Autore Topic: La realtà dei paesi dell'Europa dell'est  (Letto 78085 volte)

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #540 il: Giugno 24, 2023, 12:45:29 pm »
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La fuga delle ragazze del Caucaso del Nord
Meglio tacere, potrei essere frainteso.
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un bellissimo racconto autobiografico di Irina Dumitrescu sulla sua difficoltà, lei figlia della diaspora romena in Canada, di esprimersi nella sua lingua madre
Ma cosa rompe, se vuole parlare rumeno perché non torna in Romania tra i suoi amati cubi di cemento e le sonde petrolifere?
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Giunti in Italia nei primi anni Novanta, mia madre e mio padre subirono l’illusione della superiorità culturale, e quindi linguistica del paese ospitante.
Sicura che sia un'illusione? L'unica cosa che mi dispiace davvero è che tra pochi decenni non ci saranno più italiani. Colpa della congiuntura, delle leggi di tante cose ma alla fine a decretare l'estinzione di questo Paese sono state le donne
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Ogni anno in Armenia nascono dozzine di bambini con l'aiuto di una madre surrogata.
Stiamo facendo di tutto per imitarli
« Ultima modifica: Giugno 24, 2023, 13:37:53 pm da Vicus »
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #541 il: Agosto 14, 2023, 19:21:10 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Vittime-contro-vittime-25-anni-dopo-a-Prijedor-226626

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Vittime contro vittime, 25 anni dopo a Prijedor

Vittime contro vittime, dolore contro dolore. Una prassi consolidata nelle guerre di dissoluzione della Jugoslavia, riproposta di recente con la commemorazione a Prijedor delle vittime serbe dell’operazione Oluja. Commento

10/08/2023 -  Massimo Moratti
Era il gennaio del 1998. A quel tempo i villaggi bosgnacchi attorno a Prijedor, la cittadina della Republika Srpska dove lavoravo per l’OSCE, erano dei luoghi fantasma. Cumuli e cumuli di macerie che spesso occupavano anche le poche strade ancora agibili, dove non era infrequente trovare dei resti umani appena si iniziava a rimuove le macerie.

Eppure, in quei posti sostanzialmente abbandonati, la mia collega ed io avevamo notato che alcune case, parzialmente distrutte, erano state riparate alla bell’e meglio. Porte e finestre erano state inserite al posto degli infissi originali che erano stati rubati. Lo spazio in eccesso tra finestra e muro era stato chiuso con pile di mattoni probabilmente recuperati dalle macerie.

Nella zona di Prijedor il ritorno dei quasi 50.000 bosgnacchi cacciati durante il conflitto non era ancora iniziato. Era chiaro quindi che gli abitanti di queste case non erano i proprietari originali, ma persone che in qualche modo vi avevano trovato rifugio. Quello che ci colpì a suo tempo era che non si trattava di casi isolati, ma decine e decine di case, erano state riparate in questo modo approssimativo. Non sembravano degli sforzi isolati, ma piuttosto un improvvisato tentativo di ricostruire case distrutte. Il loro numero colpì la mia attenzione. Queste case si trovavano soprattutto nella zona di Kozarac e Trnopolje, lungo la strada che da Prijedor porta a Banja Luka.

Chiesi informazioni in giro, cercando di capire chi avesse ricostruito le case e chi ci abitava.

La risposta era concorde: “Ah, è la gente di Martić!”. Milan Martić era uno degli ideatori dell’insurrezione dei serbi in Croazia e la longa manus di Milošević in Krajina. Al momento dell’operazione “Tempesta” (“Oluja”), l’operazione militare con cui la Croazia smantellò la repubblica secessionista serba e di fatto mise in fuga i serbi di Krajina, Martić ne era il presidente. Successivamente indiziato per crimini di guerra, fu condannato nel 2007 a 35 anni di carcere per aver organizzato la pulizia etnica dei croati e di altre popolazioni non serbe dalla Krajina. Al momento sta scontando la pena in Estonia.

I “curdi d’Europa”
Alla fine riuscimmo ad avvicinare gli abitanti di quelle case. Ci fecero entrare e potemmo vedere dall’interno le misere condizioni delle abitazioni. La casa era riscaldata a malapena da una stufa recuperata chissà dove, le finestre e gli infissi riuscivano a stento a tener fuori il freddo. Chiacchierammo un po’ con i nostri ospiti, capimmo che erano scappati dalla Krajina nel 1995 ed allora si erano sparpagliati in vari gruppi. Il gruppo che era arrivato a Prijedor era stato evidentemente sistemato nelle case parzialmente distrutte dei bosgnacchi di Kozarac e Trnopolje, per occuparle e far sì che questi non vi facessero ritorno, secondo la prassi tipica delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia di usare le vittime di un gruppo etnico contro le vittime di un altro gruppo etnico.

Chiedemmo loro chi era stato a fornire il materiale di costruzione, ci imbattemmo in un muro di omertà. “Qualcuno” fu la risposta e i nostri interlocutori non vollero dare ulteriori spiegazioni. Erano però preoccupati per il loro futuro, capivano che i legittimi proprietari delle case vi avrebbero fatto ritorno prima o poi, ma non sapevano che cosa sarebbe accaduto a loro e dove sarebbero andati. Non sapevano di quale stato fossero cittadini, i serbi di Krajina si sentivano “i curdi d’Europa” per riprendere un’espressione usata a suo tempo. I loro capi, Martić in primis, si erano dati alla latitanza e non si sapeva dove fossero.

Pochi mesi dopo, iniziò la ricostruzione dei villaggi attorno a Prijedor in attesa del ritorno dei legittimi proprietari. A poco a poco, osservammo che i serbi della Krajina se ne stavano andando e in breve scomparvero senza lasciare traccia.

Il gruppo di rifugiati serbi a Prijedor probabilmente non fu il più sfortunato. Molti dei rifugiati serbi dalla Krajina, una volta arrivati a Belgrado furono immediatamente mobilitati dal governo serbo e sottoposti ad addestramento forzato  nel campo gestito dal famigerato leader paramilitare Arkan nell’attuale Erdut per poi esser rispediti al fronte a combattere in Slavonia orientale. Arkan e le sue truppe paramilitari accusavano i serbi di Krajina di esser ubriaconi e traditori per esser fuggiti dalle proprie terre. Altri serbi di Krajina invece furono spediti in Kosovo, a ripopolare la regione meridionale della Serbia dove da alcuni anni Milošević stava esercitando il pugno di ferro nei confronti della popolazione albanese kosovara. I rifugiati dalla Krajina rappresentavano una presenza imbarazzante per il governo di Slobodan Milošević.

Lo scenario si ripete
Un quarto di secolo dopo, pochi giorni fa, lo stesso scenario si è ripetuto a Prijedor. Da alcuni anni in Serbia, la ricorrenza di Oluja, assieme a quella dei bombardamenti NATO sul Kosovo, è divenuta uno dei momenti salienti del nazionalismo serbo, quando si svolgono importanti manifestazioni per commemorare le vittime serbe in un modo del tutto avulso dal contesto che ha causato queste vittime. Quest’anno, a sorpresa di molti, la scelta su dove tenere la commemorazione è caduta su Prijedor. Ancora una volta a tutti è parsa chiara l’intenzione di schierare le vittime degli uni contro le vittime degli altri. Dolore contro dolore.

La decisione è stata presa dal presidente serbo Aleksandar Vucić, dal presidente della Republika Srpska Milorad Dodik e dal Patriarca della Chiesa serba ortodossa Porfirije. Una delle ragioni, o dei pretesti, è stata probabilmente la vicinanza di Prijedor al luogo in cui la colonna di rifugiati serbi  in fuga dalla Krajina è stata bombardata dall’aviazione croata, caso per il quale c’è un procedimento per crimini di guerra  in corso a Belgrado.

La scelta di Prijedor ha suscitato sarcasmo e critiche  : Edin Ramulić, dell’iniziativa “Jer me se tiće”, che a Prijedor organizza ogni anno la commemorazione delle vittime bosgnacche, ha detto che non vi sarebbero stati problemi se la manifestazione fosse stata organizzata dai rappresentati delle vittime serbe di Krajina, ma il fatto che ad organizzarla fossero le autorità della Serbia e della Republika Srpska, assieme alla Chiesa ortodossa, rappresentava certamente una provocazione dato che si commemorava la cacciata dei serbi dalla Krajina nella città da cui furono cacciati bosgnacchi e croati.

La propaganda fa autogol
Il caso ha voluto che le parole di Ramulić trovassero conferma in un imbarazzante incidente mediatico avvenuto durante la commemorazione. La foto simbolo dell’evento, che campeggiava dietro il podio da cui parlavano gli oratori, ritraeva una madre con in braccio una neonata di pochi mesi mentre fuggiva da quella che doveva esser la Krajina attaccata dall’esercito croato.

Poche ore dopo però si è scoperta la verità. La foto non ritraeva degli sfollati serbi, ma bensì degli sfollati bosgnacchi  in fuga dall’esercito serbo nell’enclave di Žepa, vicino a Srebrenica. Anziché essere una testimonianza dei crimini contro le vittime serbe, la foto era una testimonianza dei crimini commessi dall’esercito della Republika Srpska contro i bosgnacchi. Un clamoroso autogol mediatico dell’apparato del governo della Republika Srpska che si era affidato ad un’agenzia di Belgrado per l’organizzazione dell’evento. A poco sono servite le scuse dell’agenzia di Belgrado  quando l’episodio è diventato virale sui social media.


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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #543 il: Agosto 14, 2023, 21:36:20 pm »
"Noi" come popolo, io no di certo
Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #544 il: Agosto 16, 2023, 19:40:26 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Transizione-verde-Gli-investimenti-dell-Ue-per-i-Balcani-occidentali-226134

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Transizione verde? Gli investimenti dell'Ue per i Balcani occidentali

Gli investimenti dell'Unione europea mirano a sostenere la transizione verde nei paesi dei Balcani occidentali, ma rimangono diverse criticità rispetto al tipo di progetti sostenuti e alla loro effettiva realizzazione

16/08/2023 -  Marilen Martin
Ora che l'allargamento dell'Unione europea ai Balcani occidentali è finalmente tornato in agenda, adeguare la legislazione nazionale a quella comunitaria è diventato una necessità urgente per i paesi candidati della regione. Questo include allinearsi con la legge dell'UE sul clima, che impegna gli stati membri a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.

Ridurre significativamente le emissioni nocive rimane una sfida formidabile per i Balcani occidentali. L'approvazione dell'Agenda Verde per i Balcani occidentali nel 2020 ha però sollevato alcune speranze; si tratta di un piano sostenuto dall'Ue, che riflette l'ambizioso Green Deal promosso dalla stessa Unione europea.

I fondi previsti
Mentre 8 dei 9 miliardi di euro previsti dall'Agenda Verde sono concessi a fondo perduto, 1 miliardo è costituito da garanzie concesse attraverso il Fondo di garanzia per i Balcani occidentali. Una garanzia significa che l'Ue non presta direttamente denaro, ma garantisce che il debito verrà rimborsato (almeno in parte) nel caso in cui il paese destinatario dovesse andare in default. Attraverso i suoi investimenti e finanziamenti, l'Ue prevede di mobilitare complessivamente 20 miliardi di euro nella regione nel corso del prossimo decennio.

Inserito all'interno di questa visione c'è il Piano economico e di investimento (Economic and Investment Plan, EIP), un insieme di misure strategiche che prevedono fino a 9 miliardi di euro di investimenti dell'Ue nella regione tra il 2021 e il 2027. Questi fondi dovrebbero svolgere un ruolo cruciale nell'agevolare la transizione ecologica della regione e nel favorire una sua maggiore integrazione con gli attuali stati membri dell'Ue.

I primi passi sono stati compiuti
Dopo l'adozione del'EIP nell'ottobre 2020, l'Ue ha finora approvato 1,8 miliardi di euro di investimenti nei Balcani occidentali, ovvero un quinto dei fondi promessi complessivamente; si prevede che questi investimenti mobiliteranno a loro volta 5,6 miliardi di euro. "I Balcani occidentali dovrebbero raggiungere la neutralità climatica in contemporanea al resto dell'Ue, ma purtroppo il punto di partenza è molto diverso", afferma Selma Ahatović-Lihić, responsabile della comunicazione del Consiglio per la cooperazione regionale.

Gli investimenti dell'Ue si concentrano su 40 progetti selezionati, per la maggior parte mirati a promuovere trasporti sostenibili ed energia pulita. I progetti spaziano dalla costruzione di nuove strade a progetti solari e al ripristino di una centrale idroelettrica. Benché siano distribuiti in modo piuttosto equilibrato in tutta la regione, si possono notare alcune differenze: ad esempio, gli investimenti previsti in Bosnia Erzegovina riguardano solo progetti per la mobilità sostenibile.

La distribuzione dei finanziamenti indica che l'attenzione si concentra soprattutto sui trasporti. La quota maggiore dell'EIP è destinata a progetti legati alla mobilità; la quota investita nel miglioramento del sistema stradale è simile a quella destinata al trasporto ferroviario. La disparità tra i diversi investimenti è notevole: per esempio, i finanziamenti destinati alle strade sono più che doppi rispetto a quelli destinati a progetti per l'energia pulita.

Strade invece di ferrovie
Sebbene il Piano Economico e di Investimento includa vari progetti volti a sostenere la mobilità sostenibile, le energie rinnovabili, la digitalizzazione e la crescita del settore privato, non è scontato che tutti questi investimenti vadano davvero a sostenere gli obiettivi di fondo dell'Agenda Verde.

Per esempio, l’accento posto sulla costruzione di strade è problematico e non sembra troppo in linea con l'obiettivo di promuovere forme sostenibili di mobilità. Samir Lemeš, attivista dell'ong bosniaca Eko Forum, critica il fatto che "vengono investiti miliardi di euro nelle autostrade, mentre gli investimenti nelle ferrovie sono quasi nulli". Le ferrovie e le vie navigabili sarebbero forme di trasporto più sostenibili, mentre un aumento del traffico stradale aumenterà le emissioni nocive. Anche se le nuove strade potrebbero migliorare le connessioni all'interno della regione, lo stesso obiettivo avrebbe potuto essere perseguito attraverso le ferrovie, che emettono meno gas serra. Costruire nuove strade comunque non risolve il principale ostacolo alla connettività nei Balcani occidentali: i controlli alle frontiere e i loro tempi lunghi, come evidenzia uno studio del Parlamento europeo  .

Abbandonare il carbone, ma come?
Una porzione considerevole degli investimenti dell'Ue punta anche ad aumentare l'efficienza energetica nei Balcani occidentali. Si tratta di una buona occasione per ridurre le emissioni nocive e l'inquinamento atmosferico, dato che gli edifici contribuiscono in modo significativo a generarli, in particolare in caso di sistemi di riscaldamento poco efficienti.

Per ridurre in modo significativo le emissioni, per il riscaldamento dovrebbero essere usate delle alternative rinnovabili al carbone e al legno. Sebbene alcuni progetti dell'EIP si concentrino effettivamente sulla promozione delle energie rinnovabili, un rapporto dell'OCSE  evidenzia il potenziale ancora non sfruttato dell'energia solare ed eolica nei Balcani occidentali. Il piano di investimenti previsti dall'Ue non incoraggia un pieno sfruttamento di queste risorse, optando invece per controversi progetti idroelettrici che hanno impatti ambientali negativi. Stanislav Vučković, attivista dell'ong serba Eko Straža, riconosce che "l'energia idroelettrica è una delle soluzioni per la transizione energetica", ma allo stesso tempo avverte che "bisogna fare attenzione a ridurre al minimo i danni agli ecosistemi e all'ambiente".

È costoso e complesso riuscire a fare abbandonare il carbone a interi sistemi economici. I costi elevati – incluso l'impatto socio-economico della transizione – suggeriscono che i governi possano esitare a procedere davvero in tale direzione. Selma Ahatović-Lihić è preoccupata perché "il cambiamento climatico sta diventando sempre più costoso e appesantisce ulteriormente le economie già deboli dei Balcani occidentali, dove la povertà energetica è un problema significativo". Gli investimenti dell'Ue in questa regione diventano cruciali per incoraggiare e sostenere la transizione energetica – ma i finanziamenti stanziati finora sono assai limitati.

Più in generale, l'allocazione dei fondi attualmente prevista non affronta in modo organico il problema del cambiamento climatico e dei danni ambientali. Per esempio, alcuni progetti si concentrano sulla gestione dei rifiuti e delle acque reflue ma trascurano altre importanti questioni ambientali. Settori come quello dell'agricoltura sostenibile – nonostante il suo impatto significativo sulle esportazioni e sull'occupazione nella regione – rimangono attualmente esclusi dal piano di investimento dell'Ue.

La necessità di una buona governance
I progetti dell'EIP sono ancora nella loro fase iniziale, e dunque non è possibile valutarne in modo preciso l'impatto. Appare però già evidente che il loro successo dipenderà dal contesto politico e dal rafforzamento della capacità di agire delle autorità. La debolezza delle istituzioni e i privilegi conferiti alle imprese statali pongono sfide notevoli per l'efficacia degli investimenti in questo ambito. Inoltre, le carenze nel sistema di istruzione e lo spopolamento devono essere affrontati se si vuole far emergere una forza lavoro qualificata e in grado di guidare lo sviluppo economico. "Ci mancano non solo i fondi, ma anche l'infrastruttura necessaria per garantire l'attuazione dei progetti", afferma Stanislav Vučković. "Abbiamo bisogno di opportunità per acquisire esperienza diretta e scambiarci conoscenze con i paesi dell'Ue". Secondo l'attivista, "il principale ostacolo a una vera transizione verde della Serbia è il regime politico serbo sostenuto dall'Ue".

I comuni dei Balcani occidentali hanno bisogno di sviluppare le competenze necessarie. Essere in grado di svolgere analisi d'impatto ambientale esaustive è cruciale per garantire che i progetti contribuiscano davvero alla transizione verde. Ma la loro efficacia dipende in ultima analisi dalla fase di attuazione: buone pratiche di governance sono indispensabili a questo scopo.

Le ong consultate sollevano anche preoccupazioni per la mancanza di dialogo con la società civile durante la fase di pianificazione dei progetti dell'EIP, evidenziando la necessità di maggiore coinvolgimento e trasparenza. Secondo Samir Lemeš "il processo non è trasparente, non ci sono abbastanza informazioni disponibili pubblicamente, e la maggior parte dei fondi finisce a consulenti dell'Ue".

Mettere i numeri in prospettiva
L'ammontare complessivo dei finanziamenti dell'Ue diretti ai Balcani occidentali attraverso l'EIP è relativamente modesto se confrontato con i fondi dell'Ue che fluiscono negli stati membri confinanti coi Balcani occidentali, come Romania, Bulgaria, Croazia, Ungheria e Grecia. È naturale che i paesi dell'Ue beneficino di molti più programmi e opportunità di finanziamento – è anche per questo che i paesi candidati sono tanto interessati a poter finalmente accedere all'Ue. Secondo Selma Ahatović-Lihić, "il divario tra i Balcani occidentali e l'Ue rimane ancora enorme".

Il sostegno finanziario fornito dall'Ue attraverso l'EIP rientra nel programma di pre-adesione IPA III, che è specificamente destinato ad aiutare i paesi nel loro percorso verso l'adesione all'Ue. Di conseguenza questi investimenti sono soggetti a condizionalità – vale a dire che l'importo dei finanziamenti ricevuti dipende dalle prestazioni di ciascun paese.

Tuttavia affinché l'impegno dell'Ue verso i Balcani occidentali rimanga credibile, è necessario che la prospettiva sia chiara. "La data dell'adesione della Serbia all'Ue è stata posticipata a tempo indefinito, di certo per decenni", sostiene Vučković. "Di conseguenza, qualsiasi sostegno finanziario da parte delle istituzioni dell'Ue viene guardato – per usare un eufemismo – con una certa cautela".

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #545 il: Agosto 16, 2023, 19:42:28 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Russia/La-Russia-di-Putin-e-diventata-una-dittatura-della-paura-226539

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La Russia di Putin è diventata una “dittatura della paura”

Incontro col politologo Daniel Treisman, autore di un libro sulla dittatura della paura, sul cambio di paradigma del regime di Putin e sul futuro della Russia

09/08/2023 -  Margarita Liutova
(Originariamente pubblicato da Meduza  il 24 luglio 2023, traduzione dal russo di Sasha Slobodov, con licenza CC BY 4.0 e pubblicato da Valigia Blu  )

Nell'aprile del 2022, l'economista Sergei Guriev e il politologo dell'Università della California Daniel Treisman hanno pubblicato un libro  intitolato Spin dictators. The changing face of tyranny in the 21st century  , incentrato sulle moderne autocrazie  e su quelle che chiamano "spin dictatorships" (dittature elettorali), che basano la loro autorità sulla manipolazione e sulla propaganda. Il libro è stato presentato per la pubblicazione prima dell'invasione su larga scala dell'Ucraina da parte della Russia. Mentre Guriev e Treisman hanno a lungo classificato Vladimir Putin tra questi, in questo libro avvertono che il presidente russo si è affidato sempre più alla forza, trasformandosi in un "dittatore della paura". L'inviata speciale di Meduza Margarita Liutova ha parlato con il professor Treisman per saperne di più su come è cambiato il regime di Putin negli ultimi anni e su cosa potrebbe riservare il futuro alla Russia.

Dittatura della paura
Nel corso dei suoi anni di mandato, lo stile autoritario di Vladimir Putin è cambiato radicalmente, spiega Daniel Treisman a Meduza. Durante i primi due mandati della presidenza Putin e soprattutto durante il mandato di Dmitry Medvedev, l'attenzione era rivolta a mantenere un'immagine di "modernità, raffinatezza e rispettabilità internazionale". Questo è in netto contrasto con la realtà politica della Russia di oggi, in cui il Cremlino cerca di spaventare tutti i potenziali oppositori e di perseguire chiunque accenni anche solo a sentimenti contrari alla guerra.

"Penso che sia ragionevole classificare questa situazione come una dittatura fondata sulla paura, anche se ci sono ancora alcuni elementi di tentativo di manipolazione [come avviene nelle dittature elettorali]", afferma Treisman.

Queste due tipologie di dittatura, tuttavia, non si escludono a vicenda. Anche se Putin non potrà tornare al regime di prima, continuerà a impiegare tattiche caratteristiche di entrambe, mescolando controllo dell’informazione, consenso elettorale e paura.

La gente vuole credere di vivere in una democrazia
Se Putin è impegnato in una "dittatura della paura", allora perché ha annunciato  che le elezioni presidenziali russe del 2024 saranno conformi "a tutti gli standard democratici"? In questo modo, spiega Treisman, il presidente può fare appello a un vasto pubblico, rivolgendosi a coloro che nel paese hanno ancora valori democratici ma che attualmente sono disposti ad accettare il regime militarista. A giudicare dai sondaggi disponibili  , la maggioranza dei russi crede ancora che il leader del Paese debba candidarsi a elezioni regolari, e Putin vuole conformarsi almeno formalmente a questi ideali.

La gente vuole ancora credere di vivere in un paese democratico, sostiene Treisman: "È difficile riconoscere che stanno accadendo cose terribili. Penso che ci sia una grande tendenza psicologica innata ad aggrapparsi alle illusioni, se sono più comode. E credo che il regime sfrutti questo aspetto. Quindi, in larga misura, la sua propaganda funziona quando c'è un destinatario disposto a fare la propria parte per assicurarsi che il messaggio rassicurante abbia successo."

La trasformazione in dittatura della paura
Quando Putin ha assunto la carica nel 2000, sembrava davvero propenso a collaborare con l'Occidente e ad accettare i vincoli democratici, pur accentrando il potere. Molti hanno sottovalutato quanto Putin fosse disposto a scendere in profondità, dice Treisman, spiegando che è facile che una "dittatura elettorale" si trasformi in una "dittatura della paura". Questo accade di solito quando un leader comincia a dubitare che le tattiche di manipolazione caratteristiche della prima siano ancora efficaci. "Credo che Putin sia arrivato a credere che le tecniche sofisticate che aveva usato all'inizio del suo mandato non fossero più efficaci", spiega Treisman. Invece di affidarsi a consiglieri politici ed economisti liberali, ha spostato l'attenzione sulla comunità dei servizi segreti. Dopo tutto, loro sanno esattamente come intimidire ed esercitare il controllo".

Per quanto riguarda la decisione di lanciare l'invasione su larga scala dell'Ucraina, Treisman ritiene che Putin si sia convinto che la Russia, "con le sue ambizioni di grande potenza", fosse messa in discussione dalla comunità internazionale. La sua frustrazione per il ruolo della Russia nel mondo, così come la sua stessa posizione, sono state fondamentali per la sua decisione di invadere. "Putin ha escluso dalla sua camera d'eco tutte le persone che avrebbero potuto convincerlo a fare qualcosa di diverso", afferma Treisman. Tutti quelli che sono rimasti intorno a Putin condividono la sua versione preferita della realtà.

Il nazionalismo nella società russa
La società russa sembrava essersi rapidamente modernizzata e aperta ai valori liberali, ma ora appare sempre più imperialista e sciovinista. Non è che la società russa sia improvvisamente cambiata, spiega Treisman. Piuttosto, molti hanno sottovalutato che questa "azione palesemente aggressiva ed estrema avrebbe comunque evocato una reazione altrettanto estrema, di natura patriottica e lealista".

Tuttavia, l'opinione pubblica russa ha registrato tendenze contraddittorie. Ad esempio, dopo l'annessione della Crimea nel 2014, per un periodo di quattro anni c'è stata un'incredibile euforia  che alla fine è svanita. I sondaggi  del Levada Center mostrano che dopo l'annessione sono aumentati gli atteggiamenti negativi nei confronti degli Stati Uniti. Nel 2021, questo numero è sceso ai livelli precedenti al 2014, prima di aumentare nuovamente dopo l'inizio dell'invasione su larga scala.

È difficile dire con certezza quanto durerà questo "boom nazionalista", dice Treisman: "Non sappiamo quanto sia profondo [il sentimento nazionalista] perché, naturalmente, in questo clima di intimidazione c'è molto conformismo. C'è molta lealtà superficiale e c'è molta confusione, [...] e un conflitto nella psiche russa: da un lato, l'impulso a essere leali, a stare dalla parte del proprio popolo, e dall'altro, l'allarme e un senso di orrore per la direzione in cui la Russia sembra andare."

Il ruolo dell'opposizione russa
Sebbene vi siano stati conflitti interni all'opposizione russa, dal 2017 l'insoddisfazione nei confronti del regime di Putin si è diffusa ben oltre le sole Mosca e San Pietroburgo. Manifestazioni a sostegno di Navalny, ad esempio, hanno avuto luogo in tutto il paese. Ma l'opposizione russa si scontra con una "macchina oppressiva molto ben attrezzata, esperta e organizzata", afferma Treisman. In fin dei conti, l'opposizione non era pronta a rovesciare lo "Stato dell'FSB".

"Credo che nessuno prevedesse che avremmo assistito a una rivoluzione in Russia in cui i sostenitori di Navalny e di altri gruppi anti-Putin si sarebbero sollevati e avrebbero conquistato il Cremlino in tempi brevi", ricorda Treisman. C'è stato un progresso nella volontà della società russa di uscire e protestare, anche se questo è stato ampiamente messo da parte dall'invasione su larga scala.

La lotta di Putin per mantenere il potere
Putin è diventato sempre più dipendente dai servizi segreti e dalle forze armate, anche se è diventato sempre più difficile per lui tenerli sotto il suo controllo, come dimostra l'ammutinamento di Prigozhin. Il presidente russo ha ricevuto numerosi avvertimenti che il fondatore del Gruppo Wagner sarebbe diventato un problema. Con la ribellione, è diventato chiaro che Putin non era in grado di difendersi. Ora Putin sta cercando di capire chi, all'interno dei servizi di sicurezza, gli sia effettivamente fedele.

Secondo Treisman, è improbabile che ci sia un colpo di Stato in Russia. È più probabile una "graduale erosione del potere del Cremlino". Con la ribellione di Prigozhin, "abbiamo assistito a un'enorme incapacità di reagire e di prevenire, e forse sta diventando troppo per una sola persona al Cremlino gestire tutte le questioni legate alla guerra, così come preoccuparsi della lealtà nei diversi rami dello Stato di sicurezza, seguire e gestire l'opinione pubblica interna e tutte le questioni e i problemi che sorgono negli 11 fusi orari". E aggiunge: "Forse stiamo assistendo all'inizio di una sorta di crollo graduale".

È possibile anche un futuro in cui Putin si faccia da parte, riducendo o trasferendo i suoi poteri. Ciò avverrebbe probabilmente se iniziasse a permettere ad altri di prendere decisioni importanti. Se Putin decidesse di non essere più in grado di gestire efficacemente le situazioni in corso, potrebbe decidere che farsi da parte è l'opzione più sicura, anche se Treisman osserva che ciò rimane improbabile.

"L'atteggiamento conflittuale" dell'Occidente
Quando si ha a che fare con le "dittature elettorali", il modello migliore è l'"atteggiamento conflittuale", come lo definisce Treisman. Gli Stati Uniti e l'Unione Europea devono lavorare attivamente per contrastare lo sfruttamento della corruzione e dei legami economici occidentali da parte delle dittature, chiudendo tutti i canali per il denaro corrotto e trovando il modo di limitare l'influenza dei dittatori sulle società occidentali. Ciò significa affrontare i lobbisti che lavorano nell'interesse delle dittature, rendere più difficile per i dittatori nascondere il loro denaro in Occidente e seguire da vicino il modo in cui gli Stati stranieri cercano di influenzare la politica interna: "Resta necessario esercitare la massima pressione sulla Russia in tutti i modi possibili, al di fuori di un coinvolgimento militare diretto della NATO, per assicurarsi che l'Ucraina possa difendersi da sola e che Putin non ne esca percepito come un vincitore, rafforzato a livello interno."

In futuro, se il successore di Putin diventerà meno pericoloso per il mondo esterno, l'Occidente dovrebbe essere pronto a reintegrare la Russia, sostiene Treisman, fornendole opportunità più moderne, meno aggressive e più aperte per prosperare e svilupparsi come parte dell'economia globale e della comunità internazionale. Attualmente, tuttavia, il compito più importante per l'Occidente è quello di aiutare l'Ucraina a difendersi dalla Russia e di essere pronto a sostenere lo sviluppo politico ed economico del paese non appena si presenterà tale opportunità.

Una "dittatura della paura" non durerà necessariamente per sempre, spiega Treisman a Meduza. "La repressione può essere molto efficace nel breve periodo, ma ti lascia con [...] problemi, con sfide economiche [...] e con le difficoltà interne, i vicoli ciechi della politica interna da cui si era partiti".

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #546 il: Agosto 16, 2023, 19:46:54 pm »
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Oluja, la storia di Nikola

Nikola aveva pochi mesi quando nell’agosto del 1995 la sua famiglia, insieme con le altre 200mila persone di nazionalità serba, lasciò in fretta e furia la Croazia. Dopo aver vissuto in Serbia per quindici anni è tornato in Croazia dove ha fatto gli studi superiori e dove tutt’ora vive e lavora. Lo abbiamo incontrato

08/08/2023 -  Giovanni Vale Zagabria
Ho incontrato per la prima volta Nikola Kožul al corso di Studi sulla pace organizzato dal Centar za Mirovne Studije (CMS) di Zagabria. Un giorno, durante il modulo sulle guerre degli anni Novanta, questo 28enne alto e magro ha preso la parola e ha raccontato la sua storia – quella di uno dei circa 200mila serbi di Croazia che nell’agosto del 1995 lasciarono in fretta e furia le proprie case, mentre l’esercito croato avanzava riconquistando la Krajina durante l’operazione Tempesta (Oluja). Tra il 1995 e il 2010, Nikola ha vissuto in Serbia, prima di tornare in Croazia, dove ha frequentato il liceo e si è laureato in legge. Il suo discorso mi aveva colpito non solo per la drammaticità degli eventi che raccontava, ma anche per la tenacia, l’impegno e persino l’ottimismo che trapelava dalle sue parole. Oggi Nikola lavora come giurista al Consiglio nazionale serbo (SNV, l’organo che rappresenta la minoranza serba in Croazia) e offre assistenza legale gratuita a chi ne ha bisogno. In occasione del 28° anniversario di Oluja, l’ho incontrato in un caffè della capitale croata per farmi raccontare nel dettaglio la sua storia.

Nikola, tu sei nato a Benkovac, nell’entroterra di Zara, quattro mesi prima dell’operazione Tempesta. Cosa ti hanno detto i tuoi famigliari di quell’agosto 1995?

La grande domanda, all’interno della comunità serba, è: “siamo partiti da soli o ci hanno cacciato?” La versione ufficiale croata sostiene che i serbi hanno deciso spontaneamente di partire. I miei dicono che avevano paura, che non si fidavano delle nuove autorità croate e che vedevano tutti fuggire. Hanno deciso all’ultimo momento. La mattina del 4 agosto 1995, quando mia mamma ha chiamato il nonno per dire “dobbiamo andare, stanno scappando tutti”, lui era tra i campi e stava costruendo una recinzione per le galline. Più tardi ho sentito altre storie, di persone che erano state avvicinate da agenti di sicurezza serbi che avevano consigliato loro di partire… È una vicenda di cui non saremo mai sicuri al 100%. Io penso che ci sia stato un accordo tra Croazia e Serbia, perché poi, durante il nostro viaggio, le autorità serbe ci dirottavano continuamente verso il Kosovo, per popolarlo di serbi. Ad ogni modo, per quanto riguarda i miei, l’effetto psicologico è stato sufficiente: tutti scappavano e quindi sono fuggiti anche loro. Siamo così partiti con due auto e a Knin ci siamo uniti alla grande colonna di auto e trattori che lasciava la Croazia.

L’immagine di quella colonna di migliaia di persone, perlopiù povere e provenienti dalla Croazia rurale, è diventata uno dei simboli più noti dell’operazione Oluja. La tua famiglia cosa faceva a Benkovac prima della guerra?

Mio nonno era figlio di partigiani e durante la Seconda guerra mondiale era finito, assieme a tutta la famiglia, in un campo di prigionia italiano sull’isola di Meleda (Molat) e poi a Napoli. Al suo ritorno, aveva iniziato la scuola e si era laureato in Economia a Belgrado, prima di tornare a Benkovac per lavorare come direttore della cooperativa agricola locale. La nonna – più giovane di 14 anni – aveva studiato anche lei all’università, laureandosi alla facoltà di Turismo a Zara. Entrambi, insomma, erano un esempio di successo della Jugoslavia socialista, provenienti da famiglie contadine e diventati parte della nuova élite. Mio nonno credeva molto nei valori della Jugoslavia ed era contrario al nazionalismo, così quando le nuove autorità serbe hanno preso il controllo della Krajina nel 1991, lui ha perso il lavoro ed è finito per un breve periodo in prigione, prima di ritrovare un impiego come direttore di banca fino al 1995.

Torniamo alla vostra fuga nel 1995. Dove siete andati una volta raggiunta la colonna a Knin?

Ci siamo fermati prima a Prijedor e poi a Banja Luka. Io avevo pochi mesi e faceva molto caldo, per cui le persone ci aiutavano molto ad ogni tappa. Arrivati in Serbia (dove non conoscevamo nessuno), la colonna di auto veniva indirizzata verso il Kosovo e tante strade erano chiuse. Ma i miei nonni sono riusciti ad ottenere un’autorizzazione per raggiungere la Vojvodina e io sono stato battezzato a Pančevo. Qualche mese dopo, nel 1996, i nonni hanno comprato casa a Temerin, un paesino poco a nord di Novi Sad, mentre io, mia sorella maggiore e i miei genitori siamo andati in Kosovo. Mio papà era giornalista e l’unico lavoro che gli hanno proposto era lì. Anche mia zia, che all’epoca studiava all’università, ci ha seguiti: tutta la facoltà di Knin era infatti stata spostata in Kosovo. L’esperienza però non è piaciuta ai miei (lì si preparava un’altra guerra…) e nel 1997 siamo tornati a Temerin, proprio quando i miei nonni hanno provato a rientrare a Benkovac.

I tuoi nonni sono rientrati in Croazia due anni dopo la fine della guerra… com’è andata?

Col senno di poi, sono tornati troppo presto, era ancora pericoloso all’epoca. Ma loro non potevano più aspettare. A Benkovac abbiamo della campagna: 150 olivi, due grandi vigneti, alberi da frutto… volevano occuparsene. Così sono entrati illegalmente in Croazia e hanno cominciato a prendersi cura dei terreni, ma un giorno, dopo che erano andati a trovare alcuni famigliari a Spalato, hanno trovato al ritorno la casa distrutta. Era stata fatta saltare in aria. Fu uno shock enorme per loro, ma anche il momento in cui decisero che non sarebbero mai più ripartiti. Hanno vissuto nella stalla, poi hanno preso in affitto un appartamento a Benkovac e ogni mattina lavoravano nei campi. Ancora oggi nella tenuta, si vede il buco di dove una volta c’era la casa di famiglia.

Nel frattempo voi eravate in Serbia…

Sì. Nel 1998 è nata mia sorella minore e nel 1999 ci siamo trasferiti a Nova Pazova, a metà strada tra Novi Sad e Belgrado, dove io ho frequentato la scuola elementare. Più che una città vera e propria, è un centro abitato che gravita attorno a Belgrado. Ho brutti ricordi di quel periodo, ma mi chiedo spesso se è perché ricordo solo il peggio o perché era davvero così difficile. Avevo degli amici, ma non sono mancati gli incidenti. Per insultarmi, i bambini mi chiamavano “rifugiato" o “croato". Ripensandoci ora, capisco che chi abitava lì aveva trascorso gli anni Novanta tra mille difficoltà e senza mai essere aiutato. Noi invece avevamo ricevuto un appartamento e dei mobili dal governo serbo. C’era molta invidia e rabbia. Ad ogni modo, non mi sono mai sentito a casa in Serbia. Anche se parlavamo la stessa lingua, il mio accento croato non passava inosservato. “Casa” è dove puoi parlare la lingua che parli in famiglia anche fuori dalle mura domestiche.

Nel 2000 sei tornato a Benkovac per la prima volta. Com’è andata?

Era inverno, durante le vacanze scolastiche. Mi ricordo l’arrivo di notte, la nonna che mi dice “qui è casa tua” e poi la vista dell’abitazione che era stata fatta saltare in aria, con ancora le pietre sparse nel prato. Quell’anno per la prima volta ho visto il mare, Zara con le mura, il centro storico… ne sono rimasto incantato. In confronto al fango di Nova Pazova, era un altro mondo. L’anno dopo siamo tornati per le vacanze estive e io ho incontrato i bambini croati. Giocavo con loro, ma ricordo che un giorno, quando sono arrivato, erano tutti in silenzio e non mi guardavano. Uno di loro mi ha detto “sappiamo cosa sei tu”. “Cosa?”, ho chiesto. “Un serbo”, mi ha risposto. Ho imparato a relazionarmi presto con quella domanda: “Chi sei e da dove vieni?”, sempre così importante. A Benkovac, tutti uscivano dal trauma della guerra. Con quei bambini ho finito comunque per fare amicizia, ci ritrovavamo ogni estate.

Quando hai finito la scuola elementare, hai deciso di fare il liceo a Zagabria, mentre i tuoi sono rimasti in Serbia. Com’è stato?

Ho seguito le orme di mia sorella, che già aveva preso quella strada. I miei genitori non vedevano un futuro per noi a Nova Pazova. L’educazione era molto importante per loro, uno strumento per migliorare la propria condizione. L’offerta formativa del liceo serbo ortodosso di Zagabria non era comparabile a quella degli istituti locali. È una sorta di scuola d’élite, ma aperta a tutti. Completamente finanziato dalla Chiesa ortodossa serba in Croazia, il liceo è laico e segue il programma nazionale croato, permettendo ai bambini provenienti da aree rurali e periferiche di studiare in centro a Zagabria, ricevendo una borsa di studio e vivendo alla casa dello studente. Quando ho annunciato ai miei compagni di classe che sarei andato in Croazia a fare il liceo, una ragazza mi ha detto che ero un “traditore”. Non è stato facile, tanto meno per i miei genitori che mandavano il loro secondo figlio a studiare in un paese che li considerava tutto sommato “nemici”. Ma avevano pochi soldi e non avrebbero mai potuto offrirci un’educazione come quella che abbiamo ricevuto a Zagabria. Quel liceo è davvero una buona cosa che la Chiesa ortodossa serba ha fatto.

Com’è stato studiare a Zagabria? Hai avuto nuovi problemi con i coetanei croati?

Finché eravamo in centro, no. Ma quando è stato costruito il nuovo liceo nel quartiere di Svedi Duh, ci siamo ritrovati a prendere ogni giorno l’autobus con gli alunni di una delle peggiori scuole tecniche della città. Ogni mattina ci insultavano, ci gettavano oggetti, a volte ci attaccavano. La polizia spesso ci scortava fino a scuola. Era un vero problema per il liceo. Se si fosse sparsa la voce nella comunità serba, i genitori avrebbero esitato a iscrivere i loro figli e sarebbe stato un vero peccato, perché la scuola era ottima.

Dopo il diploma, hai scelto di studiare Giurisprudenza a Fiume. Come mai?

In famiglia si parlava sempre di politica, di giustizia, di società… Erano temi che mi interessavano e Fiume è forse la città più liberale della Croazia. Quando ho saputo che mi avevano ammesso lì a Giurisprudenza, non ci ho pensato due volte. Sono rimasto quasi otto anni nel capoluogo quarnerino, anche se tornavo spesso a Zagabria. Avevo infatti iniziato con l’attivismo, con il partito politico “Za Grad” [poi confluito in Možemo, nda.] e co-fondando poi il Forum per lo sviluppo sostenibile “Zeleni Prozor”. In quegli anni ho partecipato a diversi incontri a Bruxelles, in Kosovo, ho fatto un Erasmus a Lubiana… ho potuto rileggere la mia esperienza attraverso lo studio e il confronto con giovani di altre nazionalità. Mi sono laureato a fine 2021 e nel 2022 ho iniziato a lavorare al Consiglio nazionale serbo (SNV) a Zagabria, non prima di aver fatto un lungo viaggio in bici attraverso l’Italia, che sognavo da tempo.

Questo fine settimana si è celebrato il 28° anniversario dell’operazione Tempesta, sempre con la solita retorica divisiva  . Come leggi tu i fatti dell’agosto 1995?

Io penso che ci siano elementi di verità da entrambe le parti. A Benkovac c’è sempre stato un forte nazionalismo croato, fino a qualche anno fa si festeggiava Oluja in pompa magna e solo dagli ultimi anni la situazione si sta calmando un po’. Per i nazionalisti croati, Oluja rimane una vittoria senza errori e senza macchia. In Serbia, invece, si opta per il vittimismo, di cui si nutre il nazionalismo serbo. Noi rifugiati veniamo usati e Oluja diventa come il bombardamento Nato. Tra queste due versioni estreme, ci siamo noi, la minoranza, la chiave per la pace. La guerra è sempre una guerra contro le minoranze. Io penso che la Krajina era una legittima parte della Croazia e che le autorità serbe hanno sbagliato nel 1991 a cacciare i croati, a distruggere le loro case e chiese. Nel 1995 è stato invece il nazionalismo croato a sbagliare. Avrei voluto che la Croazia di allora fosse più matura e che le autorità di Zagabria avessero davvero detto chiaramente “non dovete partire”, “nessun civile sarà maltrattato”. Ma non è andata così. La verità è che - e qui la si nega - 200mila serbi sono partiti, tra i 600 e i 1200 civili sono stati uccisi, 20mila case sono state distrutte… E per chi è tornato, come per i miei nonni, non è stato facile.

Cosa vedi nel futuro della minoranza serba in Croazia?

Purtroppo, non si può ricreare la situazione antecedente alla guerra. Quei territori non saranno mai così popolati come lo erano prima. Tuttavia, possiamo migliorare la situazione e negli ultimi anni si lavora in questa direzione. Nel 2020 il governo Plenković per la prima volta ha invitato i rappresentanti della minoranza serba alla commemorazione di Oluja a Knin. Per la prima volta ha menzionato le vittime, ha parlato di giustizia, si è detto dispiaciuto… La narrativa in Serbia, invece, non cambia, anzi si allontana.

Il bicchiere è mezzo pieno dunque?

Per me sì, i miei genitori direbbero di no. Ma forse la differenza sta nel punto di vista. Loro hanno visto il bicchiere completamente pieno prima del 1991, io sono partito con un bicchiere vuoto. Dall’altro lato, sono consapevole di essere un esempio positivo di integrazione dei serbi in Croazia, forse un’eccezione. Non tutti hanno fatto il liceo serbo a Zagabria. Tanti sono rimasti nelle aree rurali, magari si sono radicalizzati col nazionalismo. Altri sono partiti in Germania. Ma se è vero che i nostri villaggi sono sempre più vecchi e più vuoti dal punto di vista demografico, è vero anche che c’è chi torna dall’estero. Si farà una nuova società. Insomma, sono ottimista anche se con cautela.

Che progetti hai per la proprietà di famiglia di Benkovac?

Senza aiuti da parte dello stato sono passati più di trent’anni senza poter ricostruire quella casa. Ma sono certo che ricostruiremo la casa dei nonni e rilanceremo la produzione agricola con l’aiuto dei fondi europei. Ho già detto ai miei che mi occuperò ben volentieri di tutte le questioni amministrative.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #547 il: Settembre 14, 2023, 20:29:35 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/La-crisi-demografica-della-Bosnia-Erzegovina-227070

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La crisi demografica della Bosnia Erzegovina

Stando ad alcuni dati e stime la Bosnia Erzegovina entro il 2060 potrebbe perdere persino il 75% della sua popolazione. Miodrag Pantović, studente presso la Facoltà di Geografia di Belgrado, ha svolto una tesi di master su questo fenomeno. Intervista

14/09/2023 -  Tatjana Čalić
(Originariamente pubblicato sul portale Buka  , il 12 settembre 2023)

Miodrag Pantović, studente presso la Facoltà di Geografia di Belgrado, attualmente è impegnato a portare a termine la sua tesi di master sulla demografia e la guerra del 1992-95 in Bosnia Erzegovina. Il portale Buka lo ha incontrato per parlare delle dinamiche e dell’attuale situazione demografica in BiH.

Descrivendo gli anni immediatamente precedenti allo scoppio del conflitto, lei tende a ricorrere ad una metafora…

A cavallo tra gli Ottanta e Novanta del XX secolo la Bosnia Erzegovina, dal punto di vista demografico, era come una pentola a pressione ed era solo questione di tempo prima che esplodesse. Oggi invece è come una pentola piena di acqua calda che si sta lentamente raffreddando.

Se osserviamo la struttura della popolazione della BiH tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, vediamo che nel paese c’erano tantissimi giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni. Proprio in quel periodo in BiH il numero di giovani, compresi quelli maggiormente istruiti, aveva raggiunto i suoi massimi storici. Questa tendenza positiva, legata allo sviluppo degli anni ’70 – contrassegnati dall’apertura di molte università e da un’urbanizzazione su larga scala – era però desinata a cambiare già dalla metà degli anni ’80, soprattutto dopo le Olimpiadi di Sarajevo, quando la BiH si era trovata a dover fare i conti con una stagnazione economica. Poi dal 1988 il tasso di disoccupazione aveva iniziato a crescere, soprattutto tra i giovani laureati.

Un altro aspetto problematico riguarda l’ordinamento sociale e politico della Bosnia Erzegovina. Dall’epoca dell’Impero austro-ungarico – con la formazione dei primi organismi dell’autogoverno locale e poi con la Costituzione del 1910 – fino ai giorni nostri, l’ordinamento della BiH è sempre stato imperniato su una logica etnica per quanto riguarda la ripartizione delle funzioni e degli incarichi nel settore pubblico. Un paese in cui sono presenti tre grandi gruppi etnici, dove la ripartizione del potere si basa sempre su una logica etnica, tende a soffocare la creatività, e quindi stenta ad avanzare. La società bosniaco-erzegovese ha pagato caro le conseguenze di queste dinamiche. Credo che la miccia che fece esplodere la sanguinosa guerra in BiH sia da ricercare proprio nelle dinamiche demografiche e strutturali interne.

Torniamo un attimo indietro al periodo precedente alla guerra e all’emigrazione che aveva contrassegnato quell’epoca. Alla fine degli anni ’60 la Germania aveva sottoscritto un accordo con la Jugoslavia per il reclutamento di manodopera. In quegli anni molti cittadini jugoslavi erano andati a lavorare all’estero per non tornare mai più…

Esatto. Anche prima della guerra degli anni ’90 la Bosnia Erzegovina aveva il più alto tasso di emigrazione in Europa. Ed è un fatto poco noto.

Quando ho iniziato a scrivere la tesi, mi sono trovato costretto a reperire dati e documenti statistici sparsi negli archivi di tutta la ex Jugoslavia. Analizzando questi dati sono rimasto sorpreso nell’apprendere che stando al censimento del 1991 – l’ultimo censimento condotto in tutte le repubbliche jugoslave – nel periodo preso in considerazione 600mila persone si erano trasferite dalla BiH in Croazia, Serbia e Slovenia, mentre nello stesso periodo in BiH erano arrivate solo 150mila persone, quindi quattro volte di meno. Inoltre, stando allo stesso censimento, all’inizio degli anni Novanta 220mila cittadini bosniaco-erzegovesi si trovavano all’estero per “lavoro temporaneo”. Quindi, già a quel tempo si assisteva ad una sorta di esodo spontaneo.

Quali aree della Bosnia Erzegovina erano maggiormente colpite dall’emigrazione?

Una delle principali caratteristiche dell’emigrazione bosniaco-erzegovese è la disomogeneità territoriale. Prima della guerra si era registrato un grande esodo dei serbi e dei croati: quasi il 90% delle persone che avevano lasciato la BiH prima del 1991 era di nazionalità serba o croata. L’emigrazione dei bosgnacchi, che a quel tempo non era tanto massiccia, era iniziata verso la fine degli anni ’70, interessando innanzitutto la Bosnia occidentale, in particolare l’area di Cazin, segnata dall’estrema povertà, da dove si partiva soprattutto verso la Slovenia. Quindi, anche il fenomeno dell’emigrazione rispecchia quelle differenze etniche e strutturali di cui abbiamo parlato prima.

Va detto che gran parte della responsabilità, seppur implicita, grava anche sulla Croazia e sulla Serbia che attingevano massicciamente alla manodopera bosniaco-erzegovese. I serbi e i croati della Bosnia Erzegovina erano visti come una riserva demografica dai paesi vicini, soprattutto dalla Croazia che cercava di sopperire al calo demografico incoraggiando l’immigrazione dei croato-bosniaci.

Poi è arrivata la guerra e una nuova svolta demografica…

Esatto. La guerra, la pulizia etnica, i crimini… In quel periodo ad andarsene dalla Bosnia Erzegovina erano stati soprattutto i bosgnacchi, quindi quel gruppo etnico che prima della guerra emigrava meno.

Una delle conclusioni della sua tesi di master è sintetizzata in una mappa che dimostra il calo del numero di giovani sotto i 20 anni nel territorio della Bosnia Erzegovina dal 1991 ad oggi. Dalla mappa emerge chiaramente che stiamo perdendo i giovani e che questo fenomeno si acuisce ad una velocità spaventosa. La situazione è particolarmente preoccupante in alcune aree?

La mappa è stata realizzata mettendo a confronto i risultati del censimento del 1991 e i dati sul numero di nascite nel periodo compreso tra il 2003 e il 2022. Ne emerge un quando assai allarmante. Ad esempio, il comune di Bosansko Grahovo ha perso il 93% della sua popolazione rispetto al periodo precedente alla guerra, mentre la popolazione di Srebrenica è diminuita del 92% rispetto al censimento del 1991. Quindi, ad essere maggiormente colpite dal calo demografico solo la Bosnia orientale, la Posavina e la parte occidentale della Krajina.

Com’è invece la situazione nell’Erzegovina che spesso viene definita una regione in via di estinzione?

L’Erzegovina occidentale è costretta a fare i conti con un altro problema, ossia con un enorme divario tra il numero di bambini nati nel corso di un anno e il numero di bambini, appartenenti a quella generazione, iscritti a scuola. Questo fenomeno interessa soprattutto la città di Neum dove, stando alle statistiche, nel 2015 sono nati nove bambini, mentre i nuovi iscritti a scuola sono stati 25. Suppongo che si tratti di famiglie con doppia residenza e doppia cittadinanza: i bambini nascono in Croazia e poi vengono iscritti a scuola in BiH. Così si finisce per creare un caos demografico.

Invece nel cantone Una Sana la situazione è diametralmente opposta: in alcuni comuni la differenza tra il numero di nascite e il numero di nuovi iscritti a scuola è del 20-25%. La città di Brčko risulta maggiormente colpita da questo fenomeno. In Republika Srpska invece tale percentuale si attesta attorno al 2%.

E nell’Erzegovina orientale?

La situazione nell’Erzegovina orientale non era rosea nemmeno prima della guerra. Osservando i dati del censimento del 1991 vediamo che questa regione già allora aveva una popolazione molto anziana. Tutti i comuni, ad eccezione di Trebinje, si stavano spopolando. È curioso notare come nel corso del tempo si sia creato un particolare legame tra l’Erzegovina orientale e la Vojvodina. Nel periodo tra il 1945 e il 1948 tantissime famiglie serbe dell’Erzegovina emigrarono in Vojvodina, e poi durante la guerra degli anni Novanta molti erzegovesi fuggirono trovando rifugio dai loro parenti in Vojvodina.

Oltre al calo della popolazione giovanile, cos’altro è emerso dalla sua analisi? Qual è l’attuale struttura etnica delle città bosniaco-erzegovesi?

Ad eccezione di una parte della Bosnia centrale e delle città di Mostar, Srebrenica e Brčko, tutti i comuni della BiH sono diventati etnicamente omogenei.

Un dato interessante riguarda il numero di bambini serbi nati a Mostar e Sarajevo. Nel periodo compreso tra il 2003 e il 2022 a Sarajevo sono nati 651 bambini serbi, mentre nello stesso periodo sono morte 4993 persone di nazionalità serba. A Mostar invece sono nati 275 bambini e morte 1558 persone di nazionalità serba.

Qual è invece la struttura etnica della popolazione di Banja Luka?

Nel 1991 a Banja Luka vivevano 8.099 persone di fede musulmana sotto i 20 anni, mentre negli ultimi vent’anni nella città sono nati solo 502 bambini musulmani. Quindi, oggi a Banja Luka ci sono 7.500 giovani musulmani in meno rispetto al periodo immediatamente precedente alla guerra.

Per quanto riguarda la popolazione croata, nel 1991 a Banja Luka c’erano oltre 8.000 croati sotto i 20 anni, e negli ultimi due decenni vi sono nati solo 347 bambini di nazionalità croata. Il numero di giovani croati è quindi diminuito del 95%.

La popolazione serba della città è invece aumentata rispetto al periodo precedente alla guerra. Oltre a Banja Luka, la popolazione serba è cresciuta anche a Bijeljina, Brčko e Pale. D’altra parte, la popolazione giovanile bosgnacca è aumentata in alcuni quartieri periferici di Sarajevo, nello specifico a Ilidža, Ilijaš e Vogošća. Non abbiamo invece registrato alcun aumento della popolazione giovanile di nazionalità croata.

Il quadro che emerge dalla sua ricerca è piuttosto allarmante. Eppure, le istituzioni e i politici tacciono, non offrono alcuna soluzione, talvolta addirittura negano la realtà. Quei pochi che decidono di commentare la situazione dicono invece che è tutta colpa del calo delle nascite…

I politici sia in Bosnia Erzegovina che in Serbia continuano a riempirsi la bocca parlando di famiglia e natalità, invece di impegnarsi nel garantire le condizioni di vita dignitose per quelli che scelgono di rimanere nel proprio paese. In BiH si registra un alto tasso di mortalità tra persone di mezza età. Oltre ad un cambio dello stile di vita, migliorando il sistema sanitario e la prevenzione, sicuramente si riuscirebbe ad arginare il crollo demografico. Ma nessuno ne parla. In Serbia, ad esempio, un cittadino su cinque muore prima della pensione.

Le nostre vite sono condizionate dai cicli politici. Tutto dipende dai partiti al governo che cercano solo di mantenere il potere fino alle prossime elezioni. Non vi è alcuna pianificazione a lungo termine, si offrono solo soluzioni veloci da sfruttare tra due tornate elettorali.

Intanto l’elettorato è costituito perlopiù da anziani. In BiH, come anche in Serbia, si assiste ad una stagnazione politica e il motivo è forse da ricercare proprio nel continuo invecchiamento della popolazione. Avendo perso l'ottimismo e la creatività, stiamo cadendo in una sorta di letargo.

Date queste premesse, quale futuro può aspettarsi la Bosnia Erzegovina?

Secondo tutti i parametri, la Bosnia Erzegovina è il paese più fragile del mondo dal punto di vista demografico. Su questo punto non vi è alcun dubbio. Cito solo un dato: secondo un rapporto pubblicato nel 2019 dal Centro per la popolazione e la migrazione (CEPAM) la BiH potrebbe perdere il 75% della sua popolazione entro il 2060. Forse però vi è anche un aspetto positivo. Da queste parti probabilmente non scoppierà mai più alcun conflitto armato: siamo troppo vecchi per combattere una nuova guerra.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #548 il: Settembre 14, 2023, 20:31:27 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Grecia-polemiche-dopo-le-alluvioni

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Grecia, polemiche dopo le alluvioni
11 settembre 2023

È salito a quindici il numero delle vittime accertate delle devastanti alluvioni che hanno sconvolto la Grecia centrale la settimana scorsa. Nella giornata di ieri, infatti, altri quattro corpi sono stati recuperati dalle acque. Al momento, almeno altre due persone risultano disperse.

Ad essere colpita, a partire da martedì scorso, è stata la piana di Tessaglia, trasformata da tre giorni ininterrotti di precipitazioni in un enorme lago pluviale. Buona parte della produzione agricola dell’area è andata distrutta, insieme ad abitazioni, attività economiche ed infrastrutture.

Particolarmente delicata la situazione nelle città di Larissa e di Volos, dove la rete idrica è rimasta danneggiata e i 200mila abitanti restano senza accesso all’acqua potabile.

Per la Grecia, colpita durante le scorse settimane dall’ennesima ondata di gravi incendi, l’estate termina quindi sotto il segno delle calamità naturali, questa volta sotto forma del ciclone “Daniel” che ha colpito anche la vicina Bulgaria, dove si sono registrate quattro vittime lungo le coste del mar Nero.

Ancora presto per fare un bilancio, anche economico, dei danni subiti dal paese. Secondo il governatore della Tessaglia, Kostas Agorastos – intervistato dall’emittente pubblica ellenica - le perdite si attestano ad almeno due miliardi di euro. Di certo serviranno anni per rimettere in sesto le capacità produttive della regione, tradizionalmente cuore delle attività agricole in Grecia.

La gestione lacunosa dell’emergenza ha generato una forte tensione politica. Il primo ministro conservatore Kyriakos Mitsotakis è stato fortemente contestato durante la sua visita a Larissa, nonostante le sue rassicurazioni su una futura compensazione dei danni. Si è arrivati allo scontro tra contestatori e polizia, che la lanciato lacrimogeni sui contestatori.

Anche i partiti di opposizione hanno accusato Mitsotakis. Per la sinistra di SYRIZA, il premier si sarebbe recato in Tessaglia “senza una traccia di autocritica per le sue enormi responsabilità”, limitandosi invece “a essere puro osservatore del disastro di bibliche dimensioni”

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #549 il: Settembre 17, 2023, 10:45:10 am »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Montenegro-l-ennesima-sconfitta-dello-stato-227092

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Montenegro: l’ennesima sconfitta dello stato

Nei giorni scorsi in Montenegro è stato scoperto un tunnel sotterraneo utilizzato per entrare nel deposito dell’Alta corte di Podgorica, luogo dove vengono archiviati oggetti e documenti usati nei processi come prove. Secondo gli esperti è l’ennesima sconfitta dello stato nella lotta alla criminalità organizzata

15/09/2023 -  Nikola Dragaš,  Jelena Jovanović
(Originariamente pubblicato dal quotidiano Vijesti  , il 14 settembre 2023)

Lunedì 11 settembre è stato scoperto un tunnel sotterraneo utilizzato per irrompere nel deposito dell’Alta corte di Podgorica dal quale, stando ai dati resi noti finora, sono stati portati via diversi oggetti, comprese alcune pistole addotte come prove nei procedimenti penali a carico dei capi di uno dei più potenti gruppi criminali montenegrini, noto come clan di Kavač.

Gli esperti interpellati dal quotidiano Vijesti interpretano l’irruzione nell’Alta corte come segno della sconfitta dello stato nella lotta alla criminalità organizzata, un segno che suggerisce che alcuni centri di potere credono di essere intoccabili e sono disposti a tutto pur di sfuggire alla giustizia.

Secondo Stevo Muk, giurista e membro del Consiglio della procura del Montenegro, l’irruzione nel deposito dell’Alta corte dimostra che alcuni gruppi criminali sono disposti a utilizzare tutti i mezzi a loro disposizione per influenzare l’esito dei procedimenti penali che li vedono coinvolti.

Episodi come questo – spiega Muk – evidenziano la necessità di agire tempestivamente per innalzare al massimo il livello di sicurezza delle istituzioni giudiziarie. “Tale impegno inevitabilmente implica la ristrutturazione dell’edificio esistente o, in alternativa, la costruzione di un nuovo edificio in grado di ospitare un deposito di oggetti di prova in linea con i più alti standard di sicurezza. La prontezza dei vertici dello stato nel prendere una decisione in tale direzione, stanziando risorse adeguate per la sua attuazione, sarebbe il segno della volontà politica di risolvere questo problema”, sottolinea il giurista.

Il tunnel, lungo almeno trenta metri, scavato per raggiungere il deposito dell’Alta corte, parte da un edificio sito in via Njegoševa che costeggia lateralmente la sede di uno dei più alti organismi giudiziari del paese. Alcune fonti interpellate da Vijesti ritengono che la costruzione del tunnel sia durata un mese e mezzo al massimo poiché l’appartamento da cui sono partiti i lavori è stato affittato a fine luglio. Evidentemente si è voluto approfittare del fatto che ad agosto la maggior parte dei dipendenti dell’Alta corte era in ferie.

L'ennesima sconfitta di uno stato debole
Per Sergej Sekulović, consigliere del premier Dritan Abazović ed ex ministro dell’Interno, l’incursione nel deposito dell’Alta corte rappresenta una sconfitta dello stato. Sekulović spiega che questo episodio, su cui va assolutamente fatta chiarezza, ha reso ancora più evidente la necessità di intraprendere profonde riforme del sistema.

“La custodia inadeguata degli oggetti di prova è un problema che si trascina da tempo, solo che veniva affrontato con grande nonchalance, ritenendo impossibile uno scenario come quello degli ultimi giorni. Lo stato deve ritrovare la propria forza e dimostrare chiaramente di essere più forte della criminalità organizzata. Spero che i danni siano minimi, quanto accaduto però dimostra che c’è chi non teme affatto lo stato. Il Montenegro deve riconquistare la stabilità politica perché solo così riusciremo a costruire un sistema giudiziario forte e resiliente”, sostiene Sekulović.

L’ex ministro sottolinea poi che è giunto il momento che tutti gli attori politici e della società civile raggiungano un consenso sulla lotta alla criminalità organizzata.

“Questa questione non può essere oggetto di polemiche. Ovviamente, a condizione che il sistema venga ripulito dall’interno. Siamo di fronte ad un’equazione semplice: un sistema politico instabile e conflittuale equivale ad un sistema di criminalità organizzata e di corruzione stabile e ad alto livello”, conclude Sekulović.

Secondo una fonte di Vijesti ben informata sulle indagini in corso, è stato uno dei dipendenti dell’Alta corte ad accorgersi per primo del disordine nel deposito in cui vengono custodite le prove processuali. Il tunnel invece è stato scoperto solo in un secondo momento, durante il sopralluogo e la stesura dell’elenco degli oggetti mancanti.

Nel corso di una conferenza stampa convocata martedì 12 settembre, Boris Savić, presidente dell’Alta corte, ha dichiarato che l’ingresso del tunnel è stato trovato in un luogo ben nascosto e che sicuramente ci è voluto molto tempo per portare a termine l’impresa, aggiungendo però che nel deposito “non manca quasi nulla”.

Reagendo alle dichiarazioni del presidente dell’Alta corte, Nikola Terzić, capo ad interim della polizia montenegrina, ha affermato di non credere che qualcuno abbia scavato un tunnel fino alla sede dell’Alta corte per puro svago.

“A differenza del presidente dell’Alta corte, il quale ha dichiarato che dal deposito non è stata portata via quasi alcuna prova, io non credo che qualcuno abbia intrapreso un’azione così impegnativa per puro svago. Anche se preferirei che lui avesse ragione e io torto, temo che la verità sia un’altra”, ha affermato Terzić.

Un caso insolito ma non inaspettato
L’avvocato Božo Prelević – noto anche per essere stato il primo ministro dell’Interno serbo dopo la caduta del regime di Slobodan Milošević – afferma di non aver mai sentito parlare di un caso analogo. “Non mi risulta che una cosa del genere sia mai accaduta in nessuna parte del mondo. Tale irruzione non è possibile senza l’aiuto di qualcuno dall’interno. Se un’istituzione [come l’Alta corte di Podgorica] si è rivelata così fragile in termini di sicurezza, significa che ci sono alcuni centri di potere che continuano a sfuggire al controllo dello stato, credendo di essere intoccabili”.

Tea Gorjanc Prelević, direttrice dell’ong Akcija za ljudska prava [Azione per i diritti umani] di Podgorica, ricorda invece alcuni episodi avvenuti negli ultimi anni che, a suo avviso, avrebbero dovuto spingere le autorità ad aumentare il livello di sicurezza delle istituzioni giudiziarie.

“La scomparsa del fascicolo sul caso riguardante le intercettazioni telefoniche di alcuni giudici dell’Alta corte di Podgorica, svelate nel 2011 dal giornalista Petar Komnenić, e poi quell’incendio scoppiato nel Tribunale di Podgorica nel 2016 in cui è andato distrutto l'ufficio amministrativo, dovevano essere interpretati come un avvertimento, un segnale della necessità di innalzare la sicurezza di tutti gli archivi giudiziari del paese ad un livello adeguato e di impegnarsi nell’accertare la responsabilità per gli errori commessi fino ad allora. A quanto pare però, era necessario che qualcuno scavasse un tunnel fino al deposito di un tribunale per rendersi conto di dover finalmente agire. A meno che anche questo buco non venga semplicemente tappato, procedendo come al solito”, commenta Tea Gorjanc Prelević.

Alla domanda se ritiene che quest’anno il Montenegro abbia compiuto qualche progresso nella lotta alla corruzione e la criminalità organizzata, anche nell’ottica del processo di adesione all’Unione europea, Stevo Muk risponde affermando di aspettarsi che la Commissione europea nella sua prossima relazione sul Montenegro riconosca alcuni risultati raggiunti dalla Procura speciale e dal Reparto speciale della polizia montenegrina.

“Mi auguro però che nella sua relazione la Commissione europea metta in luce anche diversi punti di debolezza e l’inefficacia di alcuni altri reparti di polizia, come anche il fatto che non si è mai cercato di sfruttare meccanismi esistenti, previsti dalla Legge sugli affari interni, per ‘ripulire’ la polizia dai quadri la cui integrità professionale risulta compromessa”, conclude il giurista.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #550 il: Gennaio 01, 2024, 17:23:55 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-viaggiare-per-raccontare-228764

Citazione
Romania, viaggiare per raccontare

La storia di una giornalista e un fotografo romeni che da dieci anni vivono in un camper per poter scrivere le loro inchieste su come si vive in Romania e su come vivono i romeni espatriati. Sono Elena Stancu e Cosmin Bumbut: li abbiamo incontrati

22/12/2023 -  Oana Dumbrava
Elena Stancu e Cosmin Bumbut, una giornalista e un fotografo. Da dieci anni vivono in un camper e viaggiano per poter documentare storie di vita romena che pochi conoscono o possono immaginarsi.

Elena ha lavorato per quasi sei anni presso la rivista Marie Claire, dove è stata prima redattrice, poi vice caporedattrice. Cosmin ha scattato foto di moda e pubblicitarie fino all'età di 40 anni, quando ha deciso di lavorare solo su progetti documentari. Un’attività ricca di riconoscimenti per entrambi e una vita che non era male. Ma il vero senso mancava.

Nel novembre 2013, due borse di giornalismo, una del Carter Center e la Fellowship for Journalistic Excellence di BIRN, hanno dato loro il coraggio di rinunciare al monolocale affittato a Bucarest, per trasferirsi insieme in un camper e iniziare un viaggio per osservare come vive la Romania nel profondo.

Hanno iniziato con un progetto sulla cultura della violenza in Romania che è durato più di due anni (“Cicatrice”), poi sono seguite storie sulla vita dei detenuti nei penitenziari romeni, sulle famiglie che vivono in estrema povertà, sulla discriminazione, sul razzismo, sulla mancanza di medicinali negli ospedali romeni.

Storie che sono state pubblicate anche nel libro “Acasa pe drum” (A casa sulla strada). Hanno continuato a vivere in macchina, contando sulle donazioni dei lettori e su altre borse di studio per il giornalismo che si sono susseguite, felici di avere il privilegio di poter fare il loro lavoro attraverso la Romania, un paese dove non è esattamente facile trovare il modo di dare vita a progetti del genere.

Nel gennaio 2019 hanno iniziato a lavorare su "Plecat" (Partito), viaggiando attraverso l'Europa per scrivere e raccontare storie reali sui migranti romeni.

Ed eccoci ora, nel 2023. Sono già dieci anni da quando la coppia vive in un camper per poter fare il lavoro che ha sempre voluto fare.

Curiosa di sapere se possibile quantificarlo, chiedo a Elena – quanti chilometri avete percorso in dieci anni?

Cosmin ha già fatto dei calcoli, perché è proprio a novembre di quest’anno che abbiamo compiuto dieci anni di vita nel camper, una buona occasione quindi per rifletterci sopra. In questi 10 anni abbiamo percorso circa 140.000 km di cui 80.000 in Europa. Abbiamo parcheggiato in 387 posti, il che significa che abbiamo trascorso in media 7,7 giorni in città, villaggi, campi, foreste, parchi o spiagge. Abbiamo dormito 3.000 notti in macchina, il che significa 3.000 notti senza pagare la sistemazione in un albergo o altro.

Noi non siamo viaggiatori nel senso puro del termine. Non è certo la vita più comoda, ma abbiamo il camper per avere una sistemazione sicura e conveniente ovunque vogliamo andare.

Abbiamo bisogno di tempo per documentare tematiche complesse e comprendere tutte le sfumature di grigio che compongono la realtà. La vita in camper ci ha dato il privilegio di lavorare solo su argomenti in cui crediamo e di poterci fermare in un posto finché non abbiamo finito la nostra indagine. Adesso, ad esempio, siamo nei Paesi Bassi per documentare la vita di giovani romeni che hanno deciso di venire qui a studiare. Parcheggiamo dove vivono gli studenti per essere vicini ai nostri soggetti, ma poiché qui è vietato dormire nel camper, siamo costretti a volte anche a nasconderci e spesso a cambiare posto.

Siete quindi sempre “A casa sulla strada”, tra l’altro il titolo di uno dei vostri progetti, a cui è seguito il progetto “Plecat” (Partito). Con il progetto “Partito”, siete stati finora in dieci paesi e avete documentato la vita dei romeni emigrati in Spagna come raccoglitori di fragole, la vita delle badanti romene in Italia, dei lavoratori stagionali in Germania, degli agricoltori in Norvegia, dei musicisti nei Paesi Bassi, degli elettricisti navali che costruiscono navi in ​​Danimarca, dei medici e degli infermieri medici in Inghilterra e in Italia, dei ricercatori romeni in Svezia, cosi via. Secondo la vostra esperienza, in tutte queste comunità e luoghi in cui i romeni sono andati a vivere e lavorare, c’è qualcosa che in qualche modo accomuna queste esperienze? C’è un elemento comune, tipico del romeno che ha lasciato la Romania?

In realtà no, le storie dei romeni che decidono di andare via non hanno quasi nulla in comune. Ed è proprio questo che abbiamo cercato di mostrare. La Romania è il Paese con la più alta percentuale di emigrazione in Europa in rapporto alla popolazione. Ufficialmente, ci sono 5,7 milioni di romeni emigrati.

Abbiamo capito però, che lo stato romeno non ha i mezzi e il metodo necessari per poter fornire dati reali. In Spagna, ad esempio, del milione di romeni emigrati dal 2014, oggi ce ne sono meno di mezzo milione. Questo perché, con l'ingresso nell'Unione Europea e l'abolizione delle restrizioni ai viaggi, i romeni hanno iniziato a scegliere destinazioni come l'Inghilterra e la Germania, e lo stato romeno non ha più seguito le dinamiche migratorie. Non è nemmeno interessato a farlo, perché la situazione è in continua evoluzione. Le ambasciate romene all'estero sono oberate di lavoro, i consolati pure.

Basti pensare che in Germania, per una diaspora di quasi un milione di romeni, ci sono solo un'ambasciata e due consolati. Lo stato non conosce la reale situazione dei romeni emigrati all'estero. Non sa chi sono e cosa devono affrontare. I loro problemi e le loro storie sono molto diversi.

I lavoratori stagionali partono perché non hanno altro modo per guadagnarsi da vivere. Lo stesso vale per i lavoratori portuali che sono partiti per la Danimarca. Dopo la chiusura del porto navale di Mangalia, si sono trovati a 50 anni senza molte opportunità di lavoro e sono dovuti partire. Non hanno intenzione di integrarsi in Danimarca e tornerebbero volentieri a casa se ci fossero altre possibilità.

D'altra parte, i giovani romeni che vanno a studiare nei Paesi Bassi fanno questa scelta per la varietà di opportunità a loro disposizione e potrebbero anche non tornare. Le storie sono quindi molto diverse.

Alcune badanti romene ci hanno detto che per loro l'Italia è stata una fuga dalla violenza domestica. La diaspora è davvero un'altra Romania che va esplorata e compresa.

Le vostre inchieste documentano la vita dei romeni al di là delle cifre, con storie vere, foto, testimonianze: avete mai visto conseguenze concrete dopo la loro pubblicazione?

Siamo stati contattati da un politico romeno che era interessato a progettare un programma per i lavoratori stagionali. Poi siamo stati invitati dal Consiglio europeo per parlare della situazione dei migranti romeni. Anche l'agenzia governativa del Regno Unito ci ha chiesto un supporto per denunciare i bassi salari dei lavoratori stranieri all'estero. Naturalmente, siamo aperti a parlare con chiunque voglia fare la differenza.
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Elena e Cosmin hanno finora realizzato due film documentari:  “Rezidentele” (Le Residente)  sul primo centro della Romania per le detenute con problemi di salute mentali e “Ultimul caldărăr”( L’ultimo caldărăr) che racconta la storia di una giovane famiglia rom in viaggio per la Francia per recuperare rottami metallici nelle discariche. Il film ha vinto, tra gli altri, il Premio Speciale al Millenium International Documentary Film Festival Bruxelles 2017, il Picture Award al Docuart Film Festival 2016 ed è stato selezionato, al Making Waves New York 2017 e al Let's CEE Film Festival di Vienna 2018.

Hanno pubblicato il libro “Acasa pe drum“ (A casa sulla strada) e le loro storie sono disponibili sul sito https://teleleu.eu/
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Ma quello che ci auguriamo è che le nostre indagini abbiano un effetto molto più profondo. Che costruiscano ponti tra i romeni che sono partiti e quelli che sono rimasti. E di sfatare i miti e i pregiudizi che alcuni hanno sugli altri. Non passa mese senza che riceviamo messaggi di persone che ci ringraziano perché si sono ritrovate nelle nostre storie o perché, grazie alle nostre storie, hanno potuto capire meglio la situazione dei loro vicini e delle persone che vivono in contesti sociali diversi. Al festival letterario Filit di Iasi, ad esempio, tre o quattro dei giovani che hanno letto la nostra serie sulle badanti romene in Italia avevano le loro madri lontane che facevano proprio questo lavoro. È stato interessante per loro vedersi nelle storie e, allo stesso tempo, rendersi conto che non sono soli.

Quello che fate quindi va oltre un semplice approccio giornalistico...

Sì, quello che facciamo ha poco a che fare con le cosiddette news. Noi entriamo nella profondità della storia e del problema. Parliamo di identità, di traumi transgenerazionali, di come questi traumi vengono trasferiti da una generazione all'altra. E con questi temi al centro dell'attenzione, anche noi ci chiediamo: ma cosa stiamo facendo in realtà e come possiamo chiamarlo? Giornalismo? Antropologia?

Le idee per i progetti nascono dai vostri interessi e dalle vostre curiosità. Cosa vedete nel futuro?

Abbiamo un’agenda infinita di idee e non ci basterebbe una vita per portarle a compimento. Nel 2014 avevamo inserito il progetto “Partito” nella nostra agenda e ci stiamo ancora lavorando. Il nostro è un lavoro lungo e faticoso non solo perché i temi sono complessi e molto ampi, ma anche perché è emotivamente drenante.

Viviamo attraverso i nostri soggetti, entriamo in empatia con le loro storie per capirle in profondità. E a volte ci manca la vita normale. È bello sapere dove si dormirà stanotte, è bello incontrarsi con gli amici, perfino lavarsi senza problemi. Noi abbiamo perso questa normalità. Se ci pensate, anche i romeni in diaspora possono scegliere di integrarsi nella loro comunità. Noi non possiamo farlo, ci integriamo nella vita delle persone e nelle storie che documentiamo. E poiché ogni giorno abbiamo così tanti problemi da risolvere, non possiamo pensare a nuovi progetti. Ci aspetta ancora un anno di indagini in Francia e in Belgio, più di 100mila foto da editare, poi finalmente pubblicheremo il nostro libro "Partito" e ripartiremo con un tour per promuoverlo. Infine, e meritatamente, torneremo per una breve pausa nella nostra mansarda ad Alba Iulia. Questo è il progetto per il futuro.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #551 il: Gennaio 01, 2024, 17:32:05 pm »
Dice il solito italiano medio. affetto e afflitto da esterofilia cronica:
"Certe cose succedono SOLO in Italia!"
Ah no, cazzo, siamo in Serbia...

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Elezioni-in-Serbia-il-trionfo-dei-brogli-229168

Citazione
Il Partito progressista serbo (SNS) ha ottenuto la maggioranza dei voti nelle elezioni straordinarie del 17 dicembre. L'opposizione contesta il risultato, un politico dell'opposizione è in sciopero della fame, i cittadini protestano in strada e gli osservatori internazionali denunciano diverse irregolarità durante le votazioni

21/12/2023 -  Antonela Riha Belgrado
Stando agli ultimi dati ufficiali  , sulla base del 99,66% delle schede scrutinate, alle elezioni politiche anticipate il Partito progressista serbo (SNS) ha conquistato il 46,7% dei voti, seguito dalla coalizione delle forze di opposizione “Srbija protiv nasilja” [La Serbia contro la violenza] con 23,69% dei voti.

Al terzo posto si è attestato il Partito socialista serbo (SPS), che ha subito un calo di consensi rispetto alle elezioni precedenti, ottenendo appena il 6,55% delle preferenze. Superano la soglia di sbarramento anche la coalizione di destra “Nada” [Speranza] e il movimento “Mi – Glas iz naroda” [Noi – Voce del popolo] guidato dal dottor Branimir Nestorović che, pur avendo in passato partecipato alle varie tornate elettorali, alle elezioni di domenica per la prima volta si è presentato con una lista indipendente.

Non è passato inosservato il fatto che alcune forze di destra, che dopo la tornata precedente erano riuscite ad entrare in parlamento, questa volta non hanno superato la soglia di sbarramento. Anche la lista dell’ex presidente della Serbia Boris Tadić è rimasta al di sotto dello sbarramento.

Contemporaneamente alle elezioni politiche, si sono tenute anche le elezioni per il rinnovo del parlamento della provincia autonoma della Vojvodina, nonché le elezioni amministrative in 65 municipalità e comuni, Belgrado compresa. Stando agli ultimi dati diffusi  , nella capitale l’SNS è in testa con il 39,35% dei voti, seguito dal movimento di opposizione “La Serbia contro la violenza” con il 34,26% dei voti. Entrano in consiglio comunale anche la coalizione NADA, l’SPS e il movimento Noi – Voce del popolo.

“Una vittoria assoluta che mi rende estremamente felice. Un risultato migliore rispetto alla tornata del 2022”, ha commentato a caldo il presidente Vučić dopo la chiusura dei seggi.

L’opposizione civica e filoeuropea riunita attorno al movimento “La Serbia contro la violenza” chiede la ripetizione delle elezioni a tutti i livelli. Intanto, i media indipendenti continuano a riportare notizie sulle irregolarità registrate durante il voto.

Gli autobus di Dodik e il treno bulgaro
Già nel corso della giornata del voto è stato pubblicato un video  in cui si vedono alcune persone che scendono dagli autobus davanti all’Arena di Belgrado, per poi essere indirizzate dagli addetti alla sicurezza verso i luoghi dove dovevano votare, o persino accompagnate ad alcuni seggi elettorali a Belgrado.

Come emerso successivamente, quelle persone erano cittadini della Republika Srpska che possiedono la cittadinanza serba, e quindi hanno il diritto di votare alle elezioni parlamentari in Serbia. Ovviamente, potevano votare anche nel luogo in cui vivono, ma arrivando a Belgrado hanno approfittato dell’occasione per votare anche alle elezioni comunali, pur non avendone diritto, dato che non risiedono nella capitale serba.

Quando i membri della Commissione elettorale centrale (RIK) appartenenti all’opposizione sono arrivati all’Arena per vedere cosa stava accadendo, le guardie private hanno impedito loro di entrare  . Anche Nenad Nešić, ministro della Sicurezza della Bosnia Erzegovina, ha votato a Belgrado  , vantandosene sui social. Punti di raduno degli elettori sono stati rilevati anche in altre città serbe, soprattutto lungo il confine con la Republika Srpska. Recatosi presso un seggio elettorale a Belgrado, il presidente della RS Milorad Dodik ha votato davanti alle telecamere  , contrassegnando la lista “Aleksandar Vučić – la Serbia non si deve fermare”.

Stando alle stime dell'opposizione, circa 40mila persone hanno dichiarato una residenza falsa a Belgrado pur di poter votare. In molti condomini sono state ritrovate schede di voto false, indirizzate a persone sconosciute a chi ci vive. Il fenomeno è stato segnalato all’opposizione, ai media indipendenti e all’organizzazione CRTA  che si occupa del monitoraggio delle elezioni.


L’opposizione sostiene  che non solo a Belgrado, ma anche in altre aree del paese si sia assistito ai casi di falso trasferimento di residenza dai comuni non interessati dalla tornata elettorale a quelli in cui si è votato, influenzando così l’esito del voto. I media hanno riportato diversi casi di compravendita di voti  , il cosiddetto "treno bulgaro"  , ossia il ricorso a schede precompilate, il trasferimento delle schede elettorali  da un seggio all’altro, votavano anche le persone non iscritte all’elenco degli aventi diritto e persino i morti. Gli osservatori dell’organizzazione CRTA che hanno monitorato le elezioni, registrando numerose irregolarità, sono stati aggrediti presso un seggio elettorale e la loro auto è stata vandalizzata  .

Anche gli osservatori internazionali hanno denunciato  “gravi irregolarità, tra cui la compravendita di voti e la pratica di inserire le schede precompilate nell’urna”. Stefan Schennach, capo della delegazione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa che ha monitorato le elezioni, ha dichiarato esplicitamente che le elezioni non sono state eque e che Vučić ha dominato la campagna elettorale. “Il presidente è una figura neutra che dovrebbe rappresentare il paese e tutti i cittadini. Eppure, l’attuale presidente ha dominato il processo elettorale, comportandosi come se fosso candidato alle elezioni, dal livello locale a quello centrale”, ha affermato  Schennach, aggiungendo che durante lo spoglio dei voti ha visto alcune schede elettorali false, però regolarmente timbrate.

Anche i media internazionali parlano delle manipolazioni elettorali in Serbia. Un altro aspetto che balza agli occhi è che, a differenza delle tornate elettorali precedenti, questa volta dalle capitali occidentali non sono arrivati i soliti complimenti ai vincitori. Il ministero degli Esteri tedesco ha sottolineato  che l’abuso delle risorse pubbliche e le intimidazioni nei confronti degli elettori sono inaccettabili in un paese candidato all’adesione all’UE. Washington ha invitato  le autorità serbe a “indagare sulle denunce di irregolarità elettorali sollevate dagli osservatori internazionali”.

Alieni
L’opinione pubblica serba, almeno quella parte che si oppone all’attuale regime, non è rimasta stupita dalle irregolarità elettorali. Da quando il partito del presidente Vučić è salito al potere, tutte le tornate elettorali sono state caratterizzate da pressioni sugli elettori, violenza e furto di voti. A sorprendere invece è l’enorme successo della lista “Noi – Voce del popolo” guidata dal Branimir Nestorović  .

Rinomato pneumologo di Belgrado, Nestorović è salito alla ribalta della cronaca quando, dopo lo scoppio della pandemia da Covid 19, ha dichiarato che il coronavirus è “il virus più ridicolo della storia dell’umanità”. Quando dall’Italia ormai giungevano notizie sulle tragiche conseguenze del virus, il dottor Nestorović ha invitato i cittadini ad andare a fare shopping a Milano. Ben presto è diventato una star dei tabloid e delle emittenti di regime dove diffondeva varie teorie del complotto, da quella sugli aerei che controllano le nostre onde cerebrali a quella secondo cui le persone con gli occhi verdi e azzurri discendono dagli alieni e quella sulle porte del tempo dietro alle quali gli aerei spariscono per poi ritornare dopo diciassette anni. È arrivato persino ad affermare che la Terra “in realtà è un disco piatto, solo leggermente inclinato”. Col tempo ha conquistato molti sostenitori, tanto che i video che pubblica sul suo canale YouTube raggiungono centinaia di migliaia di visualizzazioni.

Nestorović aveva partecipato alla precedente tornata elettorale con una coalizione di destra, ora invece con una lista indipendente è riuscito a superare la soglia di sbarramento non solo alle elezioni parlamentari, ma anche a quelle amministrative a Belgrado. Considerando che – come dimostrano i dati pubblicati finora – alle elezioni nella capitale nessun partito ha conquistato la maggioranza assoluta dei voti, e che quindi le alleanze post-elettorali saranno decisive per formare un nuovo governo, Nestorović potrebbe fungere da ago della bilancia.

Quanto ancora?!
Il giorno dopo le elezioni, lunedì 18 dicembre, a Belgrado sono iniziate le proteste. I leader della coalizione “La Serbia contro la violenza” si sono chiusi nei locali all’interno dell’edificio in cui si trova la sede della Commissione elettorale centrale (RIK) e Marinika Tepić, capolista della coalizione, ha avviato uno sciopero della fame. Ogni sera alle 18 i cittadini si riuniscono davanti alla sede della RIK per sostenere l’opposizione che protesta e per denunciare brogli elettorali. Se in un primo momento il movimento guidato da Marinika Tepić si era focalizzato su Belgrado, dove con ogni probabilità si sono verificati i brogli più massicci, mercoledì 20 dicembre, spinti anche dal moltiplicarsi delle critiche avanzate da osservatori internazionali, i leader dell’opposizione hanno deciso di chiedere l’annullamento delle elezioni a tutti i livelli.

Il presidente Vučić non è un leader politico disposto ad ammettere i propri errori, figuriamoci i brogli. Vede la via d’uscita dalla situazione a Belgrado in Nestorović, quindi in un uomo, reso popolare proprio dai media filogovernativi, la cui biografia politica assomiglia ad un progetto ideato dal regime. Dopo la chiusura dei seggi Vučić ha dichiarato che [a Belgrado] non intende coalizzarsi con nessuno, di certo non con l’opposizione, aggiungendo che comunque aspetterà i risultati definitivi. “Se Branimir Nestorović non appoggia nessuno, le elezioni verranno ripetute”.

Se si dovesse decidere di ripetere le elezioni a Belgrado, potrebbero tenersi in primavera, contemporaneamente alle amministrative in altre città già in programma. Vučić può scegliere se utilizzare Nestorović come un asso nella manica o acuire la crisi a Belgrado. Ormai da più di sei mesi una parte della popolazione scende in piazza per protestare, e in questi giorni alle manifestazioni davanti alla sede della Commissione elettorale è molto evidente la partecipazione dei giovani. Gli studenti hanno annunciato che, qualora il governo non dovesse esaudire la loro richiesta di verificare l’elenco degli aventi diritto, dalla settimana prossima inizieranno a bloccare alcune zone di Belgrado. Protestano tenendo in mano striscioni con la scritta: “Quanto ancora?!”.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #552 il: Febbraio 10, 2024, 15:14:40 pm »
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Azerbaijan/Azerbaijan-le-elezioni-piu-imbarazzanti-di-sempre-229834

Citazione
Azerbaijan, le elezioni più imbarazzanti di sempre

Nonostante lo scontato trionfo dell'attuale presidente Ilham Aliyev, le elezioni presidenziali anticipate del 7 febbraio in Azerbaijan sono state segnate ancora una volta da violazioni, brogli ed atteggiamento aggressivo nei confronti di osservatori e giornalisti indipendenti

09/02/2024 -  Arzu Geybullayeva
La tornata elettorale dello scorso 7 febbraio in Azerbaijan, per il presidente in carica Ilham Aliyev poteva essere un’occasione per provare a conquistare la vittoria senza compiere le solite violazioni e frodi elettorali  . E per i sei milioni di aventi diritto poteva essere forse un’occasione per vivere, per una volta, elezioni eque e libere. Si è rivelata però un’occasione mancata, considerando le innumerevoli violazioni denunciate e documentate, tra cui voto carosello  [elettori che si spostano di seggio in seggio per votare più volte], brogli  e comportamenti aggressivi  nei confronti di osservatori e giornalisti indipendenti.

Le elezioni si sono tenute in un contesto in cui “le libertà fondamentali di associazione, espressione e riunione pacifica sono state ristrette”, come si legge in un rapporto  pubblicato lo scorso 23 gennaio dall’Ufficio OSCE per le istituzioni democratiche e i diritti umani (ODIHR). D’altra parte, parlando con i giornalisti, i tanti falsi osservatori  , che sostengono di aver monitorato il voto per conto del leader del partito al potere, non hanno potuto nemmeno citare  il nome di quest’ultimo.


Un’era tutt’altro che nuova
A gennaio, nel corso di un incontro con un gruppo di giornalisti dei media filogovernativi, attentamente selezionati, il presidente Ilham Aliyev, parlando  dei motivi che lo hanno spinto a indire elezioni anticipate, ha affermato che la tornata elettorale si sarebbe svolta in “una nuova era”: per la prima volta nella storia dell’Azerbaijan le elezioni si sarebbero tenute in tutto il paese, compresi gli ex territori occupati, riconquistati dall’Azerbaijan dopo la guerra dei 44 giorni del 2020 e l’operazione militare del 23 settembre 2023. Quindi, le prime elezioni a svolgersi in quei territori, secondo Aliyev, dovevano essere quelle presidenziali. Per avvalorare la sua tesi, Aliyev ha portato la sua intera famiglia a votare a Khankendi (Stepanakert in armeno).

Inizialmente era previsto che le elezioni presidenziali si tenessero ad aprile 2025, dopo le politiche in programma a febbraio 2025 e le amministrative a dicembre 2024.

Tutti e sei i candidati che, oltre al presidente in carica, si sono presentati alle elezioni del 7 febbraio, hanno apertamente espresso il loro sostegno  ad Aliyev, il quale invece durante la campagna elettorale non ha mai partecipato di persona a dibattiti televisivi con altri candidati, né tanto meno li ha appoggiati.

Musavat e il Fronte popolare sono stati gli unici partiti di opposizione ad aver boicottato il voto. Gli altri ventitré partiti presenti nel paese, compreso il partito di governo (Partito Nuovo Azerbaijan, YAP), hanno espresso solidarietà e sostegno ad Aliyev in una dichiarazione  rilasciata nell’ottobre dello scorso anno.

In una sua analisi  del contesto alla vigilia del voto, la ricercatrice Hamida Giyasbayli ha sottolineato che le speranze che il governo azero potesse introdurre alcune riforme dopo la seconda guerra del Karabakh sono state deluse, sollevando anche la questione della “direzione in cui si sviluppa la politica interna” dell’Azebaijan.

Dopo la guerra dei 44 giorni del 2020, la situazione in Azerbaijan è solo peggiorata, dalle intimidazioni  online e offline nei confronti degli attivisti pacifisti  che si erano opposti alla guerra del Karabakh del 2020, alle nuove leggi restrittive  sui media, passando per il perseguimento delle critiche online  e dei giornalisti  e attivisti politici  e l’utilizzo delle tecnologie di sorveglianza invadenti  contro i membri della società civile, per citare solo alcune delle misure messe in atto. Ne sono seguiti ulteriori arresti  e repressione contro gli oppositori della leadership di Baku.

L’anno scorso, le autorità hanno arrestato Gubad Ibadoglu, noto economista e professore. La scorsa estate le autorità hanno represso con violenza  le proteste degli abitanti di un villaggio che denunciavano i danni ambientali causati da una miniera d’oro. Poi sono stati presi di mira molti attivisti per i diritti dei lavoratori  , diventando vittime di arresti e intimidazioni  . La situazione è poi ulteriormente deteriorata  con una serie di arresti  contro la piattaforma di informazione indipendente Abzas, a cui hanno fatto seguito l’ennesimo arresto di un esponente dell'opposizione  e altre repressioni  .

Nel frattempo, l’elenco degli arresti politicamente motivati ha continuato, e probabilmente continuerà ad allungarsi, considerando l’esito delle elezioni del 7 febbraio. Al tempo della pubblicazione di questo articolo, secondo la Commissione elettorale centrale (CEC), Aliyev è in testa  con il 92,1% dei voti.

Il partito di opposizione Musavat ha chiesto  l’annullamento delle elezioni, parlando di un “ambiente non libero e iniquo”.

Tutto come al solito
Interpellata da OBCT, la giornalista Ulviyya Ali, che ha seguito le elezioni appena concluse, ha affermato di essere stata sottoposta a pressioni da parte dei rappresentanti della commissione elettorale all’interno di alcuni seggi, notando che molti osservatori indipendenti hanno subito simili pressioni. “Da giornalista, sono stata più volte avvertita e mi è stato detto dove stare e cosa filmare”, ha affermato Ali. Un’altra giornalista indipendente, Lida Abbasli, ha dichiarato all’emittente Meydan che le è stato impedito di filmare e che è stata cacciata da un seggio elettorale.

Anche altri giornalisti che hanno seguito il voto hanno raccontato testimonianze simili, subendo un trattamento che, secondo Alasgar Mammadli, esperto di diritto dei media, è illegale. Molti giornalisti sono stati vittime di pressioni, nonostante nella giornata del voto Mazahir Panahov, presidente della CEC, abbia dichiarato che “non dovrebbero esitare a filmare qualsiasi problema”.

Alla vigilia del voto, almeno tre osservatori indipendenti hanno raccontato a OBCT di tentativi di violazione dei loro account su Telegram. Poi è giunta la notizia, riportata dall’emittente Meydan, che l’Università statale di Baku starebbe utilizzando WhatsApp per la propaganda elettorale. Notizia prontamente smentita dall’Università che ha negato di aver coinvolto i suoi studenti nelle attività di propaganda elettorale.

“Lei mi chiede perché sono qui? So perché sono qui”, ha risposto un elettore ottantenne ad un giornalista del servizio azero di Radio Liberty. Nello stesso reportage, una donna ha affermato di aver votato perché se non lo avesse fatto, i suoi figli avrebbero perso il lavoro. “Non raccontarmi favole”, ha risposto la donna quando il giornalista le ha chiesto quali fossero le sue aspettative nei confronti del nuovo presidente. “Sì, certo, nomineranno mio figlio presidente. Vattene. Non parlo più”, ha detto andandosene dopo essere uscita dal seggio elettorale.

Tuttavia, nessuna di queste storie, né le numerose prove di brogli elettorali, sembrano aver sconcertato un gruppo di osservatori internazionali  che hanno spudoratamente elogiato le elezioni. Tra questi spicca Oracle Advisory Group, rappresentato da George Birnbaum, il quale, dopo aver condotto un’analisi del voto  , ha affermato che l’esito  delle elezioni rappresenta una “vittoria della democrazia”. Birnbaum è noto per essere l’uomo dietro alla campagna denigratoria contro Soros che, secondo un’inchiesta condotta da Buzzfeed  “ha finito per scatenare un’ondata globale di attacchi antisemiti contro l’investitore miliardario”. Stando alla stessa inchiesta, Birnbaum sembra aver giocato un ruolo anche nell’ascesa di Orban al potere.

Anche Salvatore Caiata, membro della delegazione italiana, non sembra minimamente infastidito dalle violazioni registrate durante le elezioni. In un'intervista  rilasciata ai media filogovernativi, Caiata ha dichiarato che i cittadini azeri, a differenza degli italiani, sono stati molto attivi il giorno del voto. Ha capito bene la parte dell'attivismo, ma non le motivazioni sottostanti: non è un compito facile organizzare il voto carosello e altri brogli, così come non è facile temporeggiare e impedire agli osservatori indipendenti di fare i loro lavoro, e infine votare se, alla fine di una giornata di lavoro dura e dinamica, si riesce ancora a trovare il proprio seggio elettorale.

Forse questa svista è dovuta al fatto che Caiata è membro di un gruppo interparlamentare di amicizia tra Azerbaijan e Italia  all’interno del partito Fratelli d'Italia (FDI). È probabile che la controparte azera abbia dimenticato di menzionare come l’intera storia delle elezioni in Azerbaijan – amministrative, politiche o presidenziali che fossero – è macchiata di violazioni e frodi elettorali, poiché il paese non è mai riuscito a soddisfare gli standard fondamentali di elezioni libere, eque, democratiche e trasparenti. Gli esponenti di FDI lo avrebbero saputo se avessero prestato maggiore attenzione durante il loro viaggio in Azerbaijan  l’anno scorso per celebrare il centenario della nascita dell’ex presidente Haydar Aliyev.

Date queste premesse, viene da chiedersi perché il presidente Aliyev durante le ultime elezioni abbia fatto ricorso a così tanti meccanismi di controllo? Probabilmente perché, non avendo alcuna esperienza nello svolgimento di elezioni libere ed eque, aveva paura e voleva evitare un risultato inaspettato. Ed è riuscito ad evitarlo. Questo sarà il quinto mandato del presidente Ilham Aliyev e probabilmente non l’ultimo se la salute gli consentirà di candidarsi anche nel 2031, quando compirà 69 anni.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #553 il: Febbraio 10, 2024, 15:20:35 pm »
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Citazione
Romania e fondi UE: un paese in costante ritardo

Dal 2007, anno dell’ingresso della Romania nell’UE, nel paese sono affluiti oltre 62 miliardi di euro dall’UE. Sarebbero potuti essere di più, ma lo stato romeno non è riuscito ad attirarli tutti. Perché?

06/02/2024 -  Laura Popa
(Originariamente pubblicato dal nostro partner di progetto PressOne  )

Nel gennaio 2007, quando la Romania ha festeggiato la sua adesione all’Unione europea, oltre la metà della popolazione nel paese non aveva fognature, il rapporto PIL/pro capite era inferiore alla metà della media europea e il salario netto medio era di 1.042 lei [circa 210 Euro]. Il paese guardava con fiducia al progetto europeo (il livello di fiducia nell'UE nel 2007 era al 75%) e con speranza alle decine di miliardi di Euro comunitari destinati a strade, acqua, fogne, scuole e ospedali. La Romania sognava di essere un paese moderno.

Sedici anni dopo, il PIL pro capite della Romania è vicino a quello di Ungheria e Polonia, il salario netto medio ha raggiunto i 4.593 lei [920 Euro] e nel paese sono affluiti più di 62 miliardi di Euro dall'Unione europea. Sarebbero potuti essere di più, ma lo Stato non è riuscito ad attirarli tutti. PressOne spiega perché.


La Romania beneficia dei fondi UE sin dalla pre-adesione
La politica di coesione è lo strumento principale con cui l’UE investe nei suoi paesi membri. A che scopo? Ridurre le disparità economiche, sociali e territoriali all’interno del blocco europeo. Dal 2007, la politica di coesione ha portato alla Romania decine di miliardi di Euro.

"Quasi sedici anni dopo l'adesione, la Romania ha contribuito con circa 21 miliardi di Euro al bilancio dell'UE e, parallelamente, ha ricevuto 62 miliardi di Euro. Quindi un saldo positivo di almeno 41 miliardi", spiega Ana-Maria Icătoiu, esperta in materia di accesso ai fondi UE e vicepresidente dell'Organizzazione delle donne imprenditrici UGIR (OFA).

I fondi dell’UE sono affluiti in Romania sin dalla fase di pre-adesione, dando impulso ad alcuni settori, come l’agricoltura.

"Prima di entrare nell'UE, la Romania disponeva di alcuni programmi sul riscaldamento, i cosiddetti programmi PHARE, che hanno permesso di costruire molti impianti di trasformazione. E questo ha dato i suoi frutti, perché ha consentito il passaggio ai fondi europei", spiega a PressOne l'analista economico Constantin Rudnițchi.

Eppure, l’esperienza pre-adesione non sembra aver aiutato molto la Romania. A causa delle difficoltà burocratiche e strutturali e, a volte, della riluttanza dei decisori politici ad utilizzare i fondi europei, che sono molto più severamente controllati, il paese lotta ancora per risorse che altri membri attraggono molto più facilmente.

Nel primo settennato finanziario, quello del 2007-2013, la Romania ha attirato con grandi sforzi burocratici il 91% dei fondi disponibili.

Per il periodo seguente, quello 2014-2020, la Romania aveva a disposizione 41 miliardi di Euro di fondi UE, ma è riuscita ad attrarne solo l'82%.

Oggi la Romania è al suo terzo settennato finanziario: ha a disposizione 46 miliardi di Euro (compresa la parte di cofinanziamento), ma anche i fondi del Programma nazionale di sviluppo rurale (NRDP), con oltre 30 miliardi.

Primo contatto con i fondi UE. Prime priorità
Le prospettive oggi non appaiono però positive. Se l’UE si espanderà, i fondi di coesione che riceverà la Romania saranno molto inferiori a quelli attuali. "È praticamente l'ultimo treno sul fronte della coesione", afferma l'eurodeputato REPER Dragoș Pâslaru.

Dopo l’adesione, la Romania ha potuto accedere ai fondi UE per l’anno finanziario 2007-2013, per un totale di circa 27 miliardi di Euro nell’ambito di sette programmi operativi.

Le priorità all’epoca erano gli investimenti in infrastrutture e accessibilità, ovvero nuove strade. Al secondo posto troviamo la ricerca e l'innovazione, le PMI, l'istruzione e la formazione, l'inclusione sociale e l'ambiente.

"Alla fine del primo periodo di programmazione, 2007-2013, a causa della pessima situazione in termini di assorbimento reale alla fine del periodo, cioè intorno al 2014-2015, perché ogni volta il periodo viene prorogato di un anno o due, sono stati realizzati alcuni escamotage: alcuni progetti di investimento, molti dei quali realizzati dagli enti locali, compatibili con il programma regionale di allora, sono stati finanziati con fondi europei. Pavimentazioni, parchi, strade, investimenti locali", racconta Icătoiu.

Nonostante il denaro stanziato per la Romania nel periodo 2007-2013 non sia stato interamente attratto, i fondi di coesione hanno rappresentato il 35% del totale degli investimenti pubblici effettuati dalle autorità nel periodo in questione, come affermato dall’ex primo ministro Nicolae Ciucă nell’aprile 2023.

Sette anni fatti in dieci
Sette anni dopo, il nuovo ciclo finanziario 2014-2020 è stato negoziato e votato a livello UE per raggiungere gli obiettivi di "Europa 2020". Per il periodo 2014-2022 erano previste ben undici aree di investimento, tra cui ricerca, sviluppo e innovazione, digitalizzazione, PMI più competitive, transizione verso un'economia verde, gestione del rischio e cambiamento climatico, conservazione e tutela dell'ambiente, trasporti e investimenti sostenibili nell’istruzione e nella formazione per combattere ogni forma di discriminazione.

Alla Romania sono stati stanziati 41 miliardi di Euro dai Fondi strutturali e di investimento europei, di cui oltre 35 miliardi dal solo bilancio europeo attraverso la politica di coesione.

Il denaro passa da otto programmi operativi gestiti da tre autorità: il ministero degli Investimenti e dei progetti europei, il ministero dello Sviluppo, dei lavori pubblici e dell'amministrazione e il ministero dell'Agricoltura e dello sviluppo rurale.

Secondo gli ultimi dati, il tasso di assorbimento dei fondi per il periodo 2014-2020 è poco superiore all’84%. La Romania ha ancora tempo fino alla fine dell'anno [2023] per completare tutti i progetti ancora in corso.

Mappa dei finanziamenti europei attratti dalla Romania nel periodo 2014-2020 Foto: Ministero dei Progetti e degli Investimenti Europei
Mappa dei finanziamenti europei attratti dalla Romania nel periodo 2014-2020 Foto: Ministero dei Progetti e degli Investimenti Europei

"Affinché ciò avvenga, in teoria bisogna presentare le fatture entro la fine dell'anno (...) C'è un'altra cosa che può succedere, ovvero detrarre alcune tipologie di spese effettuate e riclassificarle come spese in fondi europei", spiega Pâslaru.

La Romania, ad esempio, spiega l'eurodeputato, ha ottenuto dalla Commissione europea che una buona parte del risarcimento per le bollette energetiche venisse saldato con i fondi europei a sua disposizione. E ora sta cercando di spostare quanta più spesa possibile verso il denaro europeo per aumentare artificialmente il tasso di assorbimento dei fondi.

"Con i tre anni in più che avremo a disposizione per finire i nostri progetti, utilizzeremo poco più dell'80% dei fondi, ma attenzione, non in sette, ma in dieci anni", spiega Rudnițchi.

Secondo l'esperto, la parola che meglio descrive il rapporto della Romania con i fondi europei è "ritardo".

"Tutte le volte partiamo con circa due, tre anni di ritardo nell'anno di bilancio. È quanto ci vuole per accreditare le istituzioni, per preparare l'amministrazione, i progetti, i bandi. Diciamo che nel 2007 ci abbiamo messo un po' per abituarci ai rigori e agli standard europei, ma dal 2013 non abbiamo più avuto scuse. E poiché i progetti arrivano in ritardo, finiscono per essere prolungati", spiega Rudnițchi a PressOne.

Due programmazioni finanziarie sovrapposte
Ecco perché attualmente ci sono due esercizi finanziari sovrapposti: 2014-2020 e 2021-2027. Il primo è stato prorogato di tre anni per consentire di portare a termine il maggior numero possibile di progetti, mentre il secondo è appena iniziato, anche se sono già trascorsi due anni. Il motivo del ritardo? Solo nel luglio 2022 è stato firmato l’accordo quadro di partenariato con la Commissione europea, che costituisce la base per la distribuzione dei fondi della politica di coesione. Solo successivamente sono state accreditate le altre strutture coinvolte nella gestione dei fondi UE.

Per i prossimi anni la Romania disporrà di un budget di 46 miliardi di Euro, di cui quasi 31 proverranno dal bilancio europeo. Il denaro sarà disponibile attraverso sedici programmi operativi, otto nazionali e otto regionali.

Per la prima volta, i budget per gli investimenti nello sviluppo regionale sono stati assegnati alle otto agenzie di sviluppo regionale (RDA) e non saranno più amministrati da un’autorità centrale.

"Penso che il vantaggio della decentralizzazione sia, da un lato, che le RDA hanno esperienza e si muovono più velocemente di un'autorità a livello ministeriale. E sono più vicine alla regione. Possono vedere meglio cosa deve essere sviluppato a livello locale", spiega Rudnițchi.

Lo stato di attuazione dei progetti per i quali la Romania ha richiesto fondi europei nel periodo 2014-2020.  Foto: Commissione europea

Se nel 2007 la digitalizzazione e la transizione verde non erano in cima alla lista delle priorità di investimento, ora sono i pilastri di tutte le linee di finanziamento europee.

"Stiamo parlando di settori come l'energia verde, la riduzione del carbonio, le infrastrutture ambientali, la conservazione della biodiversità, la creazione di spazi verdi, la gestione del rischio e le misure di mobilità urbana sostenibile", afferma l'eurodeputato USR Vlad Gheorghe.

Perché la Romania è in fondo alla classifica quando si tratta di attrarre fondi UE, anche se ne ha grande bisogno
Mentre il settore privato riesce molto bene ad assorbire tutti i fondi ad esso dedicati, con richieste di finanziamento che superano il 1.200% del budget stanziato, il pubblico non se la passa altrettanto bene.

"Da un lato, i grandi progetti infrastrutturali, dalle ferrovie alle autostrade, i progetti di ampliamento delle forniture d'acqua, delle fognature e dell'energia, per ragioni di cui sentiamo parlare in TV, non vengono realizzati. Ciò vale anche per gli ospedali regionali, su cui lavoriamo da 12-13 anni", afferma Icătoiu.

Un’altra spiegazione del basso tasso di assorbimento dei fondi UE si nasconde nei progetti finanziati dal bilancio nazionale.

"Anche se in teoria alla Romania non sarebbe permesso lanciare programmi nazionali, cioè con i fondi del bilancio nazionale, che cannibalizzino i fondi dell'Unione europea, cioè finanziando la stessa cosa, noi lo abbiamo sempre fatto. Quando lei, come sindaco o presidente di un ente locale, vede che i fondi europei hanno un livello di controllo molto alto, soprattutto nelle procedure di appalto, farebbe domanda per i fondi europei o opterebbe piuttosto per un PNDL (Programma nazionale di sviluppo locale), Anghel Saligny? [Anghel Saligny è stato uno dei più famosi ingegneri romeni, autore tra l'altro del ponte ferroviario sul Danubio a Cernavodă, N.d.R]", continua l'esperta.

La Romania, oltre a non attrarre tutti i fondi strutturali e di investimento europei ad essa destinati, rischia di perderli perché i progetti presentati per il finanziamento non sono stati completati in tempo.

Ad esempio, se non tutti i progetti dell’anno finanziario 2014-2020 verranno completati entro la fine di quest’anno [2023], ci sono due possibilità: o il denaro ricevuto viene restituito alla Commissione europea e i progetti vengono chiusi, oppure i progetti continuano, ma con i soldi del bilancio nazionale. Come nel caso degli ospedali cancellati dalla lista dei finanziamenti del PNRR, per i quali il governo ha promesso di chiedere un prestito alla Banca europea per gli investimenti.

Dettagli che riducono il budget per il 2021-2027
Per evitare ciò, ci sono alcune procedure a cui le autorità pubbliche possono ricorrere. Tra queste la cosiddetta procedura di introduzione graduale, secondo la quale i progetti non completati non vengono cancellati, ma semplicemente spostati da un esercizio finanziario all'altro.

"La procedura di cut-off è un classico che la Romania, poiché non fa mai le cose in tempo, ha già utilizzato due volte, ma questa volta è più complicata, perché solo i progetti che soddisfano le condizioni del regolamento 2021-2027 possono essere introdotti gradualmente. Ciò significa solo per quei progetti che non hanno un impatto dannoso sull'ambiente. In altre parole, invece di attirare nuovi progetti nei prossimi anni, dedicheremo parte del tempo al completamento di quelli vecchi", spiega Pâslaru.

Con due anni finanziari sovrapposti, diversi anni di ritardo nell'avvio dei progetti e la passione delle istituzioni per i fondi nazionali, abbiamo chiesto agli esperti quali possibilità ci sono che la Romania possa attrarre più denaro in futuro. Soprattutto quando in gioco ci sono anche i fondi NRDP, e lo Stato deve avviare riforme reali per attirarli.

"Se facciamo le cose esattamente come le abbiamo fatte, con le stesse persone e la stessa mentalità, non cambierà nulla. Voglio dire, torneremo nel 2030 a cercare di chiudere l'assorbimento dei fondi, ma è triste pensare che se l’UE si espande i fondi per la coesione che la Romania ha ricevuto così abbondantemente negli ultimi due cicli saranno molto inferiori", aggiunge l’eurodeputato.

Servono riforme
Nel 2007 la Commissione europea non si fidava dei meccanismi di controllo romeni sui fondi europei, come la Corte dei conti. È stato quindi creato un nuovo livello di istituzioni per garantire che i fondi UE fossero spesi nel rispetto della legge, istituzioni che non esistono in molti altri paesi europei.

"In Romania c'è un trattamento diverso tra i fondi europei e quelli nazionali. Per quelli europei c'è un ministero dedicato e procedure proprie di controllo. Noi abbiamo un trattamento diverso, con bonus salariali del 75% e ogni sorta di procedure. Con fondi nazionali non ci sono né bonus salariali, né procedure di valutazione e monitoraggio, e questo è un problema estremamente serio, è la prima grande riforma che dovrebbe essere fatta in Romania con i fondi europei: mettere tutte le risorse in un unico cassetto", spiega Pâslaru.

La logica a cui dovremmo arrivare, dice il deputato, è che le politiche pubbliche non dovrebbero più dipendere dai fondi europei.

"Il problema principale è che non abbiamo politiche che cambiano da un momento all'altro, o politiche che non sono necessariamente influenzate dai cicli finanziari, praticamente partiamo da zero ogni volta. Quindi facciamo politiche per ottenere fondi europei", è la conclusione tratta dall'eurodeputato.

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Re:La realtà dei paesi dell'Europa dell'est
« Risposta #554 il: Febbraio 10, 2024, 15:23:49 pm »
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Serbia, nessun colpevole per l’omicidio Ćuruvija

A venticinque anni dall’assassinio del giornalista Slavko Ćuruvija e nove dall’inizio del processo contro i quattro imputati dell’omicidio, dopo una prima condanna nel 2019 e la ripetizione del processo, lunedì 5 febbraio il Tribunale d’Appello di Belgrado ha assolto gli imputati

06/02/2024 -  Massimo Moratti
La notizia è giunta alla fine di un venerdì di una giornata particolarmente intensa: poche ore prima, il presidente della Serbia Aleksandar Vučić aveva annunciato che, a causa della situazione in Kosovo, avrebbe richiesto una convocazione del Consiglio di Sicurezza della Nazioni unite. L’attenzione era quindi concentrata sulle vicende relative al Kosovo e su possibili nuove tensioni.

In questo contesto, è arrivata la notizia che il Tribunale d’Appello di Belgrado ha assolto tutti e quattro gli imputati accusati dell’omicidio di Slavko Ćuruvija.

Ćuruvija, giornalista di grande caratura civica, fu ucciso nell’aprile del 1999 dopo aver criticato il regime di Slobodan Milošević e della moglie Mira Marković. A quel tempo, Vučić era il ministro dell’Informazione.

I quattro imputati sono stati personaggi di grande spicco della Državna bezbednost (DB), l’agenzia di sicurezza del ministero degli Interni jugoslavo, erede della famigerata UDBA. Nello specifico, Radomir Marković allora ne era il capo, Milan Radonjić era a capo del dipartimento di Belgrado, Ratko Romić  e Miroslav Kurak due operativi della DB.

Il processo nei confronti dei quattro era iniziato nel 2015 grazie agli sforzi della Commissione per indagare sull’uccisione dei giornalisti in Serbia.  La commissione era stata creata nel 2013 dal governo serbo, in cui Vučić era allora vice primo ministro, ed era il risultato della persistente insistenza di Veran Matić, lo storico caporedattore di B92 ai tempi di Milošević, deciso a far chiarezza sugli omicidi di Ćuruvija, Dada Vujasinović e Milan Pantić. Ai tempi dell’inizio del processo, lo stesso Vučić aveva detto che si sarebbe dimesso  qualora non fossero stati trovati i responsabili.

Un processo travagliato
Sin dall’inizio quello di Ćuruvija è stato definito come un omicidio di stato e si pensava che il processo avrebbe confermato la verità che tutti conoscevano, cioè che a uccidere Ćuruvija era stato lo stesso stato serbo.

Il processo, iniziato nel 2015, ha visto circa un centinaio di testimoni comparire davanti ai giudici, anche se alcuni personaggi chiave, come la moglie di Milošević, Mira Marković  , da molti ritenuta la mandante dell’omicidio, non furono mai sentiti. L’indagine si limitò a considerare i facilitatori e gli esecutori materiali dell’omicidio, senza cercare di scoprire chi furono i mandanti, dato che questo molto probabilmente avrebbe condotto a Mira Marković e Slobodan Milošević.

Altri personaggi chiave che, per la loro appartenenza e il ruolo che ricoprivano alla DB potevano essere indagati  , furono invece sentiti solo come testimoni. Numerosi testimoni poi, nel corso delle udienze, ebbero improvvise amnesie o cambiarono le versioni iniziali. Nel corso degli anni si è poi saputo che lo stesso ispettore che conduceva le indagini era stato minacciato e rischiava la vita  .

La sentenza di primo grado è stata emessa nel 2019 e i quattro imputati sono stati condannati ad oltre cento anni di carcere. In seconda battuta, però, la sentenza fu rovesciata e il Tribunale d’Appello a settembre 2019 ha ordinato la ripetizione del processo. Il processo è stato ripetuto a partire dall’ottobre 2020 e nel dicembre 2021 il Tribunale di prima istanza ha confermato sostanzialmente la decisione precedente per i quattro imputati. Tale sentenza però è stata alla fine annullata dall’assoluzione di venerdì scorso.

I quattro vengono quindi considerati non colpevoli e sebbene in teoria ci sia ancora la possibilità di ricorso di fronte alla Corte Suprema, le possibilità di successo sono decisamente risicate  , come hanno fatto notare gli esperti, e l’assoluzione dei quattro imputati non può esser rimessa in questione. Ad ogni modo, lunedì 5 febbraio la procura ha fatto capire di avere intenzione di presentare ricorso alla Corte Suprema.

Una decisione annunciata
L’assoluzione è una pietra tombale sulle possibilità di avere giustizia nel caso Ćuruvija, ma la decisione non è giunta del tutto inattesa. Sebbene sia stata annunciata solamente lo scorso venerdì, in realtà sembra che fosse già stata presa da diverso tempo.

Lo stesso Veran Matić, nella primavera dello scorso anno, aveva fatto capire  che il Tribunale d’Appello aveva già deliberato sul caso dei quattro imputati. A settembre, lo stesso Matić e la Fondazione Ćuruvija avevano scritto  che in realtà la sentenza era già stata emessa e che il Tribunale aveva assolto i quattro imputati. Ciò nonostante la sentenza non fosse ancora stata pubblicata, dato che si attendeva il momento più opportuno per renderla pubblica  . Lo stesso invito a pubblicare la sentenza era poi stato reiterato dalla Fondazione Ćuruvija a novembre  dello scorso anno.

Le autorità non hanno fornito spiegazioni sul perché la pubblicazione della sentenza sia stata ritardata di così tanti mesi. È possibile che le proteste di piazza contro il governo e l’infuocato clima elettorale siano stati gli elementi che hanno consigliato di ritardare la pubblicazione della sentenza, per non esacerbare ulteriormente gli animi.

Le reazioni e le proteste
Nonostante il contenuto della sentenza fosse stato largamente anticipato e il fatto che la notizia sia stata comunicata poco prima del weekend, la decisione sull’assoluzione ha comunque provocato parecchio scalpore in Serbia.

Perica Gunjić della Fondazione Ćuruvija  è lapidario: “La decisione è scandalosa e rappresenta una sconfitta non solo per i giornalisti e la libertà di stampa, ma per l’intera indipendenza del sistema giudiziario e per lo stesso processo di democratizzazione”.

In quanto al processo Gunjić commenta che “il tribunale durante l’intero processo ha adottato molte decisioni strane, che indicavano che c’era qualcosa di storto. Le stesse due decisioni di prima istanza sono state scritte in modo approssimativo, come se vi fosse l’intenzione di farle annullare in seconda istanza”. Questa decisione, conclude Gunjić rappresenta il “ritorno immediato agli anni '90, al periodo più buio della nuova storia della Serbia, ai tempi delle guerre, ai tempi di Slobodan Milošević”.

Matić ha poi commentato che è venuta meno sia la volontà politica che il ruolo delle istituzioni, soprattutto per quanto riguarda il settore giudiziario, che di fatto rimane ancorato agli anni ‘90.

Lo stesso Matić ha poi commentato che nei prossimi giorni discuterà sul futuro della commissione che indaga l’uccisione dei giornalisti e su quanto abbia ancora senso che esista. Unione Europea, OSCE e numerosi altri membri della comunità diplomatica hanno espresso la propria delusione per l’assoluzione.

Lunedì 5 febbraio inoltre si è tenuta una protesta davanti al Tribunale d’Appello di Belgrado, organizzata dalle associazioni di giornalisti: i manifestanti sono stati in silenzio per 25 minuti davanti al Tribunale, a simboleggiare i 25 anni di silenzio dall’omicidio Ćuruvija.

Le reazioni del mondo giudiziario e politico
Lunedì 5, il Presidente del Tribunale d’Appello di Belgrado ha pubblicato un comunicato  in cui, mentre comprende l’insoddisfazione della famiglia e degli amici di Ćuruvija, ha specificato che il Tribunale ha giudicato in base alle prove contenute nel caso e che non erano sufficienti a sostenere le tesi dell’accusa.

La premier Ana Brnabić ha dichiarato di non poter commentare la decisione del Tribunale dato che il potere giudiziario è indipendente. La Brnabić ha sottolineato come i procedimenti fossero comunque iniziati solo dopo 16 anni dopo l’assassinio, grazie all’arrivo al potere di Vučić. Come cittadina, però, ha detto che cercherà giustizia.

La ministra della Giustizia, Maja Popović si è detta invece profondamente delusa  dalla decisione del Tribunale d’Appello, dicendo che il sistema giudiziario non ha svolto la sua funzione. Lo stesso Vučić nella tarda serata del 5 febbraio ha detto di esser scioccato dalla decisione  , che rappresenta una grande ingiustizia e un fatto terribilmente grave per il paese.

La sensazione predominante tra coloro che hanno seguito il processo è di rabbia ed impotenza, ma allo stesso tempo si insinua la cupa consapevolezza che le forze che hanno dominato la Serbia nel corso degli anni ‘90 siano ancora all’opera, come ha commentato Jelena Ćuruvija, la figlia del giornalista ucciso  .

Simbolicamente, il giorno dopo l’assoluzione, di primo mattino sulla televisione filogovernativa Pink, Aleksandar Vulin, ex direttore della BIA, l’agenzia che ha rimpiazzato la DB ed ex membro di spicco del partito di Mira Marković negli anni ‘90, dichiarava apertamente che il compito della sua generazione è quello di riunire tutti i serbi ovunque essi vivano  e che tale processo è già iniziato e non si può fermare.

Parole che riecheggiano molto da vicino l’idea della Grande Serbia e che riportano alla mente gli anni ‘90.