della religione – il 70% della popolazione ceca si professa ateo – il paese è generalmente tra i più sicuri per le minoranze e ben disposto verso le istanze del mondo LGBT. Manifestazioni come il gay pride si svolgono senza problemi nel paese, dove le relazioni omosessuali sono socialmente accettate molto più che negli stati di confine a forte tradizione cattolica, come la Polonia o la Slovacchia.

La legge attuale risale al 2006 e assicura importanti diritti economici alle coppie dello stesso sesso. In quell’occasione, fu il parlamento a svolgere un ruolo determinante. Le sinistre unite riuscirono a superare il veto del presidente Václav Klaus, e a far approvare dal parlamento il riconoscimento delle unioni civili tra coppie dello stesso sesso, con la conseguente estensione di diritti nella sfera economica e sociale.

A restare fuori dalla legislazione attuale è la questione dell’adozione di minore, che richiedere la totale equiparazione dell’unione civile tra coppie dello stesso sesso al matrimonio eterosessuale. Il nuovo disegno parlamentare si muove proprio in questa direzione.

La proposta di matrimonio

La Repubblica Ceca potrebbe diventare il primo paese ex-comunista a riconoscere pienamente il matrimonio omosessuale. Le società di questi paesi, tradizionalmente poco inclini all’apertura verso i diritti civili, stanno attraversando una nuova ondata conservatrice. Se in alcuni stati si tenta goffamente di rendere anticostituzionale il matrimonio tra coppie dello stesso, come in Romania o in Slovacchia, la Repubblica Ceca sembra poter prendere un’altra direzione.

La proposta di equiparazione del matrimonio omosessuale con quello eterosessuale è però bloccata in parlamento da oltre un anno. La nuova legge permetterebbe la definizione di “matrimonio” anche per le unioni tra coppie dello stesso sesso e darebbe quindi la possibilità per questi di adozione di minori.

A presentare tale modifica del codice civile ceco, su proposta dei membri del partito di governo ANO2011, 46 deputati di diversi schieramenti politici: liberali di destra, liberali di sinistra, socialdemocratici, comunisti. In risposta, un gruppo di 37 parlamentari ha sottoscritto una controproposta per emendare la costituzione e proteggere il matrimonio come unione coniugale tra un uomo e una donna. Tra i difensori della famiglia tradizionale troviamo deputati cattolici della KDU, conservatori del partito democratico civico (ODS), ma anche esponenti delle stesse formazioni proponenti il matrimonio omosessuale, come i socialdemocratici o lo stesso partito del premier ANO2011, a dimostrazione della trasversalità politica della proposta. A tal fine, i partiti hanno lasciato ai propri parlamentari massima libertà di coscienza, che apparentemente dovrebbe portare questi a interpretare la questione solamente secondo proprie credenze, travalicando eventuali logiche e tattiche politiche.

Gli ostacoli politici

La discussione della proposta in parlamento è già stata rinviata molte volte. Se oltre il 60% della popolazione ceca si dice favorevole al matrimonio omosessuale, lo stesso non si può dare per scontato riguardo i parlamentari. La questione spacca i partiti. Sebbene il premier Andrej Babiš si è detto favorevole alla proposta presentata al parlamento proprio dal partito di governo ANO2011, non tutti al suo interno sembrano convinti della bontà della legislazione. Lo stesso appare evidente per altre formazioni politiche, dai socialdemocratici ai liberal-conservatori, fino alla strenua opposizione del partito cattolico della KDU che accusa Babiš di seguire gli istinti popolari senza valutare il merito della proposta.

Sembra quindi complicato prevedere l’esito della discussione parlamentare. Certamente un tema così divisivo non è mai un passaggio semplice per le forze di governo. Il rischio è proprio quello di aprire una ferita nella già debole maggioranza, senza poter completamente intestarsi l’eventuale vittoria politica con i propri elettori. Problema simile si pone per i partiti più liberali e progressisti come il partito pirata, attualmente all’opposizione ma in forte crescita, che si troverebbe ad approvare una proposta trasversale ma proveniente dal governo, rischiando così di aumentarne la popolarità.

Se anche queste resistenze dovessero essere superate e la proposta approvata dal parlamento, il presidente Miloš Zeman ha già minacciato di porre il veto per impedire l’emanazione della legge, o quantomeno rimandarla indietro al parlamento per un ulteriore riesame del provvedimento.

Probabilmente sarà solo una questione di tempo. Nessun paese ex-comunista gode di un’opinione pubblica così aperta e ben disposta verso il riconoscimento di nuovi diritti civili. Nonostante il momento storico, su questi temi la Repubblica Ceca sembra capace di resistere alle influenze ultraconservatrici dei vicini di Visegrád. Con il sostegno di quasi due cechi su tre, si può credere che il matrimonio omosessuale prenderà forma in questa legislatura.
Praga è pronta a riempire il suo parlamento di bandiere arcobaleno.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #222 il: Aprile 02, 2019, 23:43:12 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Tra-due-famiglie-storie-di-lavoratrici-domestiche-migranti-in-Grecia-193380

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Tra due famiglie: storie di lavoratrici domestiche migranti in Grecia

Anna, Maria, e molte altre. In Grecia, migliaia di donne immigrate lavorano come collaboratrici domestiche e badanti. Una vita difficile, sospesa tra legalità e settore grigio, paese di origine e di arrivo, orgoglio e rimpianti

18/03/2019 -  Elvira Krithari   Atene
Invisibile com'era (ed è ancora), era impossibile per lei andare in banca per mandare i soldi alla famiglia in Bulgaria. Anna Georgieva – non è il suo nome, ma suo figlio (che chiameremo Ivan) non voleva che fosse usato per l'articolo – andava quindi in centro ad Atene una volta al mese, ad Ayiou Konstantinou numero 36, Omonia, per inviare denaro in Bulgaria: con l'autobus.

Il momento in cui consegnava all'autista una busta con il nome di sua madre (tra molte buste simili di altre donne) simboleggiava una piccola vittoria, un obiettivo raggiunto.

Anna Georgieva può ricordare almeno 168 di questi momenti (in 14 anni) di riuscite transazioni, necessarie per far sì che Ivan, il suo unico figlio a Sofia, potesse diventare l'avvocato promettente che è oggi. Meno sono stati però i momenti in cui ha potuto effettivamente vederlo diventare tale.

Il confine indefinito tra pubblico e privato
Mentre la maggior parte delle donne migranti in Grecia è impiegata nelle famiglie (il 57,2% secondo un sondaggio del 2011)1, quelle provenienti dai paesi geograficamente e culturalmente vicini di Balcani ed Europa orientale non rappresentano un gruppo compatto e omogeneo.

Quando Polonia, Bulgaria e Romania sono entrate nell'UE, per le lavoratrici domestiche si è creata l'opportunità di vivere e lavorare in Grecia. Tuttavia, rimangono molti casi come quello di Anna: impiegata da due medici in pensione che non pagano l'assicurazione obbligatoria, rimane ancorata al tradizionale contesto di lavoro nero.


Anna si gode il caffè nella casa in cui lavora - E.Krithari

L'assenza di un senso di comunità fra le migranti dai Balcani e dai paesi dell'Europa orientale non è causata solo dalle differenze nel diritto alla mobilità legate allo status UE, ma anche dai loro diversi background e bisogni: ad esempio, le lavoratrici domestiche albanesi arrivano generalmente in Grecia con le loro famiglie per stabilirsi definitivamente, mentre le migranti ucraine, secondo gli studi, sono in genere vedove o divorziate.

Le differenze sono, ovviamente, solo un lato della medaglia. L'altro è che queste donne non hanno nemmeno la possibilità di incontrarsi.

Sebbene Anna non si trovi nella situazione di prendersi cura di una persona anziana inferma e non poter lasciare la casa, lavora da anni senza nemmeno un giorno di riposo. Maria Louka dall'Ucraina, invece, si prende cura di una donna anziana, inferma e completamente dipendente da lei, in una casa molto vicina a dove lavora Anna. Le due donne non si sono mai incontrate.

La mancanza di giorni di riposo non solo viola le leggi sul lavoro, ma è anche causa dello stato psicologico di costante sovraccarico delle lavoratrici domestiche. Durante la nostra conversazione, Maria inizia molto spesso a piangere. È anche la ragione per cui queste donne migranti non sono in grado di sindacalizzarsi e negoziare condizioni di lavoro legali.

"È molto difficile per loro organizzarsi quando non hanno un giorno libero, o possono uscire solo la domenica. Hanno paura delle persone, non conoscono bene la società, raramente partecipano a discussioni aperte. Queste donne non sanno leggere e scrivere in greco, hanno poca autostima e non vogliono andare da sole negli uffici pubblici a registrarsi. Quindi anche le donne greche che lavorano nel settore devono iscriversi al sindacato, collaborare, esigere la certificazione della loro professione", spiega la parlamentare europea Kostadinka Kuneva. Kuneva, che lavorava come addetta alle pulizie in Grecia, è stata segretaria del sindacato greco addetti alle pulizie e governanti. Nel 2008, a causa delle sue attività sindacali, è stata violentemente attaccata con acido solforico (vetriolo), riportando danni permanenti alla vista e alle corde vocali.

Bloccate nelle case delle città o delle province isolate della Grecia, con l'obiettivo di spendere il meno possibile del salario che guadagnano per poter mandare il resto a casa, queste migranti hanno il duplice ruolo di lavoratrici e capifamiglia. Eppure, non possono svolgere appieno nessuno dei due: lavorano in condizioni illegali, non hanno la libertà di negoziare e sono fondamentalmente sole: per loro, le loro famiglie esistono su Skype.

Anna: "Ci vogliamo bene, ma non penso che ci riabitueremo l'uno all'altra"
"Alla fine ho trovato una soluzione per lo scaldabagno; quando lei dormiva, lo accendevo di nascosto. Ma una notte ho dimenticato di spegnerlo. Quando l'ha visto, al mattino, si è scatenato l'inferno". Anna, 49 anni, parla di datori di lavoro difficili, pretese assurde o addirittura offensive che vanno contro i più elementari diritti umani, dagli appartamenti luridi ad attacchi personali sulla (non) importanza della storia del suo paese.

"Lavoro qui da 14 anni, e non ho un solo timbro [per la previdenza sociale/assicurazione]. Quando lavoravo a Kypseli, quando ancora non eravamo nell'Unione europea, [il governo] ha avviato un processo per i documenti. Ma se eri una collaboratrice domestica il datore di lavoro doveva darti un documento per certificare che vivevi al suo indirizzo.

Quando chiedevi i documenti nessuno voleva darti niente e ovviamente nessuno voleva pagare l'IKA [sicurezza sociale/assicurazione]. Quindi ho fatto senza. All'inizio era terribile. Prima che entrassimo nell'UE, la polizia ci dava la caccia. Salivano sugli autobus, i tram e i treni di Omonia, dove fermavano i furgoni che usiamo per trasportare cose e trasferire denaro. E ora che siamo nell'UE, ancora non posso inviare denaro dalla banca perché non ho un permesso di lavoro. Devi avere un numero AMKA [sicurezza sociale], un AFM [codice fiscale]. Per ottenere un numero AMKA devi avere un indirizzo, o il datore di lavoro ti deve dare un documento, non ricordo nemmeno più quale, ho smesso di chiedere".

Il massimo che Anna ha mai guadagnato in Grecia è stato 750 Euro al mese. "A settembre mi servivano molti soldi per comprare libri, scarpe e vestiti a mio figlio. E poi quando ha iniziato l'università, di nuovo avevo bisogno di un sacco di soldi: doveva affittare un appartamento a Sofia. Ad ogni modo non tenevo nulla per me, mandavo tutto a casa", racconta.

L'eurodeputata Kuneva, in passato lei stessa migrante e addetta alle pulizie, sa che questo non è un lavoro che ti permette di risparmiare: "Queste donne mandano i loro soldi a casa e non tengono nulla per sè, né per l'assicurazione sanitaria né per la pensione. Quelle che sono riuscite a comprare un appartamento da qualche parte sono pochissime, non è il tipo di lavoro in cui guadagni abbastanza da stare tranquilla, da sapere che avrai una vita più facile. La situazione ricorda i tempi difficili, quando navi piene di giovani lasciavano la Grecia per tornare solo dopo molti anni".

Ivan, grazie agli sforzi di sua madre e alla propria diligenza, è diventato uno dei migliori studenti della facoltà di giurisprudenza. Recentemente è entrato nel mercato del lavoro del suo paese e guadagna già uno stipendio più alto di quello di Anna. Lei mi dice, con grande gioia, che ora deve lavorare solo per mantenere se stessa. Dopo aver guadagnato alcuni contributi di sicurezza sociale da un precedente lavoro in fabbrica, può ora ottenere una pensione minima dal suo paese (circa 80 Euro al mese). Se i medici greci in pensione per cui lavora decideranno di fare a meno di lei, tornerà al suo villaggio. Tuttavia, la realtà che ha sperimentato in Grecia non si concilia più con la sua vecchia vita in Bulgaria.


Una foto delle nipoti di Maria nella sua stanza ad Atene

"Ora sono un'estranea. Perché non torno da anni, non conosco più i miei vecchi amici, non riconosco i loro figli... Altri sono morti. Ho un'amica, la conosco da quando siamo bambine, ma quando la vado a trovare lei parla di che cosa ha cucinato e così via. Questo non mi interessa. Per la stessa ragione non riesco a parlare con mia sorella. Lei pensa solo a che cosa cucinerà quel giorno, questo mi annoia. Ok, forse sono io da biasimare, perché sono cambiata, me ne rendo conto. Non sono come ero prima. Sono diventata scorbutica".

Il periodo più lungo senza tornare in Bulgaria è stato per Anna tra il 2005 e il 2007. Quando è scesa dall'autobus e ha visto Ivan, 15 anni, "mi è caduta in testa una tonnellata di mattoni", dice in modo caratteristico. "Non avevo mai provato quella sensazione prima, Ivan era cambiato molto e ho pensato ecco, non riconosco più mio figlio. Sensazione strana. Ricordo all'inizio quando me n'ero andata, quanto aveva pianto. 'Mamma non andare via, non lasciarmi, non lasciarmi, non voglio soldi!'. Ora le cose sono cambiate. Ci siamo allontanati dai nostri figli. Sono riusciti a vivere da soli. Penso solo agli anni in cui era piccolo e aveva bisogno di me e io non ero lì. Ci vogliamo bene, ma non credo che ci riabitueremo l'una all'altro".

"Lo rimpiangi?", chiedo.

"No. Senza la Grecia, Ivan non sarebbe quello che è oggi"

E lui lo rimpiange? "Bah, avrebbe avuto un computer? Sarebbe stato in grado di vivere così bene da solo, come adesso? Probabilmente vivrebbe ancora nel dormitorio universitario e avrebbe già avuto tre figli...".

Maria: "Mi piaceva molto lì. Era come essere a casa. Mi hanno chiesto come festeggiamo il Natale in Ucraina"
"Sono venuta da turista, avevo un visto di due mesi. Sono venuta con l'autobus da Leopoli. Ci sono volute 36 ore. Dovevo incontrare un'amica. Non avevo un telefono. Ho chiesto all'autista di chiamarla. È riuscita ad incontrarmi la sera. Erano passati nove anni dalla morte di mio marito. Ho avuto i miei figli a 12 anni di distanza. Il maggiore era sposato, il minore aveva terminato la scuola superiore e frequentava l'università per diventare insegnante di ginnastica. Non avevo soldi. Dovevo pagare".

Maria è arrivata in Grecia l'11 novembre 2002. Aveva 51 anni ed era già nonna. Aveva lavorato per 34 anni in un ospedale come cuoca, 17 come capo cuoca. Ma ad un certo punto i soldi non bastavano e lei era l'unica che potesse andarsene.

All'inizio ha lavorato a Kesariani, prendendosi cura di una signora anziana, ma non capiva bene il greco. "Ma la signora aveva vissuto in America per 40 anni. Mi disse che quando era andata per la prima volta in America nemmeno lei conosceva la lingua. Chiedeva e pian piano imparava. E così ho preso un taccuino. Ho cominciato a chiedere. Chiedevo il nome di tutto quello che vedevo. La sera mi mettevo a studiare. È ancora difficile".

Nei suoi 16 anni di vita in Grecia, Maria non ha solo imparato la lingua. La nipote di una donna di cui Maria si è occupata per 7 anni dice che, a parte la sua stessa famiglia, Maria è l'unica persona al mondo che si ricorda sempre del suo compleanno e dei compleanni di tutta la famiglia.

Sebbene abbia vissuto lontana dalla sua famiglia per molti anni, Maria ha vissuto con altre famiglie che ha aiutato e, inevitabilmente, a cui si è a volte affezionata.

"Mi piaceva molto lì. Era come essere a casa. Mi hanno chiesto come festeggiamo il Natale in Ucraina". I suoi occhi sono pieni di lacrime mentre descrive quanto sia importante per le persone mostrare semplicemente un interesse.

Come la maggior parte delle donne che si prendono cura degli anziani in Grecia, Maria è rimasta con ciascuno di loro fino alla fine. "Li aiutavo ad alzarsi, facevo loro il bagno. Nessuno mi ha mai aiutata. Poi facevo il bucato e stiravo". Fra le faccende domestiche, ogni tanto sentiva i suoi genitori.

"Prima che partissi erano ancora tutti vivi, li chiamavo sempre, sapevo sempre che cosa stavano facendo. Ma non potevo andare lì. Beh, sarei potuta andare, ma poi non sarei potuta tornare in Grecia. Il periodo più lungo in cui sono stata via sono stati tre anni e otto mesi. E un giorno di quel periodo, era il 23 luglio... alle sette di sera, ho portato la signora a fare una passeggiata e ho chiamato a casa dal mio cellulare.

"Tua madre è appena morta", mi hanno detto.

"Che cosa hai fatto?", chiedo.

"Che cosa potevo fare?... Ho pianto. E un altro giorno sono andata in chiesa"

 

Come Anna, Maria ha visto i suoi figli diventare indipendenti e ora dice che lavorerà solo per se stessa. Le chiedo cosa farebbe se potesse tornare indietro nel tempo e lei dice, categoricamente, che non lascerebbe mai il suo paese. "Il tempo si è congelato. 16 anni. Hanno imparato a stare da soli. I nipoti sono cresciuti senza di me. Mi manca tutto".

Anna Georgieva e Maria Louka sono in molti casi il lato invisibile delle famiglie greche contemporanee.

La famiglia internazionale: un processo più che una struttura stabile
Nel suo studio sulle lavoratrici domestiche dei Balcani e dell'Europa orientale, la ricercatrice Katerina Vasilikou nota che per le donne migranti "la famiglia diventa qualcosa per cui lottare, uno sforzo costante, più un processo che una struttura stabile".

La famiglia internazionale – una famiglia in cui i legami non cessano di esistere solo perché i suoi membri sono separati da grandi distanze – dipende in larga misura dal costante mantenimento della comunicazione.

Per la maggior parte del tempo passato in Grecia, Anna e Maria non hanno avuto accesso alle tecnologie avanzate per comunicare con le loro famiglie. La domenica chiamavano le loro famiglie da telefoni a pagamento: Maria ricorda che 20 minuti le costavano 3 Euro, il prezzo della scheda telefonica. Anna ha comprato un portatile dalla Bulgaria. Dopo aver provato per 3 anni a connettersi al wifi del vicino dal suo cellulare, Maria ha recentemente preso un tablet e nella casa in cui lavora c'è Internet. Ora, almeno, entrambe le donne sono meno sorprese della velocità con cui le loro famiglie stanno crescendo e cambiando.

Sembra che le donne siano la ragione principale per cui le famiglie internazionali rimangono unite, anche se sono loro che se ne vanno. Kostadinka Kuneva offre una spiegazione: "Come la vita ha dimostrato e come ha visto la maggior parte delle persone negli ultimi 30 anni, le donne sono più adattabili e flessibili e più pronte a decidere di partire e trovare lavoro altrove per mantenere la loro famiglia. Ho questa idea, che come donne impariamo ad offrire il nostro corpo e lavoro ed energie agli altri, e così, penso, lavoriamo sul nostro egoismo. Questo si trasforma in amore, poi in devozione, e quindi una madre sente fortemente la responsabilità di mantenere la famiglia se gli altri membri non sono in grado di farlo per un motivo o per l'altro. Una donna non può stare a guardare quando vede che suo figlio non ha nulla da mangiare. Ricordo che mia zia stava molto male quando suo figlio chiedeva un biscotto, non uno al cioccolato, ma solo un biscotto, che costa pochissimo: poche monete, ma lei non aveva nemmeno quelle. Che cosa doveva fare per il cibo, come poteva permettersi di mandare suo figlio a scuola? Così lei ha dovuto andarsene. Diceva sempre: "Sono andata via per un biscotto".

La regolamentazione del lavoro domestico, per non parlare di un quadro di certificazione, cambierebbe non solo la vita delle donne che spesso vivono come prigioniere, ma andrebbe anche a beneficio dei loro datori di lavoro, le famiglie che affidano i propri cari a persone di cui sanno molto poco.

In una certa misura, questo influenzerebbe positivamente anche la vita dei figli delle migranti, perché "una cosa è dover partire improvvisamente per un lavoro che è come una prigione, sopportare la mancanza di rispetto, la tua famiglia non sa nemmeno se sei viva, come stai, ti prendono i documenti e non li restituiscono... ed è un'altra cosa se loro sanno che sei andata in un centro di ricerca, in un'università o in un'azienda e hai un indirizzo e un telefono e puoi sempre essere in contatto con loro", aggiunge Kuneva.

Per il resto, è difficile offrire risposte. Come compensare la perdita di un genitore che non è morto, e come gestire il senso di colpa che probabilmente provi perché la separazione è a causa tua, o a tuo vantaggio? La risposta può arrivare solo dalla generazione globale che è cresciuta senza le loro madri.

 

1 Women΄s Immigration in Greece (2011) con la collaborazione del Centro nazionale di ricerca sociale, Università di Panteion e Centro per la ricerca sulle questioni femminili nel quadro del Fondo europeo per l'integrazione dei cittadini di paesi terzi (EIF)

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #223 il: Aprile 11, 2019, 20:45:19 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-a-processo-l-ex-presidente-Iliescu-per-le-morti-del-1989

Citazione
Romania, a processo l'ex presidente Iliescu per le morti del 1989
11 aprile 2019

L'ex presidente romeno Ion Iliescu sarà processato per crimini contro l'umanità, insieme ad alti membri della leadership politica e militare che guidò la rivoluzione romena del 1989 contro il dittatore comunista Nicolae Ceaușescu.

È una delle pagine più oscure e dolorose della storia recente romena: nel dicembre 1989, durante e dopo la caduta di Ceaușescu, le strade di Bucarest e di altre città romene divennero preda del caos più completo. Per alcuni giorni, misteriosi “terroristi” spararono sulla folla, scesa in piazza per chiedere democrazia e libertà.

Secondo la procura militare romena a provocare e gestire il caos - per riuscire a prendere il potere nella fase più violenta della transizione - sarebbe stata la leadership del “Fronte di Salvezza nazionale”, creato in fretta e furia da elementi meno esposti del Partito comunista e capeggiato da Iliescu. Dopo la presa del potere da parte del Fronte, il 22 dicembre 1989, i morti nelle strade furono 862, i feriti più di duemila.

L'accusa sostiene che il gruppo raccolto intorno a Iliescu - capo di stato dal 1989 al 1996, e poi di nuovo dal 2000 al 2004 - avrebbe deliberatamente utilizzato servizi segreti ed esercito contro i manifestanti, con l'obiettivo di creare un clima di terrore nelle strade.

Sul banco degli imputati, insieme ad Iliescu, ci sarà l'ex vice primo ministro Gelu Voican-Voiculescu. Sempre secondo la procura, i due avrebbero “diffuso informazioni false attraverso comunicati televisivi e a mezzo stampa, contribuendo alla creazione di uno stato di psicosi generale”. Entrambi rigettano però le accuse, che Voican-Voiculescu ha definito “un atto di vendetta politica”.

Accuse anche per l'ex capo dell'aviazione militare Iosif Rus, accusato di aver ordinato ad un reggimento dell'aviazione di camuffare le proprie divise, ordine che portò a uno scontro a fuoco con altri militari nell'aeroporto di Bucarest (Otopeni), sfociato nella morte di 40 militari e otto civili.

Non è questo il primo processo sugli eventi che hanno segnato la controversa “rivoluzione romena”: una prima indagine venne chiusa senza rinvii a giudizio nel 2009. Secondo il procuratore generale Augustin Lazăr, il nuovo processo “rappresenta un momento importante per il sistema giudiziario romeno, che assolve così ad un debito d'onore verso la nostra storia”.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #224 il: Aprile 11, 2019, 20:47:36 pm »
https://www.eastjournal.net/archives/97303

Citazione
Ungheria e Slovenia ai ferri corti per la copertina di un giornale
Gian Marco Moisé  2 giorni fa

Nelle ultime settimane, si è alzata la tensione tra Ungheria e Slovenia a seguito della pubblicazione di una caricatura del primo ministro ungherese Viktor Orbán sulla copertina di un settimanale politico sloveno, Mladina.

Il caso

Che il premier ungherese Viktor Orbán riconoscesse nella Russia di Vladimir Putin un modello da seguire era chiaro da tempo, ma che l’emulazione avrebbe raggiunto questi livelli se lo sarebbero immaginati in pochi.

Negli ultimi due anni, il settimanale politico Mladina, uno dei più autorevoli prodotti del giornalismo sloveno ha riportato i tentativi del governo ungherese di interferire nella politica interna del piccolo paese balcanico. Tra questi, ci sarebbero il conferimento della cittadinanza ungherese ai cittadini della regione confinante con l’Ungheria, Pomurje, il finanziamento di business e attività sociali a Koper, e una fotografia provocatoria della stessa ambasciatrice ungherese a Lubiana, Edit Szilágyiné Bátorfi, con la mappa della Grande Ungheria, che comprende la stessa regione di Pomurje. Infine, Mladina ha riportato l’acquisto di quote di un giornale conservatore in parte detenuto dal partito democratico sloveno (SDS), guidato da Janez Janša.

Mladina

Di recente, però, la tensione tra Mladina e il governo ungherese ha raggiunto livelli istituzionali. Il 22 marzo, il settimanale sloveno ha pubblicato una storia sul voto interno al gruppo parlamentare dei popolari europei, sostenendo che a Fidesz sia stato permesso di rimanere all’interno del gruppo grazie al voto dello stesso Janša e di altri due parlamentari di SDS, Milan Zver e Branko Grims. Tuttavia, a scandalizzare il governo ungherese sarebbe stata proprio la copertina del giornale che ritrae una versione caricaturale di Viktor Orbán, sostenuto da Janša, Branko e Grims, mentre fa il saluto fascista.

Le reazioni

Tre giorni dopo, il 25 marzo, l’ambasciata ungherese a Lubiana ha rilasciato una nota diretta al ministro degli esteri sloveno, nella quale ha dichiarato che: “La copertina del 22 marzo 2019 del settimanale Mladina eccede i limiti della libertà di stampa e di espressione. L’ambasciata ungherese a Lubiana crede che simili azioni danneggino l’altrimenti eccellente rapporto bilaterale tra i due paesi. Quindi, l’ambasciata protesta nei confronti del Ministro degli Affari Esteri sloveno per l’irresponsabile copertina di Mladina, chiedendo al Ministro di prevenire simili incidenti in futuro.” Alla malcelata richiesta di interferenza nella libertà di stampa ha replicato il portavoce del ministro degli esteri sloveno, sostenendo che: “[Noi] rispettiamo la libertà di parola e di stampa e non interferiremmo mai nella politica editoriale di nessun giornale”.

Ciononostante, Mladina ha lamentato continue pressioni da parte delle autorità ungheresi. Il primo aprile, il portavoce del governo Zoltán Kovács ha attaccato il giornale dal suo blog, sostenendo che: “Per gli intellettuali negli uffici editoriali di Mladina, che hanno una lunga storia di supporto dell’agenda multiculturale e di antipatia nei confronti della chiesa, chiunque si opponga all’immigrazione e voglia proteggere la cultura cristiana dev’essere un nazista”. Il direttore di Mladina, Grega Repovž, ha commentato la vicenda a POLITICO, chiarendo che Orbán: “Parla come un fascista, si comporta come un fascista e usa retorica antisemitica. L’Ungheria è un paese che non nasconde i suoi tentativi di prendere il controllo dello stato sloveno in tutti i modi possibili.”

Non è la prima volta che la satira attira l’attenzione di leader che non tollerano critiche, ma la cosa più desolante della vicenda è sapere di non potersi aspettare la più timida reazione a livello europeo. Le istituzioni europee sono popolate da sovranisti che hanno a cuore solo le vicende nazionali. Svuotata del suo respiro sovranazionale, l’Unione Europea è solo l’alibi per il delitto perfetto.

Foto: Copertina di Mladina, 22 Marzo 2019