Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 78231 volte)

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Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #435 il: Giugno 21, 2020, 01:21:31 am »
Territori prevalentemente tedeschi?! E il Triveneto dove lo mettiamo? Venezia e Trieste erano austriaci, il redattore se l'è dimenticato?
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oltre ad essere un (non) popolo disunito da 159 anni. al contrario (ad esempio) di quello francese, che è un popolo unito da 1500 anni.
Curiosamente un intellettuale italo-francese, tale Condemi, ha detto esattamente il contrario: i francesi non sono più un popolo, perché la loro memoria storica è stata cancellata, e il 10-20% della popolazione non è di cultura francese.
E' quanto stanno cercando di fare anche da noi, ragione perché non mi stanco di insistere sul nostro retaggio culturale, messo ovunque in discussione.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #436 il: Giugno 21, 2020, 01:30:32 am »
Curiosamente un intellettuale italo-francese, tale Condemi, ha detto esattamente il contrario: i francesi non sono più un popolo, perché la loro memoria storica è stata cancellata, e il 10-20% della popolazione non è di cultura francese.

Eh, ma ce ne vorrà ancora di tempo prima di raggiungere i livelli italiani...

Offline Vicus

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #437 il: Giugno 21, 2020, 01:40:22 am »
Indubbiamente la Francia è unita da un tempo dieci volte superiore al nostro, ragion per cui siamo ampiamente colonizzati da quel Paese, a partire dalla nostra classe politica che risponde a Parigi non al popolo italiano.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #438 il: Giugno 23, 2020, 00:58:55 am »
https://www.eastjournal.net/archives/107354

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Dietro l’omicidio Caruana Galizia: le tangenti dell’energia dall’Azerbaigian al Montenegro
Andrea Zambelli 12 ore ago

Il 16 ottobre 2017, Daphne Caruana Galizia veniva assassinata in un’autobomba davanti a casa sua, a Malta. Tre anni dopo, l’allora premier maltese Joseph Muscat ha dovuto lasciare il comando, ma il suo entourage – coinvolto direttamente nell’omicidio – resta al potere, mentre il processo a killer e mandanti va a rilento. Solo la settimana scorsa, i giudici hanno chiesto di indagare sull’ex capo della polizia, che avrebbe passato informazioni relative all’indagine ai presunti assassini.

Al momento dell’omicidio, Caruana Galizia indagava su una rete di corruzione internazionale che girava attorno alla società offshore 17 Black Limited, registrata negli Emirati Arabi Uniti. La giornalista era certa che tale compagnia servisse per incanalare le tangenti agli uomini del governo maltese,  come scrisse già allora nel suo blog. Non ne aveva però le prove.

L’anno scorso, la polizia maltese ha incriminato come mandante dell’omicidio Caruana Galizia uno degli affaristi più ricchi di Malta, Yorgen Fenech, che la Reuters aveva rivelato essere il proprietario di 17 Black. Ora, una nuova indagine di Reuters e Times of Malta getta luce sulle attività di tale società offshore.

Gli affari energetici maltesi in Montenegro

Nel novembre 2015, la società pubblica maltese dell’energia, Enemalta, decideva di investire nell’eolico in Montenegro. Il parco eolico di Možura, sulle colline sopra Ulcinj, era stato lanciato nel 2010 come primo grande programma di energia rinnovabile nel paese adriatico, e dato in concessione alla società spagnola Fersa Renovables. L’acquisto, in consorzio con la cinese Shanghai Electric Power nell’ambito della Belt and Road Initiative, arriva dopo vari viaggi del ministro dell’energia maltese, Konrad Mizzi, in Montenegro.

La compravendita passa per un intermediario: Cifidex Ltd, società registrata alle Seychelles. Cifidex acquista le azioni di Možura da Fersa il 10 dicembre 2015 per 2,9 milioni di euro; due settimane dopo, le rivende a Enemalta per 10,3 milioni di euro – oltre tre volte il prezzo originale. Nello stesso periodo, 17 Black registra un utile di 4,6 milioni di euro.

Nello stesso mese, i contabili di Mizzi e dell’allora capo di gabinetto del premier maltese, Keith Schembri, scrissero in una e-mail che Schembri e Mizzi avrebbero ricevuto pagamenti da 17 Black per servizi non meglio specificati. Tale e-mail, già segnalata da Reuters e altri, si trova all’interno del dossier relativo all’apertura di una società offshore a Panama da parte dei due dirigenti pubblici maltesi.

Schembri – oggi sotto inchiesta per l’omicidio Caruana Galizia – aveva confermato a Reuters nell’aprile 2018 di avere un piano aziendale con 17 Black, poi mai andato in porto. Mizzi ha negato ogni coinvogimento, sostenendo di aver agito solo nelle sue funzioni di ministro. Non è noto cosa 17 Black abbia fatto dei fondi provenienti da Enemalta.

La connessione azera

Fonti direttamente coinvolte nella transazione hanno spiegato a Reuters che Cidifex avrebbe ottenuto i tre milioni per l’acquisto tramite un prestito da 17 Black, rimborsando quindi i 3 milioni assieme a un “profit share” da 4,6 milioni entro maggio 2016.

A chi appartiene Cidifex? Secondo le fonti di Reuters, il proprietario sarebbe Turab Musayev, cittadino britannico e dirigente della filiale svizzera della compagnia petrolifera statale dell’Azerbaigian, la Socar. Musayev e Fenech erano soci in affari nel consorzio che nel 2017 ha costruito una nuova centrale elettrica a gas da 450 milioni di euro a Malta – con un accordo monopolistico d’intermediazione sul prezzo del gas che fa perdere a Malta milioni di euro l’anno, come rivelato dal Daphne Project. Socar ha negato ogni coinvolgimento o conoscenza dell’affare Možura.

La rete corruttiva internazionale dell’energia

La costruzione delle pale eoliche sopra Ulcinj è iniziata a novembre 2017, e il parco eolico di Možura è stato inaugurato nel novembre 2019 alla presenza dei due primi ministri, Joseph Muscat and Duško Marković. I 23 generatori eolici dovrebbero produrre 112 GWh all’anno, che il governo montenegrino si è impegnato a comprare a un prezzo fisso di 95.99 €/MWh, oltre a fornire 115 milioni in incentivi per 12 anni. Il terreno del parco eolico, ceduto in leasing fino al 2035 al consorzio sino-maltese International Renewable Energy Development Ltd (IRED), dovrebbe quindi tornare di proprietà del governo montenegrino.

Compravendite a prezzo gonfiato di progetti in “energia verde” tramite intermediari offshore che riversano poi gli utili a mò di tangente in altre società offshore vicine ai dirigenti pubblici che approvano l’acquisto: Daphne Caruana Galizia era sulle tracce di una rete internazionale di corruzione nel settore energetico che operava in tutte le giurisdizioni offshore, da Malta al Montenegro, da Panama agli Emirati e alle Seychelles. Forse anche per questo la sua voce è stata fatta tacere.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #439 il: Giugno 23, 2020, 01:01:01 am »
https://www.eastjournal.net/archives/107296

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RUSSIA: Il Cremlino dietro le dimissioni collettive di alcuni giornalisti
Amedeo Amoretti 4 giorni ago

Lunedì 16 giugno, cinque redattori storici del giornale russo Vedomosti hanno rassegnato le dimissioni. La decisione presa da Dmitrij Simakov, Boris Safronov, Filipp Sterkin, Kirill Charatjan e Aleksandr Gubskij segue la nomina di Andrej Šmarov come neo-direttore della testata. Gubskij lavorava per Vedomosti dal 1999, anno di fondazione del giornale, mentre gli altri quattro giornalisti da circa quindici anni.

Le motivazioni delle dimissioni collettive

Secondo quanto riportato da Reuters, i cinque giornalisti dimissionari non avrebbero affatto apprezzato lo scarso rispetto mostrato da Šmarov nei confronti delle regole del giornale e delle persone stesse. Essi denunciano, in particolare, un regime di censura che sarebbe stato adottato dal neo-direttore nei confronti di articoli critici riguardo alla figura del presidente russo Vladimir Putin.

Demjan Kudrjavtsev, il precedente proprietario che aveva acquistato il quotidiano nel 2015, ha annunciato nel marzo 2020 la volontà di vendere Vedomosti. Tuttavia, nonostante il formale passaggio di proprietà ai due imprenditori Konstantin Zjatkov e Aleksej Golubovič non fosse stato ancora ultimato, Šmarov è stato nominato nuovo direttore di Vedomosti nello stesso mese.

L’inchiesta sull’acquisto e la vendita di Vedomosti

Il 12 maggio 2020, giornalisti di Meduza, Forbes, The Bell e dello stesso Vedomosti avevano pubblicato un’inchiesta sulle transazioni economiche e le negoziazioni per l’acquisto del quotidiano Vedomosti. Le accuse sono numerose, ma è necessario citarne almeno due.

Innanzitutto, l’acquisto di Delovoi Standard Ltd, società offshore proprietaria di Vedomosti, da parte dell’imprenditore Demjan Kudrjavtsev nel 2015 sarebbe stato guidato dal governo russo, in coordinazione con l’imprenditore Dmitrij Bosov, deceduto un mese fa. Tra il 2015 e il 2016, il trasferimento di proprietà di Vedomosti da Delovoi Standard Ltd ad Arkan Investment (società in mano alla moglie di Kudrjavtsev) avrebbe valso all’imprenditore un guadagno di circa 14 milioni di euro in pochi mesi. Tuttavia, la somma necessaria per il passaggio di proprietà (circa 24 milioni di euro) sarebbe stata finanziata in toto da fonti esterne, e per la maggioranza da Bosov.

In secondo luogo, le negoziazioni per la vendita di Vedomosti ai due imprenditori nel marzo 2020 sarebbero state gestite da Michail Leontev, portavoce di Rosneft, compagnia petrolifera in mano al governo russo. Infatti, secondo l’inchiesta, Rosneft controllerebbe Vedomosti tramite una concatenazione di debiti che coinvolgerebbe la Russian Regional Development Bank (RRDB), la cui proprietà appartiene a Rosneft, Konstanta LLC, Arkan Investment (unico azionista di Vedomosti) e Business News Media (la casa editrice del giornale). In questo modo, Rosneft avrebbe avuto voce in capitolo nella scelta del nuovo direttore, un uomo che fosse vicino alla presidenza russa e che, di conseguenza, potesse censurare qualsivoglia articolo non gradito al Cremlino. Infatti, secondo Meduza, Šmarov sarebbe “il candidato dell’amministrazione Putin”.

Il caso di Kommersant

Non è la prima volta che giornalisti russi si dimettono per protestare contro un regime di censura nei loro confronti. In particolare, a maggio 2019, a seguito del licenziamento di due giornalisti della testata Kommersant – rei di aver pubblicato indiscrezioni su un possibile cambio di timone alla presidenza del Consiglio federale russo – una decina di colleghi rassegnò le dimissioni in loro solidarietà. Alle accuse di censura, un portavoce di Ališer Usmanov, proprietario del quotidiano, affermò che il licenziamento non fosse il frutto di una decisione politica e che Usmanov non interferisse nella linea editoriale di Kommersant.

Le dimissioni dei cinque giornalisti di Vedomosti, esattamente come quelle che hanno coinvolto la testata Kommersant un anno fa, rappresentano un atto simbolico nei confronti del settore editoriale russo. Essi chiedono semplicemente la libertà di esercitare la propria professione senza alcuna censura.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #440 il: Luglio 05, 2020, 11:51:22 am »
https://www.eastjournal.net/archives/107600

Dice l'italiano medio, specie se di sesso maschile:
"Siamo sempre i numeri uno!", solo in Italia succedono certe cose!"

Ah no, cazzo!, mi son sbagliato... accade nella locomotiva d'Europa, dove tutto funziona a meraviglia, i lavoratori son sempre ben pagati e rispettati, lo stato ti porta anche l'acqua con le orecchie, e non vi è traccia alcuna di criminalità e corruzione...  :doh:


Citazione
Le vite di operai bulgari e romeni nel più grande mattatoio d’Europa
Giorgia Spadoni 2 giorni ago

Situato nella Renania Settentrionale-Vestfalia, in Germania, l’impianto di macellazione di Gütersloh, proprietà del colosso della carne Tönnies, è il più grande mattatoio d’Europa, nonché attualmente il maggiore focolaio tedesco di Covid-19. Tra gli oltre 7000 impiegati, principalmente bulgari, romeni e polacchi, i casi di contagio accertati sono più di 1300. La sezione bulgara di Deutsche Welle ha pubblicato le esperienze dirette di tre ex-lavoratori dell’azienda tedesca – un romeno e due bulgari – denunciando le disumane condizioni lavorative imposte. Ne proponiamo di seguito la traduzione.


“La notte sentivo i colleghi piangere”

Il 25 giugno è uscita l’intervista all’operaio romeno.


Ho lavorato per due anni nei mattatoi del gruppo Tönnies. Raramente il turno finiva dopo le contrattuali otto ore. Nella maggior parte dei casi lavoravamo dalle 12 alle 13 ore al giorno. Segnavamo le ore aggiuntive, ma non venivano mai conteggiate nello stipendio. Era molto freddo e umido [all’interno del laboratorio, nda], i nastri trasportatori si muovevano molto velocemente. La notte, nell’alloggio comune sentivo i colleghi piangere per i forti dolori e le mani gonfie, ma ci incoraggiavamo a vicenda dicendoci: “Resisti”.

Un mio amico mi chiedeva insistentemente di portarlo con me, voleva lavorare in Germania a tutti i costi. Gli dissi di mettersi da parte soldi sufficienti per potersi comprare il biglietto di ritorno in caso di bisogno. Il mio si è rivelato un ottimo consiglio, poiché dopo un solo giorno di lavoro da Tönnies si arrese e decise di ritornare in Romania.

Quando c’era un controllo, la velocità dei nastri trasportatori veniva rallentata, e il lavoro diventava più semplice. Ma si sapeva in anticipo quando sarebbe stato il controllo. Perché non lo facevano di sorpresa? Solo in quel caso gli ispettori sarebbero stati in grado di vedere quali erano le vere condizioni lavorative. Ci intimavano di non aprire la bocca. Il motto era: “Non appena arriva il controllo, dite che non parlate tedesco”. La situazione peggiorava quando ci ammalavamo – i capi ci gridavano di non presentare certificati medici. Proprio per questo motivo ho deciso di licenziarmi. Avevo preso una brutta influenza, cosa che succedeva spesso dato che lavoravamo tutti al freddo. Mi hanno urlato contro e allora mi sono detto: “Basta, me ne vado”.

Il principale era tedesco, ma il responsabile di produzione era romeno. Doveva fare da interprete, visto che la maggior parte di noi operai non parlava tedesco. Tutti i responsabili di produzione avevano il compito di assicurarsi che i lavoratori non si assentassero per malattia.

Alcune delle abitazioni dove ho alloggiato erano molto pulite, ma c’erano delle eccezioni. E si stava sempre molto stretti – in un appartamento siamo stati in 10, 12, perfino 14. L’affitto mensile era di 200 euro a persona. I condomìni appartenevano a dei subappaltatori. Un subappaltatore romeno aveva comprato un intero stabile e dava le abitazioni in affitto agli operai. Non è umano però comprimere così tanta gente in un’unica abitazione.

[Sono rimasto in contatto] con due colleghi, che adesso sono in quarantena. Dicono di ricevere cibo e acqua a sufficienza, ma sono molto spaventati e agitati perché non hanno la più pallida idea di cosa aspettarsi nell’immediato futuro.

“Lavorare, dormire, lavorare, dormire”

Il 26 giugno sono state pubblicate le testimonianze di due lavoratori bulgari, apparse inizialmente sul quotidiano Aachener Nachrichten, con i nomi di fantasia Stefan e Ivan.

Stefan ha lavorato per cinque mesi nel mattatoio, e per tutto il tempo ha sempre fatto il turno di notte – dalle 17:30 alle 4 del mattino. Più volte ha chiesto di poter lavorare non solo di notte, ma nessuno gli ha dato ascolto. Il 58enne bulgaro ha trascinato per notti intere pezzi di carne da 20 chili per 1200 euro al mese. Nemmeno Ivan lavora più per il mattatoio Tönnies, e nei suoi ricordi regna un’unica sensazione: “Freddo, faceva molto freddo”. Entrambi i bulgari parlano continuamente del freddo del mattatoio.


Stefan e Ivan raccontano che la maggior parte dei lavoratori rimane solo per pochi mesi da Tönnies. Dopodiché o rinunciano, oppure vengono licenziati. Stefan conferma come tutto ciò non avvenga per caso: “Cacciano gli operai prima che terminino i sei mesi di prova”, dice. Così i lavoratori non hanno diritto al congedo completo e possono essere licenziati secondo una procedura più rapida – anche in caso di malattia. Stefan racconta inoltre di come i capi aumentavano di proposito la velocità dei nastri trasportatori per ridurre i tempi dei giri, trasformando il lavoro in un vero inferno.

Per quanto riguarda l’alloggio, Ivan non ha avuto alcun problema, ma solo perché si è subito fatto ospitare da parenti. Non sa come vivevano gli altri, perché al lavoro di tempo per chiacchierare non ne rimaneva. “Lavorare, dormire, lavorare, dormire” – questa era la giornata tipo. Stefan era stato collocato da un subappaltatore in un alloggio condiviso dove tutto era ‘normale’. All’inizio vivevano in due per camera, ma già dopo il primo mese hanno dovuto stringersi, arrivando ad abitare in otto una sola stanza, con una cucina e un bagno a disposizione.

Oggi Stefan vive in un’altra provincia tedesca, cerca un nuovo lavoro e studia tedesco. Ivan si è già sistemato – lavora come corriere. “Almeno non è freddo come nel mattatoio”, dice.

Un muro di silenzio

Il secondo articolo cita un rapporto stilato nel 2019 dal Ministero del lavoro nella Renania Settentrionale-Vestfalia, in cui si afferma come compiere ingenti sforzi fisici per lunghi periodi a una temperatura sotto i 12 gradi comporti seri danni alla salute. 30 stabilimenti di lavorazione della carne nella zona sono stati ispezionati proprio a causa di questo problema, e nell’85% dei casi sono state riscontrate gravi carenze. I media tedeschi hanno però iniziato solo adesso a rompere il silenzio che ha finora nascosto le scandalose condizioni di lavoro nei mattatoi del paese.

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https://www.eastjournal.net/archives/107793

Citazione
ROMANIA: I lavoratori sfruttati dalla mafia della carne
Francesco Magno 3 giorni ago

Negli ultimi giorni i media internazionali hanno dato risalto all’emergere di un nuovo importante focolaio di infezione da coronavirus in un grosso mattatoio di Gütersloh, cittadina tedesca della Renania settentrionale. Sono più di 1.500 i contagiati nella zona, per buona parte lavoratori nell’impianto appartenente al colosso della macellazione Tönnies, quasi tutti di nazionalità romena o bulgara. La diffusione della malattia ha portato alla ribalta dei temi per troppi anni taciuti, come le condizioni di lavoro dei cittadini est-europei all’interno dei mattatoi tedeschi, e il sistema criminale attraverso il quale essi sono reclutati e inviati in Germania. La giornalista di Deutsche Welle Alina Kuhnel sta portando avanti un’inchiesta internazionale tra la Romania e la Germania, che sta facendo emergere i lati più oscuri di quello che si profila sempre più come un vero e proprio traffico di esseri umani.

Il reclutamento

La Tönnies, come altre imprese del settore, da anni si avvale di società di intermediazione che hanno il compito di selezionare la forza lavoro direttamente in Romania e Bulgaria e di organizzare il trasferimento in Germania. Il flusso di lavoratori è aumentato in misura considerevole dopo il 2007, anno di ingresso dei due paesi nell’UE. In precedenza, erano soprattutto ungheresi e polacchi ad essere scelti; molti di loro si sono trasformati in intermediari dopo il 2007. Il reclutamento viene portato avanti nelle zone più disagiate e povere di Romania e Bulgaria, avvalendosi del sostegno di influenti politici locali che, secondo la Kuhnel, o sono spesso implicati tramite dei prestanome nella gestione delle società di intermediazione o ricevono delle tangenti commisurate ai lavoratori forniti.

Il salario non viene elargito dalla Tönnies , ma dagli intermediari, che dalla cifra pattuita inizialmente trattengono il denaro per il trasporto in Germania, per l’affitto mensile (dai 200 ai 300 euro al mese) e per le divise da lavoro (fino a 100 euro al mese). Ai lavoratori resta una cifra irrisoria, molto meno dei 9,35 euro l’ora di salario minimo stabilito dalla legge tedesca.

Le condizioni di vita e di lavoro

I lavoratori che raggiungono la Germania sono sottoposti a turni massacranti, senza alcun tipo di tutela. Uno di loro, un bulgaro di 58 anni ex dipendente della Tönnies, ha riferito al quotidiano Aachener Nachrichten di aver lavorato per 5 mesi nel mattatoio, sempre nel turno notturno – dalle 17.30 alle 4 del mattino – trasportando pezzi di carne da 20 kg in ambienti con temperature sempre al di sotto dei 12 gradi. Terminato il turno, gli impiegati tornano agli alloggi forniti dagli intermediari, spesso fatiscenti, angusti e sporchi: otto persone possono vivere all’interno dello stesso monolocale, condividendo un bagno e una cucina. Alcuni non resistono a lungo e tornano indietro dopo poche settimane; molti altri vengono licenziati prima della fine dei sei mesi di prova, in modo che l’azienda possa avvalersi della procedura di licenziamento rapido, che lascia il lavoratore del tutto privo di garanzie. Il governo regionale della Renania settentrionale era da tempo a conoscenza della situazione, come dimostra un rapporto prodotto nel 2019 in cui venivano denunciate le precarie condizioni di lavoro dei mattatoi; da allora, tuttavia, niente è cambiato.

Il risvolto giudiziario

Nel 2017 l’ambigua attività delle società di intermediazione è finita sotto la lente di ingrandimento della giustizia tedesca: la procura di Duisburg ha accusato di evasione fiscale diversi uomini di affari implicati nella gestione di queste società. L’inchiesta, partita da “mere” questioni tributarie, ha scoperchiato il sistema di abusi e malaffare legato all’industria della carne. Il processo si è concluso con diverse condanne, anche di molti romeni con legami in Germania impegnatisi per anni nel traffico di lavoratori. Uno di loro è riuscito a fuggire prima dell’arresto e a cambiare identità; in breve tempo l’Interpol ha scoperto il suo nascondiglio, ma non ha potuto arrestarlo, dal momento che il suddetto intermediario si era impiccato prima di cadere nelle mani della giustizia.

Speranze di cambiamento

Se il Covid-19 non si fosse diffuso con tanta velocità all’interno del mattatoio Tönnies difficilmente la vicenda sarebbe finita sotto i riflettori della stampa internazionale. Il mese scorso il ministro del lavoro romeno, Violeta Alexandru, si è recata a Berlino per discutere con il suo omologo tedesco di possibili cambiamenti legislativi. Tutti sono concordi sulla necessità di eliminare il sistema degli intermediari, dando all’azienda la piena responsabilità del pagamento dei salari e del rispetto delle condizioni di lavoro. Il miliardario Clemens Tönnies si è dichiarato disposto, suo malgrado, ad accettare possibili modifiche normative. Difficile credere, tuttavia, che un sistema di cui molti hanno approfittato per anni possa essere cancellato in breve tempo. Gli unici a patire, come sempre in questi casi, sono i lavoratori romeni e bulgari, molti dei quali si trovano adesso in quarantena nelle loro fatiscenti case tedesche, ambiente ideale per la trasmissione del contagio. Sebbene la normativa preveda che essi continuino a essere pagati integralmente anche durante la convalescenza, l’azienda ha comunicato loro che riceveranno soltanto il 60% della paga ordinaria.

Tutto questo non fa che aumentare il senso di frustrazione crescente di Romania e Bulgaria, i cui cittadini sentono sempre più spesso di essere europei di serie B.

Questo articolo è frutto di una collaborazione con OBCT.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #441 il: Luglio 05, 2020, 14:12:51 pm »
Ho visto un documentario di un'ora su quell'impianto trasmesso da Arte, con decine di lavoratori intervistati. Una zona ai limiti dela legalità in piena Germania, il "Paese più progredito d'Europa": sfruttamento, mancato rispetto delle norme, licenziamenti. Allucinante.

Per un curioso paradosso, in questo periodo in cui il lavoro arranca vivo grazie al sostegno di un rumeno, tale Sarolescu, che mi invia regolarmente generosi contributi.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #442 il: Luglio 05, 2020, 18:43:25 pm »
Ho visto un documentario di un'ora su quell'impianto trasmesso da Arte, con decine di lavoratori intervistati. Una zona ai limiti dela legalità in piena Germania, il "Paese più progredito d'Europa": sfruttamento, mancato rispetto delle norme, licenziamenti. Allucinante.

Per un curioso paradosso, in questo periodo in cui il lavoro arranca vivo grazie al sostegno di un rumeno, tale Sarolescu, che mi invia regolarmente generosi contributi.

Leggi qua.

https://www.investireoggi.it/forums/threads/corruzione-tedesca-la-germania-e-il-cuore-marcio-mafioso-delleuropa.93839/
Citazione
Corruzione tedesca: fatta la legge sono specializzati a trovare l'inganno
anzi penso che i politicanti crucchi facciano le leggi in modo che siano facilmente aggirabili
e tutto in segreto naturalmente

Die Anstalt e l'esportazione di armi tedesche (sub.ITA)
tontolina

I REGALI DI DEUTSCHE BANK: la strategia tedesca di crescita in Cina

Un’inchiesta della SEC, Security and Exchange Commission, Statunitense rivela la tattica di espansione di Deutsche Bank in Cina, basata essenzialmente su regali ai potenti ai maggiori funzionari di Partito ed assunzioni estremamente compiacenti. [sai la novità.... un po' di corruzione ... è la stessa cosa che ha fatto la Siemens in grecia e la Thyssenkrupp in Italia dove è stata condannata ma la sentenza non viene applicata in Germania]

La Banca fra il 2002 ed il 2014 ha allargato il proprio potere nel paese orientale attraverso doni e favori. Secondo documenti interni sono stati distribuiti doni di valore per un totale di oltre $ 200.000 a importanti funzionari di partito . Ad esempio l’allora leader comunista Jiang Zemin ha ricevuto in dono una tigre di cristallo per circa 15.000 dollari e un impianto stereo da Bang & Olufsen, mentre l’ex primo ministro Wen Jiabao venne omaggiato con un cavallo di cristallo del valore di circa $ 15.000 a completamento della sua collezione dello zodiaco cinese. La Banca ha poi assunto una persona di dubbia moralità, ma vicina allo stesso Premier Wen che ricevette 2 milioni di dollari come compensazione per l’acquisizione della Huaxia Bank, istituto di credito sotto il controllo dello stato.

La banca ha poi assunto più di cento figli di dirigenti di potenziali o esistenti partner , quasi tutte società pubbliche o a partecipazione pubblica, In questo modo nella banca sono entrati membri dell’élité comunista e degli alti quadri del Partito e di membri del Politburo. Ad esempio, le figlie di Wang Yang, prima leader comunista del Guandong e poi vice primo ministro, e di Li Zhanshu, numero tre del Partito ed interlocutore della Merkel a Pechino, hanno trovato un lavoro nella Banca tedesca.

In totale ci sono stati 19 casi di assunzioni nepotistiche collegati ad affari per 190 milioni di dollari che avrebbero potuto portare a sanzioni da parte della SEC per corruzione che, se scoperti per tempo, avrebbero potuto portare ad una sanzione fra gli 84 ed i 120 milioni da parte dell’organo di controllo americano. La fortuna vuole che le indagini interne, compiute da più studi legali, abbiano anche scoperto come queste attività siano ormai andate in prescrizione.
Però da un lato si evidenza come sia BaFin, l’autorità di controllo tedesca, sia la BCE, evidentemente “C’avevano Judo” in quel periodo, e d’altro canto mostrano come molte aziende tedesche si siano rapidamente espanse in Cina: a suon di regali e di nepotismo.

https://www.panorama.it/economia/tedeschi-mazzettari-incalliti

https://www.truenumbers.it/corruzione-germania-dati/

https://www.firstonline.info/corporate-germania-i-grandi-scandali-che-hanno-scosso-lestablishment-tedesco-prima-di-vw/

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Corporate Germania: i grandi scandali che hanno scosso l’establishment tedesco prima di Vw
24 Settembre 2015, 5:20 | di FIRSTonline | 0

Lo scandalo delle emissioni truccate della Volkswagen sta scuotendo fortemente la Corporate Germania ma non è la prima volta che la casa automobilistica finisce sotto accusa e altri grandi nomi del business tedesco sono finiti sul banco degli imputati: da Deutsche Post a Deutsche Bank, da Bayer a Lufthansa fino alla Siemens

Corporate Germania: i grandi scandali che hanno scosso l’establishment tedesco prima di Vw
Lo scandalo delle emissioni truccate dalle Volkswagen è terribile ma è solo l’ultimo di una lunga serie che negli ultimi dieci anni ha fortemente incrinato l’immagine e la credibilità della casa autobilistica tedesca ma anche dei più grandi nomi della Corporate Germania. Dalla frode fiscale allo spionaggio e alla corruzione, molti grandi gruppi tedeschi ne hanno fatte di tutti i colori. Ecco quali

VOLKSWAGEN

La casa automoblistica di Wolfsburg ha già attraversato momenti difficili come ai tempi dello scandalo dei manager di circa dieci anni fa. Un vero e proprio caso di corruzione in cui i manager Volkswagen offrivano ad alcuni membri sindacalisti presenti nel cda del gruppo denaro e escort in cambio di voti all’interno dello stesso consiglio.

SIEMENS

Salatissimo il conto da pagare per Siemens per le attività di corruzione per aggiudicarsi appalti in tutto il mondo: 1,5 miliardi di euro. Lo scandalo corruzione in Siemens, emerso nel 2006, ha portato il colosso tedesco a dover sborsare 600 milioni alle autorità tedesche, 800 milioni alle autorità americane e altri 100 milioni a organizzazioni internazionali non profit che combattono la corruzione negli affari.

DEUTSCHE POST

Nel 2008 l’amministratore delegato di Deutsche Post, Klaus Zumwinkel si dimette dopo essere finito sotto inchiesta per frode fiscale per aver trasferito 10 milioni di euro in Liechtenstein.

DEUTSCHE BANK

Per una delle più grandi e importanti banche di Germania due pesantissimi scandali nel giro di pochi anni: nel dicembre 2012 arriva l’accusa di frode fiscale in relazione alla certificazione delle emissioni di carbonio, noto anche come scandalo CO2. A questo si aggiunge anche lo scandalo Libor e cioè il caso legato alla manipolazioni del tasso Libor e di altri benchmark di riferimento per il mercato interbancario per cui dovrà pagare un totale di 2,5 miliardi di dollari di ammenda alle autorità statunitensi e britannica.

BAYER

Il gruppo farmaceutico tedesco è spesso alle prese con cause miliardarie come quella in corso negli Stati Uniti dove sono in ballo 5,6 miliardi di dollari. Nel 2014 sempre negli Usa Bayer ha già sborsato 1,9 miliardi di dollari di indennizzi alle vittime del drospirenone, farmaco presente nelle pillole contraccettive.

LUFTHANSA

Negli anni passati era emerso che i dirigenti della compagnia aerea tedesca controllassero alcuni lavoratori dell’azienda spiandoli nella propria vita privata. A questo si aggiunge anche il disastro Germanwings del volo della compagnia aerea low cost di casa Lufthansa che si schiantò sulle Alpi francesi a causa di un gesto folle da parte del copilota.


Il bello, però, è che un oceano di italiani è realmente convinto che quel paese sia immune dalla corruzione...

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #443 il: Luglio 05, 2020, 21:47:22 pm »
Pazzesco. Sapevo di Volkswagen e della speculazione finanziaria ma non ero al corrente di tutto ciò. Credo che la globalizzazione abbia enormemente accentuato questi fenomeni.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #444 il: Luglio 06, 2020, 00:23:58 am »
Comunque, tornando ai paesi dell' est, di recente mi è toccato nuovamente di sentire una rumena 38enne (residente in Italia dal 2002) di Galati, che intonava un peana alla società comunista...  :sick: :doh:
Ovviamente le ho fatto notare che la summenzionata società non era affatto 'sto paradiso terrestre...
Questa gente è veramente incredibile, nega pure l'evidenza.
Per dire, questo è ciò che accadeva in Romania ai tempi del comunismo.

Citazione
ROMANIA
Proibito piangere
di Rossella Simone

Grazie a Elena Ceausescu, moglie del conducator Nicolae, in Romania soffia un
ponentino a favore dell'emancipazione della donna. Donne ai vertici delle industrie,
capo-fabbrica, docenti all'Università, in carriera politica. In effetti Elena Ceausescu,
69 anni, laureata in chimica nel 1976, quando era già first lady, si fregia di ben 26
titoli accademici acquisiti a tempo record.
Nella vita lavorativa la donna rumena è equiparata in tutto all'uomo. L'orario di lavoro
è di quarantasei ore e gli operai e operaie sono portate sui posti di lavoro in fabbrica
o nei campi con un camioncino malandato che li va a riprendere anche dopo quattro o
cinque giorni.
I giorni di festa e le domeniche sul calendario non sono segnati in rosso.
Alla sera, quando è possibile, marito e moglie si ritrovano nella penombra - è consentita
solo una lampadina da 45 watt per casa - e preparano insieme la cena. Cavoli e pomodori.
Non c'è gas per bollire un uovo e poi nelle città un uovo non lo si trova nemmeno.
I termosifoni non raggiungono i dieci gradi e l'energia viene erogata casualmente per poche
ore al giorno. In una notte di meno dieci gradi nell'inverno del 1985, la professoressa di
statistica Gabriela Cressi e suo marito Grigore Hagiu, popolare poeta, si sono addormentati
vicino al fuoco. Durante il sonno il gas è mancato e poi ha ripreso a uscire. Non si sono più
svegliati. Molti sono i divorzi causati dai disagi del vivere quotidiano e poi non si riesce a
mettere qualcosa sotto i denti nemmeno con due stipendi. I più fortunati hanno i genitori
oppure i suoceri che verso le tre di notte, escono di casa con la loro inseparabile bisaccia,
per trovare qualcosa da mangiare.
La politica economica di Ceausescu ha infatti ridotto il paese alla fame. Tutta la produzione
economica della Romania, che è una immensa distesa di campi coltivati e di pascoli, sparisce
per l'esportazione o per le tavole della nomenklatura - più di centoventi sono i parenti della
famiglia del conducator nei posti di potere - oppure viene venduta a prezzi esorbitanti
al mercato nero. Le donne più anziane con  i bambini più piccoli rimangono in coda per ore,
pazienti, lavorando all'uncinetto. Le più giovani con discrezione si avvicinano ai turisti per
pagare con i loro leva, la moneta rumena, caffè, scatolette di carne, qualcosa da mangiare
per i loro figli. In silenzio perché parlare con uno straniero è vietato e la securitate, la
polizia politica di stato, sorveglia su tutto.
Ma, Se è proibito piangere, come dice il titolo di un libro della rumena Maria Mailat da due
anni esule in Francia, le donne non perdono la speranza e la voglia di lottare.
Molte tentano di scappare verso il campo di Debrecen in Ungheria attraverso interminabili
paludi, altre verso la Iugoslavia a nuoto sul Danubio.
Molte ce la fanno, altre come Vasilica Bruta e Emilia Popescu vengono catturate dalle guardie
di frontiera, picchiate e spedite per almeno un anno e mezzo nella prigione di Oradea.
Nel campo di Padinska Skela, vicino a Belgrado, è arrivato in agosto un rumeno disperato.
La moglie era stata uccisa di notte mentre a nuoto cercavano di raggiungere la riva iugoslava
di Kladovo. La Militia spara a tutto quello che si muove. Molte donne invece combattono
in patria per i loro diritti ma Ceausescu non ama le critiche. La moglie di Dimitru Mircescu che
insieme al marito chiedeva il rispetto dei diritti dell'uomo, è morta lanciata da una finestra di
casa sua dalla polizia, nell'ottobre del 1986. Dimitru è internato da due anni in un ospedale psichiatrico e di lui non si sa più nulla.
Doina Cornea, insegnante di francese all'Università di Cluj, è diventata nel 1982 la figura
emblematica dell'opposizione al regime. Nell'agosto 1988 ha indirizzato una lettera aperta,
firmata da altre 28 persone tra cui nove donne, a Ceausescu, per protestare contro la
"sistematizzazione territoriale" varata all'inizio dell'anno.
Tale piano prevede la distruzione di più di metà dei 13mila villaggi rumeni e il trasporto
forzato dei loro abitanti in 558 "centri agroindustriali", casermoni fatiscenti di cemento,
addossati alle città, con la cucina in comune e il cesso in cortile.
Tutto questo sradicamento per recuperare il tre per cento di terreno agricolo, per alzare
l'indice di urbanizzazione e soprattutto per assimilare le minoranze magiare, tedesche, slave
e zingare "all'uomo nuovo rumeno con una unica nazionalità".
Da allora Dorina Cornea ha perso il lavoro, è agli arresti domiciliari, il suo telefono è isolato,
la corrispondenza intercettata, non può ricevere visite. Sotto la sua casa stazionano agenti
della securitate. Ma, con ostentato orgoglio la rivista ufficiale Femeia - la donna -
continua a mostrare donne e bambini che appaudono Ceausescu, "artefice della grandiosa
epoca in cui viviamo".


Citazione
ABORTO
ASSOLUTAMENTE VIETATO

Nel 1966 Ceausescu ha lanciato una campagna per l'aumento demografico secondo
cui ogni famiglia deve avere almeno cinque figli. Per questo in quell'anno sono stati
vietati tutti i contraccettivi. La prima domanda alla frontiera infatti è:"armi, munizioni,
preservativi?". E' stata introdotta nelle scuole e nelle fabbriche una visita ginecologica
obbligatoria e senza preavviso per tutte le donne dai 14 anni in avanti, alla presenza
del dottore e del maestro dello sport. L'aborto assolutamente vietato. La pena per il
medico che lo praticava era 10 anni di prigione. E così dalle 273.687 nascite del 1966
si è passati alle 527.764 del 1967. Quasi il doppio, un grande successo del regime.
Le statistiche però nascondevano il tasso di mortalità infantile in quegli anni.
83 morti per stenti e malnutrizione su mille nati, come in Cambogia.
Nel 1984 il regime ha rafforzato le pene per i medici che aiutano le donne ad abortire.
25 anni di prigione e, se recidivi, anche la pena di morte.
E se una donna arriva all'ospedale a causa di un aborto spontaneo, il medico non può
intervenire se non in presenza di un funzionario statale che autorizzi il suo operato.
Di sovente però questo ritarda ad arrivare e la donna muore senza nessuna assistenza.
Ciò nonostante le donne continuano ad abortire. Le statistiche non ufficiali raccontano che
ogni anno ci sono 1311 interruzioni di gravidanze note per mille nati vivi.

Ma il bello è che stavano talmente bene da decidersi di andarsene dal proprio paese...
Son veramente l'esatto contrario degli italiani, che invece i peana li intonano a tutto ciò che italiano non è!
Poi, ovviamente, esistono pure delle (rarissime) eccezioni, tipo un albanese di mia conoscenza, che anni fa si prese di petto un moldavo che stava magnificando il comunismo...
Ricordo che gli disse anche di star zitto e di raccontare meno cazzate, perché lui "si ricordava bene di cosa era stata realmente la società comunista".
Di povertà ce n'era a palate... per non parlare di tutto il resto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #445 il: Luglio 06, 2020, 01:36:59 am »
Il rumeno che mi ha rifatto le tubature (è un artista, devo riconoscerlo) ha anche lui decantato il comunismo in Romania: nel frattempo ha cambiato due macchine (senza contare i furgoni) e si è comprato una casa faraonica da cui è scappata anche la 2° moglie (rumena anche lei). Mica male per un comunista...

Se penso ai milioni di aborti (sei milioni di italiani sterminati), oggi praticati anche al 9° mese o addirittura dopo la nascita (tralascio i particolari agghiaccianti), Ceausescu ci fa la figura di un paladino dei diritti umani.
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #446 il: Luglio 09, 2020, 01:29:55 am »
https://www.eastjournal.net/archives/107982

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SERBIA: Proteste e scontri dopo l’annuncio di nuove restrizioni
Milena Nuferosic 9 ore ago

È stata una notte di proteste e scontri a Belgrado, dopo che circa 5mila cittadini si sono riuniti spontaneamente davanti al parlamento in seguito all’annuncio del presidente serbo Aleksandar Vucic di introdurre nuove restrizioni contro la pandemia. La tensione è salita dopo che alcuni manifestanti hanno provato a irrompere nel parlamento. La polizia ha risposto con cariche e fumogeni, provocando ulteriormente l’ira dei tanti giovani che hanno occupato l’intera zona intorno all’assemblea, dove sono stati dati alle fiamme diversi veicoli della polizia ed è continuato un fitto lancio d’oggetti fino a tarda notte. Sono stati riportati diversi casi di azioni violente e brutali da parte delle forze armate, anche se al momento non si hanno stime su arresti e feriti. A riportare tutta la notte in collegamento in diretta un’equipe della tv indipendente N1, prima a giungere sul posto, mentre i 3 canali di RTS – la TV di stato – trasmettevano programmi di intrattenimento.

Restrizioni contro gli assembramenti, sia all’aperto che al chiuso, e un coprifuoco a partire dalle 18 di venerdì fino alle 5 di lunedì prossimo. Sono queste le principali misure annunciate martedì alle 18 dal presidente Vucic in una conferenza stampa in cui ha condannato il senso di irresponsabilità delle persone per l’emergenza sanitaria. La conferenza stampa – in cui il presidente è sembrato visibilmente provato – ha scatenato l’insoddisfazione di migliaia di cittadini. I numeri del contagio da COVID-19, infatti, sono ripresi a salire nelle ultime due settimane, in particolare nella regione meridionale del Sangiaccato, dove si concentrano i peggiori focolai e dove gli ospedali sono ormai al collasso.

Lo scarso equipaggiamento delle strutture sanitarie e la manipolazione delle informazioni relativamente al numero di contagiati, così come sul numero di respiratori a disposizione, avrebbero contribuito alla rabbia dei cittadini. Il lockdown in Serbia, con lunghissimi coprifuoco e rigorose limitazioni alla libertà di movimento, era durato da metà marzo fino a inizio maggio. Il governo aveva quindi rimosso le misure di contenimento fino al ripristino totale della normalità, con tanto di stadio pieno per il derby di Belgrado, a cui hanno assistito oltre 25mila persone, risultando il più grande assembramento in Europa dalla fine del lockdown. In molti accusano Vucic di aver voluto dare un’apparenza di normalità in vista delle parlamentari del 21 giugno, quando ha trionfato con oltre il 63% dei voti il suo Partito Progressista Serbo. L’indomani delle elezioni – in cui hanno superato lo sbarramento del 3% solo altri 2 partiti (uno di questi sono i socialisti alleati di governo) – il portale BIRN ha pubblicato un’inchiesta secondo cui le autorità hanno mentito sui dati dell’epidemia, nascondendo i numeri dei morti, che sarebbero tre volte più alti di quelli dichiarati.

La conferenza di Vucic di ieri è stata quindi la goccia che ha scatenato l’insoddisfazione. I cittadini non accettano di essere ritenuti responsabili da un governo accusato di aver manipolato l’informazione e di aver voluto solo portare gli elettori ai seggi (sfidando anche il boicottaggio delle opposizioni). Alcuni ritengono che gli stessi festeggiamenti nella sede di SNS nella notte elettorale del 21 giugno, con tanto di balli tradizionali e nessun distanziamento sociale, siano la dimostrazione delle gravi responsabilità di Vucic e di tutta la classe dirigente nella gestione della pandemia. Anche il ministro della Difesa, Aleksandar Vulin, il capo dell’ufficio per il Kosovo, Marko Djuric, e la presidente del parlamento, Maja Gojkovic, sono risultati positivi al coronavirus successivamente alla festa alla sede del partito.

Mentre la premier Ana Brnabic a notte inoltrata ha dichiarato che lo stato difenderà la legalità, tutto lascia credere che le proteste continueranno nei prossimi giorni e che in molti non vorranno rispettare il coprifuoco imposto per il fine settimana. Al 7 luglio la Serbia registra oltre 16mila casi di contagio e 330 morti.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #447 il: Luglio 09, 2020, 01:37:30 am »
https://www.eastjournal.net/archives/107502

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SERBIA: Nuova alluvione, nuove polemiche?
Pietro Aleotti 2 settimane ago

La Serbia è stata flagellata, martedì scorso, da piogge torrenziali che hanno coinvolto soprattutto la parte centro-occidentale del paese, al confine con la Bosnia Erzegovina che, pure, lamenta numerosi allagamenti. Le piogge hanno provocato lo straripamento dei corsi d’acqua e il conseguente alluvionamento di vaste aree del settore interessato: una decina di municipalità in Serbia, due in Bosnia. Particolarmente colpite sono state Zvornik, in Bosnia, Ivanjica, Ljubovija, Loznica, Krupanj, Osecina, Lucani, Kraljevo e Guca, in Serbia.


Non si contano, ad oggi, vittime tra gli abitanti (solo un ferito grave a Kraljevo), ma è già possibile stimare che i danni siano molto ingenti: l’interruzione di strade e ferrovie ha provocato l’isolamento di molti centri, a Ljubovija sono crollati tre ponti mentre sono centinaia le case sommerse. A Kraljevo, dove ad esondare è stato il fiume Ibar, due ristoranti sono stati trascinati dalla forza della corrente. Vista la situazione le autorità locali hanno proclamato lo stato di emergenza e messo sotto osservazione speciale anche il Danubio e la Sava.


La polemica dietro l’angolo…

Ancora in piena emergenza si intravedono già le argomentazioni polemiche che accenderanno la discussione politica delle prossime settimane: dopo la devastante alluvione che coinvolse la Serbia (e non solo) nel 2014, le autorità hanno speso quasi 80 milioni di euro nella realizzazione e nella manutenzione delle opere di difesa, inclusa la costruzione di diverse protezioni fluviali.

Di questi, nel quinquennio tra il 2014 e il 2019, ben 4,4 milioni di euro sono stati destinati proprio ai comuni finiti sott’acqua in questi giorni. In particolare, Ljubovija e Osecina hanno ricevuto, ciascuna, una cifra vicina al milione di euro per la ristrutturazione di ponti, argini e dighe.

Se siano tanti o pochi e, soprattutto, se siano stati spesi bene è difficile dirlo. Da una parte, infatti, resta l’osservazione inconfutabile che, secondo quanto dichiarato dal primo cittadino, Milovan Kovacevic, a Ljubovija alcuni argini avrebbero ceduto sotto la pressione delle acque del torrente Ljubovida, lasciando intendere che qualcosa sia “andato storto”. D’altra, va detto che i 210 millimetri di pioggia che secondo il primo ministro serbo, Ana Brnabic, sarebbero stati segnali in alcune zone del paese rappresentano, da soli, quasi un terzo delle precipitazioni mediamente registrate in Serbia nell’arco di un anno. E che i 60 millimetri, circa, misurati lo scorso martedì nei dintorni di Ljubovida sono, secondo i dati del Servizio Idrometereologico Nazionale, le piogge normalmente attese per tutto il mese di giugno, storicamente il più piovoso dell’anno.

Il territorio fragile

La Serbia e più in generale l’intera regione si conferma un’area fortemente predisposta a questi accadimenti e, soprattutto, un’area dal tessuto urbano e infrastrutturale assai fragile e, conseguentemente, ad alto rischio. Un anno fa, a inizio giugno 2019, un evento simile riguardò un’area per larga parte sovrapponibile a quella coinvolta oggi con un bilancio molto pesante in termini di danni: decine di strade danneggiate, cinquanta ponti crollati o danneggiati, migliaia di ettari di terreni agricoli inondati e nove comuni posti in stato d’emergenza.

Nella memoria collettiva, tuttavia, è l’alluvione del maggio del 2014 a rimanere maggiormente impressa, per estensione (quasi tutti i Balcani coinvolti) e danni. In quei giorni le piogge più intense degli ultimi 120 anni lasciarono uno strascico a dir poco drammatico: oltre 60 morti – la Bosnia a pagare lo scotto più caro, con 30 vittime – 30 mila evacuati e danni stimati per 3,5 miliardi di euro, congiuntamente tra Serbia e Bosnia. Un episodio talmente violento, esteso e trasversale da far dimenticare, una volta tanto, le ataviche rivalità regionali, facendo prevale la cooperazione e la solidarietà transnazionale anche tra Croazia, Serbia e Bosnia.

Fortunatamente le inondazioni di martedì scorso non hanno avuto né quella magnitudo né quelle conseguenze. Solo a bocce ferme, tuttavia, si potrà fare una stima più precisa e mettere mano ai necessari interventi di ripristino della normalità. Dovendo, tra l’altro, fare i conti con la crisi pandemica in atto che ha visto, proprio nell’ultimo periodo, una nuova recrudescenza in tutta la Serbia.

@@


Citazione
a Ljubovija sono crollati tre ponti

Citazione
Un anno fa, a inizio giugno 2019, un evento simile riguardò un’area per larga parte sovrapponibile a quella coinvolta oggi con un bilancio molto pesante in termini di danni: decine di strade danneggiate, cinquanta ponti crollati o danneggiati,

Ma i ponti non crollavano "solo in Italia" ?
(Italiano medio docet)

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #448 il: Luglio 09, 2020, 01:40:20 am »
https://www.eastjournal.net/archives/107933

Citazione
RUSSIA: Una nube radioattiva solca i cieli del nord Europa
Gianmarco Riva 5 ore ago


Qualche giorno fa, una misteriosa nube radioattiva è stata scoperta solcare i cieli della penisola scandinava e dell’Artico europeo. Secondo quanto messo in evidenza dagli esperti, l’origine di tale fenomeno potrebbe trovarsi in Russia.

L’origine del problema…

Tutto ha inizio tra il 2 e l’8 giugno, quando il DSA (l’organo norvegese per il controllo delle radiazioni nucleari) avverte che insolite quantità di iodio radioattivo sono state rilevate dalle due stazioni meteorologiche di Svanhovd e Viksjøfjel, a poca distanza dal confine che separa la Norvegia dalla penisola di Kola, in Russia. Circa una decina di giorni dopo, tra il 16 e il 17 giugno, le autorità svedesi comunicano la scoperta di altri isotopi, simili ai primi. Questa volta la segnalazione proviene dalle due stazioni CTBTO – la rete globale di monitoraggio radiologico e sistemico – delle isole Svalbard e dell’area di Kirkness. La CTBTO non è stata l’unica stazione di monitoraggio ad aver registrato livelli anomali di materiale nucleare nell’aria. Nello stesso periodo di giugno, anche le autorità di radioprotezione e sicurezza nucleare di Svezia, Finlandia e Paesi Bassi hanno riscontrato la stessa anomala presenza.

…probabilmente un reattore in Russia

Gli isotopi rilevati indicano che il loro rilascio proviene probabilmente da un reattore nucleare. Questa ipotesi viene avvallata anche da Rashid Alimov, noto attivista di Greenpeace Russia. In una comunicazione al Barents Observer, Alimov ha sottolineato come la composizione di questi isotopi sia indicativa della loro possibile sorgente, ovvero un elemento di combustibile esaurito da un reattore. Alcuni ritengono che possa trattarsi di un incidente avvenuto all’interno di una centrale nucleare. Nonostante le diffuse preoccupazioni, l’agenzia governativa svedese ha rassicurato l’opinione pubblica sottolineando che il livello delle emissioni radioattive non costituisce un pericolo, né per la salute dell’uomo né per quella ambientale.

L’Istituto nazionale olandese per la sanità pubblica e l’ambiente (RIVM) ha analizzato i dati forniti dalle autorità scandinave, concludendo che i radionuclidi rilevati potrebbero provenire dalla Russia occidentale: un’area in cui, di fatto, si trovano diversi impianti nucleari, tutti attualmente attivi. Tra questi, si ricorda quello di Leningrad, situato nei pressi di San Pietroburgo, sulla sponda meridionale del Golfo di Finlandia. A porre l’attenzione su questa centrale sono i quattro reattori di cui è composta: tutti di stampo sovietico e simili a quelli della famosa centrale di Chernobyl. Inoltre, vi sono centrali civili operative anche in prossimità delle città di Smolensk, di Tver e di Murmansk.

Un’ipotesi da confermare

Citando un portavoce di Rosenergoatom (la filiale della centrale elettrica del gruppo nucleare statale Rosatom), l’agenzia di stampa russa TASS ha riferito che le due centrali situate nella regione nord-occidentale del paese non avevano segnalato alcun problema; non erano quindi responsabili delle radiazioni rilevate la settimana precedente. Sia lo stabilimento di Leningrad che quello di Kola vicino a Murmansk “funzionano normalmente, con livelli di radiazione all’interno della norma”. Rospotrebnadzor (il servizio federale russo per la sorveglianza e la protezione dei diritti dei consumatori) ha dichiarato di aver misurato i livelli di radiazione in seguito al rapporto della CTBTO e che tutte le misurazioni indicavano stabilità. Anche il portavoce del Cremlino, Dimitrij Peskov, ha affermato che il “moderno sistema di monitoraggio della sicurezza delle radiazioni” della Russia non ha registrato “situazioni o emergenze minacciose”.

Stando a quanto riportato dal RIVM, si ritiene che le due centrali di Leningrad e Kola possano essere coinvolte nell’incidente poiché situate nell’area interessata. Al momento, però, non vi sono prove certe che possano determinare l’origine esatta della nube radioattiva, e quindi che la colpa sia da attribuirsi alle centrali elettriche russe. Tuttavia, la Russia ha una lunga storia di verità nascoste quando si tratta di questioni nucleari.

Nel 2017, una misteriosa nube radioattiva attraversò i cieli dell’Eurasia. Anche in quel caso molte agenzie avevano concluso che si potesse trattare di un incidente nucleare, o quantomeno di un malfunzionamento di qualche centrale, avvenuto in Russia. Al tempo Mosca negò dapprima l’esistenza della nube, per poi cambiare posizione e prendere atto del problema, senza però rendersene responsabile. Un altro esempio è quello dell’agosto dell’anno scorso, quando un incidente nucleare in una struttura missilistica aveva ucciso sette persone e rilasciato nell’aria materiale radioattivo. Anche in quel contesto, Mosca non aveva riconosciuto pubblicamente l’incidente per due giorni. Forse, anche quest’ultimo sarà l’ennesimo evento di cui non sapremo mai la vera causa.

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« Risposta #449 il: Luglio 09, 2020, 01:45:31 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Metodo-Srebrenica-203344

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Metodo Srebrenica è uno sconvolgente romanzo documentario edito da Bottega Errante in cui il suo autore, Ivica Đikić, non intende spiegare perché è successo il genocidio di Srebrenica ma come è successo. Recensione

08/07/2020 -  Veronica Tosetti
Come ogni anniversario segna il progressivo allontanamento da quanto accaduto, così contribuisce alla formazione della distanza prospettica della storia. Ivica Đikić, giornalista e scrittore croato nato a Tomislavgrad, non ha preso in considerazione l’idea di scrivere di Srebrenica fino al 2005, dopo il decimo anniversario del massacro di Srebrenica, avvenuto tra l’11 e il 17 luglio 1995 in Bosnia Erzegovina. Prima per lui Srebrenica era solo “uno dei toponimi dei misfatti balcanici, di quei toponimi che si ricordano spesso, perché sono diventati luoghi comuni”.

E' servito l’incontro con il giornalista sarajevese Emir Suljagić ad avvicinarlo alle vicende di quell’indicibile orrore e soprattutto alla figura di Ljubiša Beara, il colonnello condannato nel 2002 dal Tribunale dell’Aja in quanto diretto responsabile e artefice dell’intera operazione. Đikić ha poi impiegato circa 10 anni per portare a compimento il suo libro su Srebrenica, partendo dalla convinzione di realizzare un romanzo e poi allontanandosi da quell’idea sempre di più.

Copertina
La copertina di Metodo Srebrenica
Come si fa ad organizzare l'uccisione di 8.000 uomini? Questo romanzo documentario non ci illustra il perché è successo, ma il come è successo. Proprio attraverso il racconto delle modalità pratiche ci fa entrare nelle pieghe umane e mostruose di questo tragico episodio della storia recente europea. Il genocidio di Srebrenica è stata un'operazione razionale e pianificata, coordinata e organizzata dal colonnello Beara. In questo libro Đikić, oltre a seguire ogni movimento di Beara durante quei tre giorni e tre notti del luglio 1995, narra la sua vita prima e durante la guerra, con elementi che collocano la storia principale nel più ampio contesto delle circostanze politiche e sociali dell'epoca.

Vai al sito di Bottega Errante

"Sapevo di dover tentare di capire, benché si trattasse di cose incomprensibili, di dover cercare di penetrare nel cuore del misfatto, fino alle motivazioni di coloro che avevano ordinato ed eseguito le uccisioni: questo era il presupposto per poter scrivere qualcosa di minimamente credibile e autentico”, si legge nel lungo e importante prologo che apre il libro. Per rispetto di quanto è accaduto dunque - e per il principio per cui è impossibile parlare di ciò che non si conosce -, l’unica soluzione possibile è stata abbracciare il rigore della ricostruzione storica, delle voci, dei nomi, dei fatti: Đikić dà alle stampe Beara nel 2016, a poca distanza dal ventesimo anniversario del genocidio e nel 2020 arriva finalmente in Italia con il titolo Metodo Srebrenica (grazie alla traduzione di Silvio Ferrari e a Bottega Errante Edizioni). Come suggerisce il titolo originale dell’opera, l’autore decide di concentrarsi sulla figura del colonnello, incaricato formalmente dal generale Ratko Mladić di eliminare tutti i civili maschi e adulti (ma non soltanto) di religione musulmana nella zona circostante l’enclave formalmente protetta dall’ONU di Srebrenica.

Di Beara, il lettore scopre ogni dettaglio: nato a Sarajevo e poi cresciuto a Spalato, fa carriera nella Marina dell’Armata Popolare Jugoslava (JNA) fino a diventare capo di vascello; nel 1991, quando la JNA comincia ad assolvere gli interessi dei serbi e non più dell’intera popolazione jugoslava, Beara farà trasferire la famiglia a Belgrado per poter affiancare il generale Aleksandar Vasiljević, assumendo il ruolo di colonnello. Al colonnello Beara viene dunque affidato il compito finale, risolutivo, all’interno del contesto di una guerra di sfinimento che i serbi stavano infliggendo ai bosgnacchi, i “turchi” sul territorio della valle della Drina. Srebrenica, Bratunac e Kravica, sono le località più importanti teatro di questi giochi strategici, luoghi entro i confini della Bosnia in cui resistono numerosissimi musulmani. Il compito è di effettuare una vera e propria pulizia etnica. E quello che accade non sarà reso noto agli occhi del resto del mondo fino a una settimana dopo, a genocidio ultimato. Sono oltre 8mila i civili uccisi. Al lettore non viene tralasciato nessun dettaglio, nessun nome. Si scopre che quello che accadde a Srebrenica è lasciato esclusivamente nelle mani di quest’uomo che con perizia e freddezza riesce a portare a compimento praticamente da solo un’operazione che non era nemmeno stata pianificata dalle alte sfere del corpo militare.

Il Beara raccontato da Đikić non può essere un Limonov, se si volesse tracciare un parallelismo con un altro grande romanzo di non-fiction, perché è un personaggio senza volto e senza corpo. Più che una persona appare come un’intenzione. Ogni tanto emergono dei dettagli che lo contestualizzano nello spazio: quando affronta Miroslav Deronjić, il sindaco di Bratunac su uno dei ponti cittadini dove scorre la Drina, per negoziare l’uccisione di migliaia di uomini presso l’ex mattonificio, o quando esausto si lascia andare all’alcool. Si scopre poi un fatale errore militare che rischia di offuscare la sua carriera e il suo più grande desiderio, ovvero di compiacere il generale Ratko Mladić.

Ma Metodo Srebrenica non corrisponde nemmeno a La banalità del male della soluzione definitiva jugoslava. Non c'è la pretesa di arrivare alle origini del male o di capirlo, ma piuttosto di destrutturarlo ai suoi minimi termini, fin nella più esile delle sue azioni. La dichiarazione di intenti di Đikić è chiara: “Un procedimento del genere – cioè lo smontaggio e la riduzione ai fattori elementari, con la confusa speranza di riuscire ad avvicinarci alle motivazioni del misfatto – può essere vissuto e qualificato come una razionalizzazione del delitto – in questo caso del genocidio – o addirittura come qualcosa di più maligno della razionalizzazione?”

Inquadrare questo libro non è semplice: saggio, romanzo documentario, non-fiction? Pur sviscerando gli eventi con precisione scientifica, la definizione romanzo non può che essere comunque quella più corretta. La struttura rimane un elemento essenziale: non solo nella parte centrale dove avviene la ricostruzione di quei giorni e di alcuni episodi delle guerre della ex-Jugoslavia cruciali per questo avvenimento, ma anche le parti di prologo, post-scriptum ed epilogo. Senza la voce di Đikić che accompagna il lettore nel difficile processo di scrittura, nei dilemmi di forma che hanno accompagnato il suo intento, questo romanzo non sarebbe tale. Pur esponendo con grande onestà i suoi obiettivi e i limiti incontrati, durante la ricostruzione il narratore rimane completamente esterno, mostrando la quasi onniscienza della materia trattata. La voce di Đikić interviene in pochi, essenziali passaggi quando è inevitabile farlo. Anche per questo siamo lontani dallo stile di Limonov di Carrère, il ritratto di un personaggio “plus grand que la vie”, nel bene e nel male, reso tale anche dallo sfoggio di talento del suo autore.

Solo alla fine, con il post-scriptum, il lettore è in grado di liberarsi di tutta la tensione, abilmente costruita dall’autore in un’escalation di orrore, regalando un racconto in coda all’impietoso resoconto, millimetrico, chirurgico, senza scampo. La chiosa narrativa mette in scena alcuni personaggi che ricordano chiaramente quelli di Cirkus Columbia, (dello stesso autore e sempre edito da Bottega Errante Edizioni), un testo intenso e doloroso. Anche in quest'ultimo Đikić offre una storia senza assoluzione: due bosniaci emigrati in Canada come tanti altri, appartenenti alla diaspora jugoslava, in un ipotetico presente post-Srebrenica.