E' di oggi la notizia su Repubblica che una donna di 27 anni, Donatella Hodo tossicodipendente si è suicidata in carcere. Brutto episodio, certo, ma non dissimile da quello che vede ragazzi e uomini compiere i medesimi gesti, sempre in carcere, perchè non vedono una via di uscita. In tal caso però, la loro vicenda viene seppellita sotto una coltre di silenzio se non di disprezzo e di condanna generalizzata per quei "falliti" che non hanno saputo emergere nella vita, facendo della loro un'esistenza "di successo" realizzando e anche dispensando benessere per loro stessi e per gli altri. Un trafiletto di giornale che non richiede troppe parole e troppi sforzi per gli articolisti sarebbe stato considerato anche troppo per loro. Tanto più che, finendo in galera, si sono dimostrati anche doppiamente falliti, facendosi pure beccare. Questo è il mantra ufficiale e questo è quello che chi finisce in gattabuia deve aspettarsi, se di sesso maschile. Non così una femmina, per di più giovane e/o belloccia. In tal caso le teorie giustificazioniste si sprecano. Ma oggi si è verificata l'apoteosi: abbiamo avuto un giudice di sorveglianza, tal Semeraro che ha fatto addirittura il "mea culpa". Essendo il magistrato di sorveglianza, ha dettto: "Potevo fare di più. Il carcere non è un posto per le donne. Gli istituti di pena sono strutturati per gli uomini (da tenere dentro), per contenere la violenza (la loro), ma le detenute hanno bisogno di altro". E cioè (direte voi)? Ma di essere scarcerate. Ovviamente.