Autore Topic: Il crepuscolo dei filosofi  (Letto 1115 volte)

0 Utenti e 1 Visitatore stanno visualizzando questo topic.

Offline jorek

  • Veterano
  • ***
  • Post: 1648
  • Sesso: Maschio
Il crepuscolo dei filosofi
« il: Aprile 22, 2011, 13:21:27 pm »
Il crepuscolo dei filosofi nello sputtanamento del «copia e incolla»
di Francesco Lamendola - 22/04/2011

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

 
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=38481

francesco bucciUmberto galimberti e la mistificazione intellettuale


Certo non aveva in mente una cosa del genere, il buon Giovanni Papini, allorché, nel lontano 1906, dava alle stampe la prima edizione del suo celebre saggio «Il crepuscolo dei filosofi», impietosa stroncatura dei “grandi” maestri della modernità: da Kant a Hegel, da Schopenhauer a Comte, da Spencer a Nietzsche.
La sua era la critica, caustica ma brillante, di un geniale filosofo (oggi ancora non riconosciuto nel suo giusto valore) ad altri “colleghi” filosofi e si collocava, puramente e semplicemente, sul piano delle idee.
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti della filosofia e molti baroni universitari hanno imparato a firmare e pubblicare massicci volumi che sono, in realtà - come tutti sanno, ma nessuno osa dire - il frutto del sudatissimo lavoro di stuoli di schiavetti, di assistenti, di studenti mobilitati e sguinzagliati per l’occasione, ai quali è stato fatto l’alto onore di concorrere alla gloria e alla fama imperitura del loro illustre docente.
E fin qui, tutto sommato, siamo ancora nel solco della tradizione, ossia di un costume che è considerato normale, almeno da un punto di vista giuridico e legale (forse un po’ meno sul piano etico, ma questo a chi importa ancora?).
Ma cosa direbbe oggi Papini, nell’epoca dei filosofi “copia e incolla”, che costruiscono ponderosi e redditizi volumi pescando a piene mani, senza citarle o citandole appena di sfuggita, nelle opere di altri filosofi, passati e presenti; arrivando a punte record dell’80, del 90 e addirittura del 95 per cento di materiale già utilizzato in precedenti opere altrui o anche, segno di una superiore professionalità bipartisan, in precedenti opere proprie?
Questo non è più un crepuscolo e non si colloca sul versante delle idee; è una cosa molto diversa: è uno sputtanamento, e si colloca sul piano della decenza professionale e del rispetto medesimo di quell’alta forma di attività che è il filosofare.
“Sputtanare”, dice il vocabolario Garzanti, è (in italiano volgare, beninteso, dal momento che deriva dal poco raffinato “puttana”), «smascherare, svergognare qualcuno, facendogli perdere la stima altrui»; meno bene lo Zingarelli, per il quale è «sparlare di qualcuno in modo da fargli perdere la reputazione, la considerazione degli altri», dove però si perde il concetto di “smascherare” e quindi di portare a galla una verità nascosta, che è altra cosa dal dare sfogo a una mera calunnia.
Viene sputtanato, dunque, colui che spaccia per farina propria quella che è di altri e che lo fa dall’alto di una posizione importante, da una cattedra universitaria, dai caratteri di stampa di una grossa casa editrice (imbarazzante, poi, la posizione di quelle case editrici che hanno pubblicato sia l’autore che la vittima dei plagi).
Uno studente che cerca di copiare il compito di latino o di matematica e si fa beccare dal professore, subisce una umiliazione, ma non uno sputtanamento, perché lui non copiava per farsi bello, ma per salvarsi, riconoscendo di non sapere; ben altro è il caso di un intellettuale che sia solito farsi bello con le penne altrui, senza pudore e senza vergogna.
Stiamo parlando di una prassi sistematica, ovviamente, e non di un incidente di percorso, di uno scivolone occasionale che può capitare, a determinate condizioni, se non proprio a chiunque, certo a parecchi e che non deve scandalizzare più di tanto, a meno di essere degli ipocriti moralisti sempre a caccia delle debolezze altrui.
Stiamo parlando di un vizio, insomma; di un comportamento recidivo.
E stiamo parlando di intellettuali che spopolano, come si usa dire, allorché vengono invitati a un pubblico dibattuto: sale piene, centinaia di persone che fanno ressa per sentirli, per applaudirli, per sentirsi tutti quanti un po’ filosofi e vivere di riflesso un pochino della loro gloria, della loro intelligenza.
Che tristezza.
Chi lo avrebbe detto che le insospettate possibilità (e relative tentazioni) offerte da Internet e la disinvoltura dell’industria editoriale, sempre più industria e sempre meno cultura, sommati al cinismo di certi intellettuali à la page, debitamente illuministi e progressisti (o magari anche anti-illuministi, ma non importa, ormai tutto è diventato uguale a tutto e non ci si capisce più nulla, o meglio, i comuni mortali non ci capiscono più nulla, perché i maestri capiscono tutto fin troppo bene), ci avrebbero portati a siffatti, sconcertanti esiti?
Eppure, lo avevamo già visto, e continuiamo a vederlo, con l’industria dei falsi d’autore nel campo della pittura: come distinguere un vero da un falso Van Gogh, un vero da un falso Renoir? E come non ricordare la beffa pseudo-intellettuale delle false sculture di Modigliani, spacciata come ultimo ritrovato della critica all’arte che non è più arte?
Certo, qui siamo in un campo più sottile. «In fondo, mancavano solo le virgolette», si difendono gli interessati alla pratica del copia e incolla; una semplice svista, complice un po’ di fretta, un po’ di entusiasmo creativo: tutto qui; che c’è di male?
Certo: che c’è di male a citare brani su brani di altri autori, magari a citarli due volte parlando di autori diversi, al punto che il lettore non capisce più se si sta parlando dell’uno o dell’altro? Che c’è di male a saccheggiare impunemente i pensieri di altri e a farli passare per propri, oppure a copiare se stessi, riproponendo più volte, ma in libri diversi, le stesse frasi, le stesse pagine, senza segnalare la cosa al lettore, soltanto accumulando volumi imponenti fatti all’ottanta o al novanta per cento di materiali riciclati?
In fin dei conti, la cultura ecologica ci insegna che è male sprecare qualsiasi cosa; dunque, perché mai non si dovrebbe fare con la filosofia la stessa cosa che si fa con la carta, con il vetro, con la plastica, con i rifiuti alimentari: vale a dire riutilizzarli, anziché disperderli inutilmente nell’ambiente, dove non serviranno a nessuno, una volta che abbiano fatto il loro percorso; mentre, così, possono rendere un servizio a tante più persone?
D’altra parte, confessiamolo, si prova un invincibile pudore, un imbarazzo più forte di se stessi, a parlare di simili cose: ci si sente più imbarazzati del professore che ha beccato lo studente mentre copiava il compito di latino. Sì, perché il vero professore si sente più imbarazzato dello studente;  e, anche se deve prendere dei provvedimenti, lo fa molto a malincuore: non è mai bello sorprendere qualcuno che sta barando e umiliarlo con una sanzione; non fa mai piacere a nessuno. Se un insegnante vi prova del piacere, allora crediamo che farebbe bene a cambiare mestiere, perché ciò che dovrebbe provare sono tristezza e disagio, non certo soddisfazione.
E così, anche gli intellettuali furbastri che vivono sulla pratica del copia e incolla potrebbero facilmente farla franca; gli Italiani, in particolare, sono un popolo che perdona volentieri, a tutti: ai politici corrotti e disonesti, agli amministratori mafiosi e clientelari, agli imprenditori evasori e inquinatori, ai lavoratori dal certificato medico facile, ai pensionati coi santi in paradiso e agli invalidi che stanno benissimo in salute; persino ai pluriomicidi che, se fanno i bravi in prigione (magari dopo aver strangolato un paio di compagni di carcere), se ne vengono fuori e usufruiscono dei domiciliari, come niente fosse.
E allora, perché non perdonare anche gli intellettuali cialtroni e truffaldini, che si fanno belli con la fatica d’altri? Dopo tutto, non hanno mica ammazzato nessuno, loro; tutt’al più, sono stati un po’ imprudenti, un po’ superficiali: ma insomma, si tratta pur sempre di peccati veniali, commessi senz’altro in buona fede.
E poi, per ognuno di loro che viene colto in flagrante, ce n’è subito un altro che corre prontamente in suo soccorso: lupo non mangia lupo e parlamentare non incrimina parlamentare, figurarsi i baroni universitari: lo stiamo vedendo anche in questi giorni, con lo scandalo che imperversa a Ca’ Foscari, dove un ex sindaco di Venezia, anch’egli filosofo d. o. c., rigorosamente laico e progressista, si è precipitato a difendere il collega inquisito, bollando come “idiozie” le accuse, peraltro documentatissime, nei suoi confronti.
Anche perché da noi, come sempre, si finisce per buttare ogni cosa in politica et voilà, il gioco è fatto: nessuno è colpevole perché sono tutti un po’ colpevoli e tutti un po’ innocenti; se il giornale di destra se la prende con l’intellettuale di sinistra, è perché vuol colpire il giornale di sinistra sulle cui colonne scrive puntualmente quel signore; cioè per spuntare una delle lance del partito antigovernativo, che, insieme ai giudici comunisti, se non addirittura brigatisti, non la smette un minuto di azzannare il Re Buffone, pardon, volevamo dire l’Uomo della Provvidenza.
Insomma non importa quello che hai fatto, importa piuttosto di chi sei amico e di chi sei nemico; anzi, importa in primo luogo di chi sei amico, perché allora si capirà cosa c’è dietro (Italia, regno beato della Dietrologia) e si potrà smascherare l’ignobile congiura dei nemici che, per colpire il Re Buffone, se la prendono con gli intellettuali dell’opposizione.
Insomma, una palude appiccicosa e inestricabile, in cui si resta impigliati peggio che l’uccellino nel vischio; e più ci si sforza di liberarsene, più si finisce imprigionati.
Sono cose da pazzi e che all’estero, giustamente, vengono giudicate esattamente per quello che sono: cioè, alla lettera, cose da pazzi oppure da cialtroni; cose che possono accadere solo in una società che abbia perso ogni rispetto per se stessa, per l’idea di una giustizia e di una morale che stanno al di sopra delle zuffe e delle meschinità di fazione.
Una società dove la Cultura del Sospetto, figlia malata dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento (Marx, Nietzsche, Freud), sta ancora facendo danni apocalittici, perché nessuno ha pensato di dire ai valorosi combattenti che la guerra è finita da un pezzo e che, se qualcuno ha ancora voglia di menar le mani (o la penna), allora che abbia almeno il coraggio di dire chiaro e tondo che lo fa per conquistare o per difendere la sua poltrona, la sua cattedra, i suoi emolumenti e non certo per qualche nobile e disinteressata ragione ideologica o morale.
Sia come sia, la parabola dell’intellettuale specializzato nella tecnica del copia e incolla dovrebbe insegnarci almeno una cosa: che il filosofo  dei grandi numeri (grande casa editrice, grande pubblico, grande tiratura di copie vendute) è soggetto alle stesse tentazioni e debolezze di qualsiasi altro mortale; con l’aggravante, certo, che la sua professione di esercizio disinteressato del pensiero avrebbe pur dovuto insegnargli qualcosa in proposito e, se non altro, evitargli di fare certe figuracce, che vedrebbero sprofondare sotto terra persone con meno pelo sullo stomaco.
Certo, può accadere al filosofo, esattamente come al musicista, al pittore, al poeta, che la sua vena creativa si esaurisca; e allora? Forse che egli deve sempre sfornare delle opere inimitabili, a getto continuo, come l’operaio alla catena di montaggio che sforna senza tregua i pezzi dell’automobile, belli e pronti per l’assemblaggio?
Già, perché il guaio è proprio questo: una volta entrati nel circuito dell’industria editoriale, bisogna produrre sempre, sempre, senza fermarsi mai. Il musicista deve seguitare a comporre opere sublimi, il pittore deve continuare a dipingere capolavori,  e così via; e il filosofo di successo, si sa, deve continuare a scrivere best-sellers filosofici a getto continuo. Deve farlo con la stessa frequenza con cui un certo scrittore ed ex semiologo famoso, una volta all’anno, con precisione cronometrica, immette sul mercato il suo ultimo volume: già destinato in partenza, prima ancora che qualcuno ne abbia rotto il cellophane che lo custodisce, alle zone alte nella classifica dei più venduti…
Dunque, di che stupirsi?
L’Italia è il Paese degli eterni longevi o meglio, come dice il giornalista e scrittore Edmondo Berselli, delle Giovani (e meno giovani) Promesse, dei Soliti Stronzi e dei Venerati Maestri: una Casta di intellettuali veri e finti che si odiano, si temono, si corteggiano, si fanno mille sgambetti, ma che, poi, vanno tutti a mangiare nella stessa trattoria, alla faccia di chi non c’è.
L’Italia è diventata il Paese dove nessuno più arrossisce: né il politico sorpreso a mentire, né il pubblico amministratore sorpreso a rubare, né l’ufficiale dei servizi segreti sorpreso a complottare, depistare, intralciare il corso della giustizia. Perché dovrebbe arrossire un intellettuale sorpreso a scopiazzare?
In Germania, un ministro si è dimesso per molto meno; ma noi siamo più furbi dei Tedeschi, no?

Offline poisonmind

  • Affezionato
  • **
  • Post: 399
  • Sesso: Maschio
  • IV° onora il padre e la madre
Re: Il crepuscolo dei filosofi
« Risposta #1 il: Aprile 22, 2011, 22:30:52 pm »
Alfred Adler

Il temperamento nervoso

1912


 
 
 
Scritto nel 1912, dopo la separazione dal movimento psicoanalitico, “Il temperamento nervoso” completa gli studi di Adler sull’inferiorità degli organi esplorando la dinamica della nevrosi e la genesi dell’organizzazione della personalità con una particolare attenzione ad aspetti sociali e relazionali, ed evidenziando le differenze della sua teoria rispetto al pensiero psicoanalitico tradizionale.


Il distacco da Freud è evidente nel diverso ruolo attribuito alla libido nella formazione della nevrosi: questa non è più causa e fonte delle manifestazioni nevrotiche e viene “condannata” un’eziologia sessuale in quanto il contenuto sessuale dei fenomeni nevrotici non è altro che un simbolo, un mezzo con cui il soggetto cerca di avvicinarsi alla sua meta ideale di virilità. Il complesso edipico, ad esempio, per Adler non è che un’immagine spesso sprovvista di qualunque connotazione sessuale, una rappresentazione della forza maschile e della superiorità del padre nei confronti della madre.


Il punto di partenza dello sviluppo di una nevrosi è il sentimento di inferiorità che fa sorgere il desiderio di trovare una meta che dia una direzione alla vita e che sia fonte di sicurezza. Una sovrastruttura ideale che dia protezione. Il nervoso cerca così di esaltare il valore della propria personalità, ma si trova in uno stato di tensione tale da rendere difficile il suo adattamento alle esigenze della vita sociale. Adattamento reso ancora più improbabile dato il carattere irrealizzabile dell’ideale a cui tende. Può orientarsi verso un’attività esaltata o chiudersi nella passività, in ogni caso artifici imposti dalla meta fittizia. Dotato di “antenne” per captare tutto quanto accade nel suo ambiente e particolarmente orientato verso l’avvenire, si costruisce degli imperativi categorici destinati ad adattare la sua lotta ad ogni nuova situazione. Persegue così il culto dei mezzi con cui ritiene di poter raggiungere il suo scopo, “egli è inchiodato…alla croce della sua finzione”. Ma quanto più è distante da questo scopo tanto più grande sarà la forza della sua finzione dominante. Normalmente la finzione, per permettere di dominare gli altri, ha bisogno di una maschera: questa dissimulazione si ottiene attraverso una controfinzione che ha il compito di imprimere alla finzione direttiva un cambiamento di forma e la obbliga a tener conto delle esigenze morali e sociali. È il coefficiente di sicurezza della volontà di potenza. La salute psichica consiste nella concordanza tra le due finzioni, quando però compare il sentimento d’inferiorità e l’individuo si astrae dalla realtà la controfinzione inizia a retrocedere verso lo sfondo lasciando il posto alla nevrosi con il suo “sentimento esagerato della personalità”.


Possiamo trovare nell’uomo normale equivalenti delle linee d’orientamento e tratti di carattere nevrotici con la differenza però che nell’uomo sano questi sono sempre atti ad essere corretti, a venir avvicinati e integrati con la realtà.


Come il carattere normale, quello nevrotico è composto da materiali psichici preesistenti che si ricollegano al mondo esterno e da esperienze fornite dal funzionamento degli organi che assumono una connotazione nevrotica solo quando il soggetto si trova di fronte all’obbligo di prendere una decisione: l’azione della meta finale diviene oltremodo dogmatica, si rinforzano le linee di orientamento secondarie e assistiamo a una sorta di “solidificazione del carattere”. Siamo di fronte, dunque, ad un fenomeno al servizio di uno scopo fittizio con una direzione imposta da una sovrastruttura psichica ipercompensatrice.


Adler rileva una forte correlazione tra l’inferiorità degli organi e l’ipercompensazione psichica: il sentimento d’inferiorità provocato da un organo permea lo sviluppo psichico. L’insicurezza che ne deriva conduce alla lotta per l’affermazione della personalità, l’esistenza di un organo inferiore impone una compensazione. Il bambino colpito da un’inferiorità costituzionale collocherà il suo “punto fisso” più in alto possibile, le sue linee d’orientamento saranno così precise da rendere impossibili interpretazioni errate ed egli vi si atterrà sia per angoscia che per convinzione. Procederà con precauzione, tenendo conto di pregiudizi, l’aggressività sarà un espediente da sostituire alla sottomissione qualora questa non porti ai risultati attesi. Il bambino ben presto, quindi, si accorge che la sua debolezza ed incapacità gli permettono di far convergere su di lui l’attenzione. Allo stesso scopo può utilizzare invece un atteggiamento negativo e provocatorio. Queste due varianti, insolenza ed obbedienza, contribuiscono entrambi ad aumentare il suo sentimento di personalità.


Adler insiste sul primato della volontà di potenza ritenendo che questa finzione si sviluppa tanto più velocemente e con forza quanto più violento è il sentimento di inferiorità organica provato dal bambino. La forma e il contenuto del comportamento del nevrotico hanno origine nell’impressione del bambino che si sente trascurato. È incapace di afferrare ed eliminare quegli elementi della sua condotta e delle sue percezioni che rappresentano analogie infantili. Questo per Adler può essere ottenuto solamente tramite la Psicologia Individuale mediante l’astrazione, la riduzione e la semplificazione. Attraverso questi procedimenti si scopre sempre che il nevrotico utilizza solamente rapporti di opposizione, categorie antitetiche. Prima fra tutte l’opposizione tra sentimento d’inferiorità ed esaltazione del sentimento di personalità, inoltre molto rilevante e frequente l’opposizione maschile-femminile.

Questi modi di rappresentarsi la realtà falsificano e deformano l’immagine che il nevrotico si fa del mondo e gli permettono di mantenere la sua linea d’orientamento. Per quanto riguarda l’opposizione maschile-femminile è evidente che il nevrotico identifica il sentimento d’inferiorità con la femminilità ed è per questo che nel suo processo compensatorio è spinto ad introdurre nella sua struttura psichica elementi che gli assicurano la virilità. In questo caso, quindi, Adler afferma che il senso della nevrosi può venir espresso nella formula “io sono (come) una femmina e vorrei essere un maschio”. La sfumatura maschile della finzione direttiva è rinforzata, nel bambino, dall’incertezza riguardo la sua parte sessuale (ermafroditismo psichico), e più si prolunga questa incertezza più diventano insistenti i tentativi del soggetto di assumere la parte maschile. In questo modo nasce la forma primitiva della protesta virile e il soggetto cerca di far spiccare in tutte le circostanze della sua vita questa presunta virilità. A volte però il tentativo di comportarsi virilmente incontra qualche ostacolo e il soggetto deve percorrere vie traverse: accade così che l’affermazione virile si serve di mezzi femminili. È in questa situazione psichica, ad esempio, che i fattori sessuali diventano simboli. Il valore della linea sessuale fittizia è costituito dall’appoggio che questa offre al sentimento di personalità e dal potere che ha di creare allucinazioni che il nevrotico trasformerà in anticipazioni. La facoltà allucinatoria è un dispositivo della tendenza alla sicurezza: il soggetto vede davanti a sé una scena simbolica ed astratta e ne anticipa la conclusione. L’allucinazione, come il sogno, hanno lo scopo di mostrare all’uomo la via da seguire per ottenere l’innalzamento e la conservazione della personalità.


Allo stesso modo si osserva nel nevrotico il modo d’appercezione secondo l’opposizione alto-basso: fin dall’infanzia è presente un’associazione tra l’“alto”, puramente spaziale, e tutte le altre superiorità. Il “basso”, invece, è ricondotto alla caduta morale. Questa categoria implica quindi la connessione con idee che esprimono l’opposizione trionfo-sconfitta. Frequentemente il nevrotico esprime il suo sentimento di inferiorità attraverso un’immagine spaziale, una rappresentazione astratta dello spazio che, unita ad un’opposizione fittizia del tipo “tutto o niente”, lo prepara alla lotta.


La nevrosi crea dunque una forte disposizione all’astrazione che induce il soggetto a raggruppare tutti i suoi “fatti interni” ed avvenimenti esterni secondo questo schema di opposizione. Diventa così estraneo alla realtà e rigido.


Adler ritiene che lo psicologo non debba considerare come definitivo questo modo di appercezione e postulare l’esistenza di fattori sessuali reali là dove assistiamo ad una “semplice” finzione. Il suo compito consiste invece “nel mostrare all’ammalato quanto vi sia di superficiale nel suo tentativo d’orientamento, nel distruggerlo in quanto non corrispondente alla realtà dei fatti, e nell’indebolire il sentimento d’inferiorità che cerca ansiosamente linee direttive nella speranza di ottenere mediante raggiri la possibilità di una affermazione virile”. Bisogna cercare di eliminare il sentimento d’inferiorità soggettivo, ed in quanto tale erroneo, e la tendenza al deprezzamento incoraggiando gli sforzi del soggetto e stimolandone la riflessione. Lo psicoterapeuta deve riconoscere il comportamento nevrotico, afferrarne i dispositivi e i tratti del carattere comprendendone lo scopo. “Ora ogni atteggiamento nevrotico contiene allusioni, diciamo celate, alle sue origini e alla sua meta. Questo fatto forma la base del cosiddetto metodo di ‘psicologia individuale’ ”. Il carattere è una routine (alla quale il nervoso si attiene decisamente) e lo scopo a cui mira la Psicologia Individuale è coglierne il significato e determinarne la rappresentazione simbolica.


Sulla base fittizia dei sentimenti di inferiorità, che il nevrotico si rappresenta per ragioni di sicurezza, Adler vede la principale possibilità di guarigione.


In questa trattazione viene dato molto rilievo anche al sogno che viene visto come un “riflesso sommario d’attitudini psichiche” rivelatore del modo in cui il sognatore si comporta rispetto ad un dato problema e che, confondendosi con la linea d’orientamento fittizia, può facilitare il compito di comprensione della stessa. Il carattere astratto del pensiero in sogno è un’espressione della tendenza alla sicurezza che tenta di risolvere un problema semplificandolo e riconducendolo ai problemi più elementari dell’infanzia. Inoltre è la caratteristica di isolamento rispetto alla realtà che rende ancora più astratto il pensiero nel sogno e questa, unita all’assenza di ogni finalità cosciente, ne rende il contenuto incomprensibile al sognatore. Il sogno acquista quindi un particolare significato nel momento in cui lo si considera come un simbolo, un’analogia, un “come se”. È una finzione che riflette i tentativi e le prove antecedenti e che permette al soggetto di dominare una situazione futura. Nei sogni ricorrenti e nei ricordi di sogni infantili si manifesta più chiaramente la linea d’orientamento fittizia. Quando nella stessa notte si susseguono diversi sogni, questi vanno visti come molteplici tentativi di soluzione e sono la prova di una forte incertezza.


Anche su questo punto Adler si discosta da Freud: nel sogno non incontriamo realizzazioni di desideri sessuali infantili, bensì tentativi anticipati di conquistare la sicurezza nei quali si ricorre all’uso di ricordi raggruppati tendenziosamente, ma non direttamente connotati in senso libidico. Nel sogno nevrotico è evidente la tendenza a scegliere ricordi che precedentemente sono stati efficaci. Queste reminescenze sono create dal nevrotico stesso ed è per questo che Adler ritiene indispensabile, per comprendere la nevrosi e i sogni, considerarli da un punto di vista dinamico. Le immagini e i modi di espressione del sogno sono permeati da caratteri maschili e femminili allo stesso tempo, e questo si ricollega all’ermafroditismo psichico: rispondono all’inettitudine infantile a comprendere le differenze tra i sessi e all’assenza delle categorie spazio-temporali nel sogno.


La seconda parte del volume è chiamata da Adler “applicazioni pratiche”: l’autore riporta la descrizione di casi clinici che ha affrontato nel corso della sua esperienza dando un contributo tangibile a quanto aveva spiegato teoricamente. Riporta quindi storie e sogni dei suoi pazienti soffermandosi in particolar modo sui loro evidenti tratti di carattere più comuni. Spesso la nevrosi, afferma Adler, si sviluppa in tre fasi che corrispondono a tre gradi d’incertezza: la prudenza, la prima, è caratterizzata dal timore di perdere qualcosa, di trovarsi in basso, segue l’angoscia in cui il soggetto è sicuro e tormentato dall’idea che si troverà in uno stato di deprivazione. Infine la terza fase è quella della melanconia, in cui il soggetto è convinto di aver perso tutto e non vede una via d’uscita. S’incontrano anche casi, però, in cui i fenomeni nevrotici avvengono in modo “sperimentale” a intervalli patogeni noti.


La linea compensatrice che ispira al nevrotico il desiderio di “avere tutto” non viene sempre seguita in linea retta, ma spesso lo può condurre a manifestazioni nevrotiche particolari, criminali o creative, che lo portano comunque alla meta agognata, ossia l’elevazione del sentimento di personalità.


L’autore parla inoltre di “nevrosi di conflitto”, atteggiamento del nevrotico che lo fa apparire come un nemico del genere umano e lo spinge, in questo modo, di conflitto in conflitto. Questa manifestazione nevrotica è spesso accompagnata da fenomeni ossessivi e da crisi d’angoscia e porta il soggetto al grado massimo d’eccitazione rendendolo inadatto alla vita. Per giustificare questo stato di guerra vengono inventate le ragioni più varie e formulate incessantemente vaghe accuse contro gli altri. Il nevrotico va in questo modo contro le leggi della logica e si compiace nei conflitti in quanto questi assorbono tutta la sua attenzione e lo distraggono dai compiti reali.


Adler raccomanda allo psicoterapeuta, durante il trattamento, di non diventare lui stesso vittima della svalutazione ed umiliazione del paziente. Si è costretti a ricorrere ad artifici tattici per rendere meno efficace la lotta del paziente e per fargli comprendere il vero significato della sua condotta. Inoltre, man mano che l’adattamento alla vita reale aumenta, la protesta virile si accentua e le crisi sono molto più frequenti; quindi bisogna, in primo luogo, cercare di neutralizzare questa reazione. Il miglioramento è visto dal soggetto come una disfatta e spesso si verifica un aggravamento causato esclusivamente dal miglioramento precedente. Ugualmente necessario è tenere in considerazione la protesta tacita del nervoso che si manifesta solitamente alla fine del trattamento.


Inoltre l’autore ci fornisce altre raccomandazioni: è fondamentale che il medico rinunci all’esercizio di un’autorità opprimente, che si astenga da pronostici favorevoli ed eviti di usare termini troppo categorici. L’arte dello psicologo consiste, secondo Adler, nel comprendere i fenomeni (indipendentemente che si tratti di nevrosi, psicosi o di vita “normale”)in quanto essi hanno di antitetico, ponendosi in un’ottica sociale. “La psicologia individuale è un’arte e lo psicologo vero è soprattutto un artista”.

 
Memento Audere Semper (Gabriele D'Annunzio)