Riporto qui l'articolo di un avvocato del Rotary Club, in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne. Il Rotary Club è un'organizzazione notoriamente massonica e proprio nulla vieta di vedere una correlazione tra reti muratorie sparse per il globo e il progressivo espandersi del femminismo.
Riporto qui l'articolo per confrontare il diritto di ieri e di oggi. Per ragioni legali eviterò commenti che dovrete intuire in privato. Mi limito solo a dire che non approvo necessariamente tutto del vecchio ordinamento, inclusi i passaggi evidenziati (di cui bisogna cogliere il succo al di là del contesto ottocentesco) e che mi sono sempre pronunciato (e ci mancherebbe) contro la violenza sulle donne; ma da ogni prova il modello attuale non sembra affatto funzionare, ha bisogno di continue forzature e in ogni caso sta portando la società al collasso demografico.
Appunti tratti dalla conferenza tenuta dall’avvocato S. T., past presidente del Club, al Rotary di N. su: <<Donne e…diritto>>.
Il relatore si è soffermato su cinque date storiche molto importanti per la problematica concernente le donne ed il mondo giuridico:
- fino al 1983 era in vigore il cosiddetto ius corrigendi del marito nei confronti della moglie;
- fino al 1969 l’adulterio della moglie era reato;
- fino al 1975 (data della riforma del diritto di famiglia) esisteva la “patria potestà” esclusiva del marito nei confronti di tutti i componenti della famiglia, compresa la moglie sulla quale aveva la “potestà maritale”;
- fino al 1981 era in vigore in Italia il famigerato “delitto d’onore”;
- il 1996 anno della legge sulla violenza sessuale, che diviene reato contro la persona e non più contro la morale.
Interessante e molto seguita la conferenza anche nella parte relativa alle donne nel mondo delle libere professioni. L’avvocato T. ha ricordato come solo con una legge del 1919 è stato consentito l’ingresso delle donne nell’avvocatura; solo negli anni trenta si ha in Italia la prima donna notaio Adelina Pontecorvo e solo con una legge del 1963 viene consentito l’ingresso delle donne in magistratura. Solo nel 2005 - presidente della Repubblica Ciampi - si ha l’ingresso della prima donna quale giudice costituzionale alla Consulta, dopo 54 anni di storia repubblicana.
E’ piaciuto al relatore concludere l’interessante conferenza con le parole della Presidente del Brasile, Dilma Russeff, recentemente eletta: “Mi piacerebbe molto che i papà e le mamme del Brasile guardassero in quest’istante negli occhi le loro bambine e dicessero loro: Sì le donne possono”.
Primo approfondimento:
La radice della violenza sulle donne è profonda e radicata nella cultura, e va ricercata nella storia di questo Paese e in alcune date, che rilette oggi fanno impressione. Eccole:
- Fino al 1963 era in vigore in Italia il cosiddetto “ius corrigendi” che dava al marito il diritto di picchiare la moglie rea di aver commesso qualche errore (a suo insindacabile giudizio, basta che non andasse contro la morale comune).
- Fino al 1968 l’adulterio era reato. Per le donne fedifraghe era prevista la carcerazione fino a due anni, mentre gli uomini erano impuniti, a meno che la relazione extraconiugale non fosse di dominio pubblico. Era lecito cioè che l’uomo tradisse la moglie, basta che lo facesse in segreto, o almeno con discrezione, perché altrimenti offendeva la famiglia e la morale sulla pubblica piazza (non interessava l’offesa arrecata alla moglie).
- Fino al 1975 l’uomo aveva il controllo esclusivo della vita della famiglia ed esercitava la “patria potestà” su tutti i componenti, moglie compresa. La quale – per fare un esempio – non era libera neppure di scegliere il proprio luogo di residenza, essendo obbligata a seguire il coniuge ovunque lui la portasse (pena la denuncia per abbandono di tetto coniugale). Solo l’introduzione del nuovo diritto di famiglia ha abolito la potestà maritale e ha stabilito la parità tra i coniugi, riconoscendo a entrambi uguali doveri e diritti.
- Fino al 1981 era in vigore in Italia il famigerato “delitto d’onore”. Secondo questa aberrante legge l’uomo che uccideva la moglie (o anche la figlia o la sorella) «nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onore suo e della sua famiglia» aveva diritto alle attenuanti e a una pena limitata da tre a sette anni. Al contrario, la donna che uccideva il marito in circostanze analoghe, era condannata all’ergastolo.
- Ultima data, ma particolarmente significativa per la vicinanza temporale ai giorni nostri, è il 1996, quando dopo vent’anni di litigi, rinvii e tribolazioni è stata approvata la legge sulla violenza sessuale, che ha finalmente riconosciuto la violenza contro le donne un reato contro la persona e non più conto la morale.
Questa breve carrellata basterebbe secondo me a spiegare come sia ancora radicato negli uomini il concetto di possesso e di controllo sulle proprie compagne.
Quanti anni ci vogliono per cambiare la mentalità di un popolo? A leggere le cronache di questi giorni si deduce che quelli trascorsi dall’introduzione di queste leggi sono comunque troppo pochi per far capire che le donne non sono proprietà di nessuno.
Secondo approfondimento:
Il regolamento Bonghi aveva aperto l’accesso alle Università alle donne ma, come già anticipato, il raggiungimento del titolo di studio non significava per le stesse il diritto o il potere di esercitare un’attività coerente.
In particolare, la donna era ritenuta esclusa dalle professioni giuridicamente protette e la preclusione, per la stessa, era così forte che non vi era neppure bisogno di esplicitare divieti: non aveva senso che essa seguisse corsi di istruzione secondaria ed universitaria e che aspirasse a dei titoli che non le avrebbero permesso nulla.
Radicato era, inoltre, il preconcetto che, comunque, la frivolezza e la vanità femminile impedissero alle donne di applicarsi con costanza ed assiduità a studi e lavori intellettuali seri e che, se anche esse fossero riuscite nei primi, l’eccesso di fatiche scolastiche avrebbe provocato indebolimento e fatica fisica e mentale nelle donne, che i lavori intellettuali avrebbero fatto loro perdere la femminilità e la grazia.
La limitazione degli studi femminili avveniva poiché era comune un modo di vedere la natura della donna con un fine esclusivamente domestico e privato, poiché si diffondeva la paura della rottura di un modello di vita familiare ove i ruoli di ciascuno erano ben distribuiti e per nulla intercambiabili e, inoltre, per evitare il rischio che, da una crisi della famiglia, si arrivasse a quella della società. Non ultimo, esisteva la preoccupazione che le laureate potessero togliere lavoro agli uomini.
Queste “credenze” creavano anche ostacoli materiali e psicologici e producevano nelle donne, che per prime si affacciavano al mondo di queste professioni, l’ulteriore timore di contaminazione spirituale e morfologica con il sesso maschile e la volontà di dimostrare che il valore del loro sesso sopravviveva indenne all’emancipazione e all’uscita dall’orbita domestica.
Alcune donne cominciarono, dunque, ad infrangere questi limiti.
Fu Torino la città italiana che fino al 1912 registrò il più alto numero di professionalità femminili. Dalla Guida Lydel, opuscolo a cura della rivista La donna, si legge che nella città in quell’anno erano presenti: 40 professoresse (di cui 11 sposate), 9 donne medico, 3 donne ingegneri, 2 avvocatesse. Per quel che concerne le ultime tre categorie si deve ritenere che le donne pur disponendo di un idoneo titolo di studio, difficilmente abbiano esercitato la professione.
Le donne avvocato Lidia Poët, di famiglia valdese, si laureò a Torino in giurisprudenza nel 1881: ottenuta l’iscrizione come praticante forense e frequentate le udienze dei tribunali in qualità di uditrice, chiese l’iscrizione all’albo degli avvocati di Torino.
L’ordine degli avvocati il 09 agosto 1883 accolse la sua richiesta, avendo la richiedente tutti i requisiti previsti dalla legge (la legge professionale del 1874 richiedeva per ottenere l’iscrizione all’Albo degli Avvocati tre requisiti: l’essere cittadino italiano, il non aver subito condanne penali e l’aver conseguito la laurea in giurisprudenza), ma la Corte d’Appello di Torino, su ricorso del Pubblico Ministero, revocò l’iscrizione. La Poët ricorse allora in Cassazione, ma questa, l’anno successivo, si oppose nuovamente alla richiesta.
I motivi edotti dalla Corte d’Appello per rigettare l’ammissione della Poët all’ordine degli avvocati si appellavano a considerazioni tratte dal diritto comune e dalla legge naturale affermando che “sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorandosi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche loro malgrado potrebbero essere tratte oltre i limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare”.
Si notava, inoltre, che “la toga o il tocco dell’avvocato, sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri che non di rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre” avrebbero perso la loro solennità e ne sarebbero rimasti discreditati. Si sosteneva anche che l’avvocatessa avrebbe potuto innamorarsi dei propri clienti o far innamorare i giudici [confermato persino da alcuni utenti di questi spazi], ci si richiamava all’incostanza e passionalità del comportamento femminile, al suo umore imprevedibile e si temeva infine che la donna, divenuta avvocato, potesse poi diventare pretore, giudice e persino consigliere d’Appello o di Cassazione, prospettando un futuro incerto, scandaloso, minaccioso.
La sentenza della Cassazione, pur riconoscendo le qualità della Poët per gli studi compiuti con profitto, per le sue virtù e la sua forza d’animo, si appellò, per rigettare il ricorso, più giuridicamente alla tradizione di inesistenza di donne nella professione, alla mancanza di esplicita ammissione, in qualsivoglia articolo di legge, del diritto delle donne all’esercizio del patrocinio giudiziario ed insistette sul fatto che quella dell’avvocato era “una funzione pubblica” e, come tale, preclusa alle donne “per ragioni d’indole morale e sociale, non meno che per l’interesse della famiglia, che è la base della società”. Pertanto, si confermò la decisione della Corte d’Appello (la sentenza della Cassazione torinese è pubblicata in E. OLLANDINI, Le donne e l’avvocatura, Tipografia La Celere, Genova, 1913, pagg.244 e ss).
Il caso Poët suscitò polemiche, dibattiti, interpellanze parlamentari, conferenze, articoli, saggi giuridici, in anni successivi: solo però con l’approvazione, a larga maggioranza, della legge n.1176 del 17 luglio 1919, che all’art.7 sancì l’ammissione delle donne “a pari titolo degli uomini, a esercitare tutte le professioni ed a coprire i pubblici impieghi”, esso trovò una soluzione. La Poët, che nel frattempo collaborava con il fratello, potè dedicarsi direttamente all’avvocatura.
Nel frattempo altre donne si erano laureate in giurisprudenza (Silvia Giaccone di Mondovì, la Pigorini di Ancona, Romelia Troie - caso di mobilità sociale ascendente: da telegrafista ad avvocato), ma l’iter che aveva conosciuto la Poët fu anche il loro.
Un caso particolare fu quello di Teresa Labriola che, in quanto libera docente di filosofia del diritto all’Università di Roma, automaticamente avrebbe dovuto godere del diritto all’iscrizione nell’Albo degli avvocati, avvocati la cui estraneità dai pubblici ufficiali era stata ribadita dal codice penale del 1889. Questo almeno accadeva per gli uomini che disponevano di un ugual curriculum vitae e studiorum. Invece, anche in questo caso, malgrado la deliberazione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma di accettare l’istanza di iscrizione dell’11 luglio 1912, la richiesta della Labriola venne impugnata dalla Procura Generale di Roma ed il suo ricorso rigettato dalla Corte d’appello di Roma in data 30 ottobre 1912.
La Corte, nelle motivazioni, affermò che se pur “l’avvocato non e(ra) un pubblico ufficiale”, la sua attività aveva “attinenza, e moltissima, con il diritto pubblico” ed aveva attinenza con i poteri giudiziari, e ritenne inoltre che era assurdo dar luogo ad una interpretazione estensiva delle leggi vigenti in un codice che, di fatto, non ammetteva tale astensione, bensì delimitava l’attività della donna.
Si terminava affermando che la tenace coscienza universale dell’incapacità femminile avrebbe potuto essere scalfita solo da una legge che affermasse esplicitamente il contrario (le citazioni sono tratte dalla sentenza della Corte d’Appello di Roma del 30/10/1912 contro la delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di accettare l’istanza d’iscrizione all’Albo di Teresa Labriola).
Il sesso femminile doveva attendere.
Nell’attesa queste donne laureate e preparate occupavano il loro tempo collaborando con il padre o i fratelli avvocati in studi giuridici o prestando le loro competenze a periodici femminili, che sostenevano i diritti delle donne e i motivi dell’emancipazionismo femminista e suffragista, oppure agendo come apprezzate conferenziere per diffondere e sostenere i diritti negati.
Le laureate in giurisprudenza si distinguevano per possedere alcuni requisiti di carattere: furono donne attive, caparbie, intraprendenti, provenienti generalmente da famiglie di tradizione forense, in cui, spesso, già il padre o un fratello avevano intrapreso studi giuridici o disponevano di uno studio legale, e le ragazze si apprestavano ad emulare questi esempi, rendendosi disponibili a collaborare con essi.
In un’inchiesta apparsa negli anni ’30, anni dopo l’approvazione della legge sull’ammissione delle donne a professioni e pubblici impieghi, su Fiamma Viva, mensile delle élite della Gioventù femminile cattolica, si affermò che le avvocatesse italiane in realtà esercitavano la professione in ombra, collaborando “in famiglia: figlie o sorelle di avvocati, diventa[va]no il loro braccio destro nello studio, sa[peva]nno surrogare, fare il lavoro più minuto o meno appariscente” (Fiamma Viva, marzo 1930, pagg.155-58). Il pericolo che si agitassero nella forense palestra, quindi, non si era concretizzato e le donne pur presenti agivano nelle retrovie di una professione che continuava ad essere maschile.
Nel 1930 nacque anche la Federazione Italiana delle Donne giuriste, che riuniva le laureate in legge, scienze politiche e sociali e scienze economiche e commerciali e, per valutare le dimensioni del fenomeno, osserviamo che nel 1938 le donne iscritte nell’Albo nazionale degli avvocati e procuratori furono 60, di cui 35 avvocatesse; l’anno successivo le avvocatesse salirono a 40, mentre i procuratori donna erano già aumentati in maniera sensibile.
Esse, però, persistevano nel lamentare le loro difficoltà ad adattarsi ad un universo a dominanza maschile, con maniere prepotenti e spregiudicate, che batteva i pugni sul tavolo ed alzava la voce nella quotidianità (Z. ALGARDI, Le donne e la toga, Giuffrè, Milano, 1949), secondo un classico cliché. Le donne notaio e giudice La prima richiesta di iscrizione di una donna fra i praticanti notai fu bocciata dalla Corte d’Appello di Roma con sentenza emessa lo 08/04/1914. I giudici, nelle motivazioni apportate alla decisione di esclusione, ritennero che un’ammissione sarebbe stata funzionale ad un futuro esercizio di una professione preclusa alla donna per dettato "della legge speciale e della legge comune" come ogni altro ufficio che implicasse “funzioni attinenti all’azione giudiziaria”.
La prima donna notaio in Italia si ebbe solo negli anni Trenta, quando la Dott.ssa Adelina Pontecorvo che intendeva dedicarsi alla carriera di magistrato, finì per ridimensionare le sue aspirazioni e per affermarsi in questa professione.
Le donne dovettero allora attendere circa trent’anni per entrare in magistratura ed accedere alla carriera di giudice, benché dal 1893 esse avessero, in quanto membri del Collegio dei Probiviri, il potere di giudicare nelle controversie di lavoro; deroga importante a loro concessa, anche se rimaneva riconosciuta un’incapacità generale delle donne all’ufficio arbitrale.